Press "Enter" to skip to content

Mormile delitto di Stato: così nacque la “Falange”

26/06/2024 – La mattina dell’11 aprile 1990 Umberto Mormile, 37 anni, educatore nel carcere di massima sicurezza di Opera, è in auto. Sta andando al lavoro. Ma c’è traffico sulla Melegnano-Binasco. All’improvviso viene affiancato da una moto Honda 600. A bordo due uomini della ’ndrangheta: alla guida Antonino Cuzzola, dietro Antonio Schettini che con una pistola a tamburo esplode sei colpi. Mormile muore all’istante. Poco dopo una voce anonima chiama l’Ansa di Bologna: “In relazione a quanto è successo oggi a Milano al carcere, vi dico che il terrorismo non è morto”. Il 27 ottobre l’azione è rivendicata da una sedicente sigla: “Falange Armata”. Poco dopo l’omicidio Mormile, inizia così uno dei più grandi depistaggi della storia italiana ordito dai vertici della ’ndrangheta lombarda e avallato dai Servizi segreti dello Stato. Eppure ci sono voluti 34 anni per poter leggere questa verità in una sentenza, in parte già emersa nel processo reggino ’ndrangheta stragista. Si tratta qua invece delle motivazioni con cui il 15 marzo il giudice di Milano in primo grado ha condannato a 7 anni per concorso nell’omicidio due ex boss del Consorzio mafioso lombardo oggi collaboratori, Salvatore Pace e Vittorio Foschini. È in queste 170 pagine che per la prima volta, un giudice scrive che per le “reali ragioni sottese all’omicidio Mormile” è “certamente ipotizzabile (…) un oscuro scenario di rapporti tra esponenti massimi della ’ndrangheta ed elementi deviati dei servizi segreti. Plurime risultanze probatorie militano intorno a tale ricostruzione”. Alla base di questo inedito quadro ci sono i verbali di Cuzzola e di Foschini.

Fino a pochi mesi prima dell’omicidio, a Opera si trova il superboss Domenico Papalia trasferito dal carcere di Parma. In Emilia il capo cosca ha usufruito di decine di permessi. Qui però la musica cambia. Dopo averne ottenuto uno, viene pizzicato in compagnia di un uomo della ’ndrangheta. Da qui in poi relazioni negative. Papalia si fa trasferire a Treviso. E poi c’è quella frase che Mormile, secondo i pentiti, rivolge ad Antonio Papalia che, su suggerimento del fratello Domenico, tenta di corromperlo con 20 milioni: “Io non sono mica dei Servizi”. Ma, spiega il pentito Foschini, “Mormile non era corrotto, è morto perché non si è voluto corrompere”. E però, secondo l’ultima ricostruzione, il sospetto che conoscesse i rapporti riservati tra i Papalia e i servizi segreti, gli è stato fatale. Questo spiegano Foschini e Cuzzola. Il primo racconta quello che apprese da Antonio Papalia, fratello del superboss (i due sono condannati come mandanti): “Domenico Papalia informava del problema i Servizi segreti, i quali, a loro volta, informavano Antonio Papalia, dando indicazioni su come procedere: tentare di corrompere Mormile e, se avesse rifiutato, provvedere alla sua eliminazione, rivendicando poi l’omicidio con la sigla Falange Armata”. Il giudice: “Foschini spiega come Antonio Papalia (…) comunicava ai suoi, che l’omicidio, su indicazione dei ‘due uomini dei Servizi’ con i quali lo stesso si era nuovamente incontrato, sarebbe dovuto essere rivendicato sotto la sigla Falange Armata” con “la finalità di allontanare i sospetti dalla matrice ’ndranghetista, e ricondurli a quella terroristica”.

Del resto, spiega Foschini, “il fatto che Mormile fosse venuto a conoscenza dei rapporti che Papalia aveva con i Servizi, costituiva un problema non solo per i Papalia, ma anche per i Servizi Segreti e per la famiglia Barbaro. Anche questi avevano rapporti ed erano stati coinvolti nell’accordo per cui da un lato i Barbaro, i Papalia e D’Agostino si sarebbero impegnati a non fare più sequestri, e in cambio i Servizi li avrebbero agevolati”. Non pare un caso che pochi giorni prima dell’omicidio a Milano salga un esponente di vertice della cosca Barbaro. Decisivo un altro passaggio di Foschini: “I servizi segreti la famiglia Papalia non l’hanno mai mollata, ce l’hanno nella scacchiera”. Per Cuzzola poi “i Piromalli avevano acquisito prova documentale dei rapporti di Papalia con i Servizi”.

A illuminare, quel 1990 a Opera ci sono tre verbali inediti dai quali emerge come all’epoca nel carcere un uomo dell’allora Sisde, il servizio segreto civile, entrasse periodicamente “senza registrarsi” e tenesse colloqui riservati con il direttore e il comandante della Polizia penitenziaria. L’ex 007 che non è indagato viene sentito nel 2020: “Dal 1982 al 1996 sono stato alle dipendenze della Presidenza del Consiglio. Poi distaccato al Sisde di Milano. Mi occupavo di assumere informazioni in ambienti carcerari sui detenuti per terrorismo e criminalità organizzata”. All’epoca, il carcere, come riferito da un ex educatrice per averlo appreso da un poliziotto era “un muro di gomma”. A riprova il verbale dell’ex direttore del carcere: “Cercai di capire se il movente” fosse legato “all’ambiente carcerario (…). Non riuscii ad apprendere nulla. Proprio il fatto che nessuna voce circolasse sull’omicidio mi stupì”. Ora 34 anni dopo forse comprendiamo quello strano silenzio di radio carcere.

Davide Milosa e Lucio Musolino (Il Fatto Quotidiano)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Comments are closed.

WP Twitter Auto Publish Powered By : XYZScripts.com