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Sentenza omicidio Mormile, finalmente ‘un raggio di luce nella giurisdizione milanese’

20/06/2024 – Ci sono stati processi, sentenze. Sono stati condannati come mandanti Domenico e Antonio Papalia, Franco Coco Trovato e come esecutori materiali Antonio Schettini e Nino Cuzzola.
A lungo però sulle reali motivazioni che l’11 aprile del 1990 portarono alla morte dell’educatore carcerario Umberto Mormile è stata alzata una cortina fumogena di contraddizioni e depistaggi. Le scorse settimane sono state depositate le motivazioni della sentenza con cui il 15 marzo scorso il gup di Milano ha condannato a 7 anni per il delitto i collaboratori di giustizia Salvatore Pace e Vittorio Foschini. Centosettanta pagine in cui si dà atto di un possibile nuovo scenario: la causale del delitto è da individuare nel rapporto tra ‘Ndrangheta e servizi segreti.
Ne abbiamo parlato con l’avvocato Fabio Repici, difensore di Stefano Mormile, fratello dell’educatore carcerario, Daniela Nunzia Mormile, figlia e sorella di Umberto, che in questi anni si è sempre battuto per fare luce sul caso.

Avvocato Repici, sono passati 34 anni dal delitto dell’educatore carcerario Umberto Mormile, educatore penitenziario del carcere di Opera. Le motivazioni della sentenza del Gip di Milano aprono a un nuovo scenario che sposa quanto lei ed i familiari avevate sempre sostenuto: non c’è solo la ‘Ndrangheta dietro a quel delitto. Il giudice parla di “intreccio di poteri”
È utile fare un resoconto. L’1 agosto 2018 avevo accompagnato Stefano Mormile alla Procura di Milano, per consegnare nelle mani della dirigente della D.d.a. di Milano, Alessandra Dolci, una denuncia finalizzata all’apertura di un nuovo procedimento penale sull’omicidio di Umberto Mormile, segnalando proprio questo: oltre ai mafiosi calabresi già condannati, da Domenico Papalia in giù, c’era dell’altro e per far luce su questo altro occorreva avere il coraggio di accertare le ragioni di quel delitto e quindi illuminare finalmente lo scenario che andava da Domenico Papalia in su. Dopo alcuni anni di indagini la Procura della Repubblica chiese l’archiviazione, con parole che denotavano scetticismo, se non rinuncia, rispetto alle protezioni istituzionali di Domenico Papalia e alla genesi della Falange Armata. Proponemmo opposizione contro quella richiesta di archiviazione, segnalando che due collaboratori di giustizia, Vittorio Foschini e Salvatore Pace, pur essendo rei confessi non erano mai stati processati per l’omicidio Mormile. Soprattutto, rilevammo che Foschini, nel confessare la sua partecipazione all’omicidio, aveva spiegato in dettaglio le collusioni fra Domenico Papalia e i servizi segreti, l’ordine che da esponenti dei servizi segreti era arrivato a Domenico Papalia per far uccidere Umberto Mormile e per far rivendicare il delitto a nome della Falange Armata e i depistaggi che a Milano c’erano stati per infangare la memoria di Umberto Mormile. Il 2 marzo 2022 il Gip di Milano Natalia Imarisio, accogliendo le nostre richieste, ordinò alla Procura di Milano di procedere contro Foschini e Pace. A quel punto i pubblici ministeri, dopo aver chiesto il rinvio a giudizio dei due imputati, proseguirono chiedendo la loro condanna. Il 15 marzo il Gup di Milano Marta Pollicino ha condannato Foschini e Pace e la settimana scorsa ha depositato la motivazione della sentenza. Che è finalmente ben più di un raggio di luce nella giurisdizione milanese sull’omicidio Mormile.

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Umberto Mormile

Un certo scenario era stato già descritto nel 1996 da Antonio Schettini, e successivamente dal collaboratore di giustizia Antonino Cuzzola. Come è possibile che soltanto oggi si arriva a volgere l’attenzione sui servizi di sicurezza?
La ragione va individuata nella necessità di sistema di mantenere l’indicibilità sui colloqui abusivi di Domenico Papalia in carcere con esponenti dei servizi segreti e sugli accordi, più in generale, fra apparati dello Stato e boss mafiosi, con riguardo ai sequestri di persona e ad altro. Fu su quelle basi, disse Schettini nel 1996, che, nella rinegoziazione dei rapporti fra clan e servizi, nacque la Falange Armata. Quelle dichiarazioni di Schettini furono seppellite in qualche “armadio della vergogna” e qualcuno convinse Schettini che fosse necessario infangare la memoria di Umberto Mormile. E la giustizia milanese si adoperò alla bisogna. Alla magistratura ambrosiana non bastarono nemmeno le denunce terribili di Cuzzola, uno dei killer di Mormile, che in pubblica udienza rivelò i depistaggi che avevano nascosto l’indicibile sull’omicidio Mormile, il solito: Domenico Papalia e i servizi segreti, Falange Armata, accordi scellerati fra uomini di ‘Ndrangheta e uomini di Stato sulla pelle delle vittime dei sequestri di persona, ambienti investigativi, giudiziari e professionali inclini a giustificare le collusioni anche dentro le carceri fra boss e servizi segreti. La leva che ha scardinato quei giochi sporchi è venuta da Reggio Calabria. Lì, le indagini del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e poi le sentenze della Corte d’assise e della Corte di assise di appello del processo “’Ndrangheta Stragista” hanno definitivamente sollevato il velo sui rapporti di Domenico Papalia e altri boss delle mafie al Nord Italia – cioè i capi del cosiddetto Consorzio – con apparati dello Stato. Nel processo a carico di Foschini e Pace abbiamo portato proprio gli atti dell’indagine del Pm Lombardo e la sentenza della Corte di assise di Reggio Calabria redatta dalla presidente Ornella Pastore. Non abbiamo fatto in tempo a produrre la sentenza di secondo grado, arrivata quando già avevamo presentato le nostre conclusioni davanti alla Giudice Pollicino. Possiamo dire che grazie all’eccellente operato della giustizia di Reggio Calabria abbiamo dato un contributo alla emancipazione della giurisdizione a Milano, dove nel frattempo si era insediato il nuovo Procuratore della Repubblica Marcello Viola e dove ci sono Giudici che, avendo il coraggio di affermare verità e giustizia, hanno accantonato in un colpo solo trent’anni di sonno della giurisdizione su quel malsano “intreccio di poteri” criminali.

Eppure quella sigla con cui era stato rivendicato il delitto, Falange Armata carceraria, indicava che il delitto Mormile si inseriva in un contesto ancora più grande…
Si inseriva, quale atto fondativo, in quel contesto che ha condotto dritto alla cosiddetta Seconda Repubblica, nella quale i contraenti principali della Falange Armata, ‘Ndrangheta e apparati istituzionali, hanno assunto ruoli di potere che nella Prima Repubblica non avrebbero mai immaginato di poter gestire direttamente.

Lei, opponendosi all’archiviazione delle indagini, con attività investigative precise ha dimostrato documentalmente come su Mormile siano state costruite mistificazioni e falsità. Ha anche sentito uno dei mandanti del delitto, Domenico Papalia…
Umberto Mormile l’11 aprile 1990 era stato ferocemente assassinato e per i trent’anni successivi la giustizia milanese era stata la cassa di risonanza di tutte le più infami calunnie che servivano a deturparne la memoria. Il refrain era che Umberto Mormile fosse un corrotto, al soldo di Domenico Papalia, il quale poi a quel punto non si capiva più perché l’avesse fatto uccidere. Occorreva, però, convincere i cittadini che i favori a Domenico Papalia erano arrivati da Umberto Mormile e così si sarebbero nascosti nell’armadio della vergogna tutti i provvedimenti di favore che Domenico Papalia aveva ricevuto, nessuno dei quali ovviamente firmato da Umberto Mormile: il magistrato di sorveglianza di Roma, per primo, poi il magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia, poi il magistrato di sorveglianza di Milano, poi il magistrato di sorveglianza di Bergamo. Allora, dopo aver documentato chi aveva fatto i favori a Domenico Papalia, mi sono preso la briga di andarlo a interrogare in carcere, autorizzato dal magistrato di sorveglianza. Gli lessi vecchie rivelazioni del pentito Saverio Morabito, rimaste per sempre nel dimenticatoio degli uffici giudiziari. E lì è accaduto quello che non avrei mai potuto prevedere.

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Stefano Mormile © Emanuele Di Stefano 


Che cosa?
È meglio riportare le parole di Domenico Papalia, per evitare di rischiare anche minimamente di distorcerle: «a sbloccare il permesso libero fu la dr.ssa Matone. Ricordo che portai in udienza un carteggio molto consistente e la invitai a leggere tutto. Dopo qualche mese la dr.ssa Matone segnalò al Presidente del Tribunale di sorveglianza che il mio comportamento da detenuto era impeccabile nonostante io fossi detenuto da innocente. Il presidente rispose che era lei il magistrato di sorveglianza e quindi spettava a lei concedermi i permessi … Morabito sapeva che fra me e la dr.ssa Matone era nata una simpatia ed era rimasto un rapporto personale. Tanto che quando lei fu segretaria del Ministro di grazia e giustizia Vassalli e io andavo in permesso mi capitava di telefonarle. Mi aiutò anche per il trasferimento al carcere di Augusta. Poi non continuai a intrattenere rapporti con la dr.ssa Matone perché non volevo che gliene potesse derivare qualche effetto negativo. Ricordo che c’era una suora al carcere, suor Gervasia, che intratteneva rapporti con la dr.ssa Matone segnalandole situazioni meritevoli di valutazione. Anch’io ho collaborato con suor Gervasia. Morabito probabilmente sapendo di questi rapporti ha riferito quelle cose ai magistrati quando collaborò con la giustizia. Ma il comportamento della dr.ssa Matone in relazione ai provvedimenti da lei assunti era del tutto corretto e non si trattava di condotte illecite o di favore». Al di là del bene e del male: il capo dei capi della Ndrangheta al Nord Italia andava in permesso, da ergastolano, e telefonava alla magistrata che guidava la segreteria del Ministro Vassalli. Fossero state le dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, sarebbe da credere che nessuno gli avrebbe risparmiato un processo per calunnia. Ma qui a parlare è stato lo stesso Domenico Papalia. Il quale, dunque, quando dal carcere ordina l’omicidio di Umberto Mormile, in un periodo in cui non riusciva più a ottenere benefici e veniva spinto da esponenti dei servizi segreti coi quali teneva abusivamente contatti dentro il carcere, era persona da anni in personale contatto coi vertici del ministero di grazia e giustizia. Ci rendiamo conto?
Ce n’è abbastanza per fare la radiografia di una certa area del garantismo impunitario all’italiana, che si dimentica delle condizioni dei tanti reietti stritolati nelle aule di giustizia e nelle carceri e si dedica spudoratamente alla costruzione di aggregati di potere spaventosi in sinergia fra apparati, ambienti politici, boss mafiosi ed esponenti apicali dell’eversione neofascista.

A cosa si riferisce?
Giusva Fioravanti e Francesca Mambro
, due degli stragisti neofascisti che hanno ucciso 85 persone alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980, pluriergastolani, sono cittadini a piede libero, abusivamente secondo la pubblica denuncia fatta dal magistrato Giovanni Tamburino nel suo libro “Dietro tutte le trame”. Devo ricordare che Fioravanti e Mambro non hanno mai ammesso le loro responsabilità per la strage di Bologna? E come è stato ritenuto compatibile il loro «sicuro ravvedimento» per la concessione della liberazione condizionale con la loro campagna negazionista finalizzata ad aiutare anche gli attuali imputati per la strage alla stazione di Bologna? Rilevo che Fioravanti e Mambro, da un lato, e Domenico Papalia, dall’altro, condividono la stessa militanza politica e gli stessi sponsor nel dibattito pubblico. Gli stessi che oggi si battono per la grazia in favore di Domenico Papalia.

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Francesca Mambro e Valerio, detto Giusva, Fioravanti © Imagoeconomica

Quanto viene sottovalutata nello scenario generale la figura di Papalia? Il processo ‘Ndrangheta stragista lo indica come il referente massimo del cosiddetto Consorzio, ma forse anche di qualcosa di più…
Sicuramente è l’uomo che deteneva la quota più importante del capitale sociale del Consorzio: le relazioni con gli apparati istituzionali. Inoltre, era il capomafia in più stretti rapporti con quel Vittorio Canale che per decenni è stata la proiezione della ‘Ndrangheta in Costa Azzurra. Quando ad agosto 1989 Papalia ottenne un permesso premio da trascorrere in Calabria, fu sorpreso di ritorno a Parma mentre si trovava in compagnia di Vittorio Canale, sulla cui automobile, utilizzata per il viaggio di Papalia dalla Calabria, furono rinvenuti oltre cento milioni di lire fra contanti e titoli. Canale da innumerevoli risultanze di tanti processi risulta aver operato in simbiosi con Domenico Papalia e la famiglia De Stefano ed è stato al centro di una rete di relazioni di alto profilo ‘ndranghetistico e finanziario anche fra la Liguria e la Costa Azzurra. Addirittura, secondo un collaboratore di giustizia Canale avrebbe pure partecipato a un summit tenutosi in Costa Azzurra con un alto dirigente del Sisde, finalizzato a studiare il modo di far evadere dal carcere Totò Riina. Secondo me in quel network di rapporti, che ha accompagnato la carriera criminale di Domenico Papalia dagli anni Settanta del Novecento, si trova quel “qualcosa di più” che ne ha fatto un vero “capo dei capi”.

Tornando alla Falange Armata è quello il filo che dovrebbe essere seguito per comprendere lo stragismo degli anni Novanta?
È sicuramente uno dei fili decisivi, non l’unico ma perfettamente convergente con altri. Occorre considerare che per alcuni omicidi eseguiti da uomini della ‘Ndrangheta, come nel caso dell’omicidio di Umberto Mormile e dei due carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo uccisi in autostrada nei pressi di Scilla il 18 gennaio 1994, gli stessi killer e persone vicine a loro si adoperarono per rivendicare quei delitti a nome della Falange Armata. Per la precisione, per l’omicidio Mormile la prima rivendicazione, poche ore dopo l’omicidio, ricostruita alla perfezione nei tempi e nei luoghi dal pentito Cuzzola, fu un preannuncio della comparsa della Falange Armata: «Ci conoscerete in seguito». Secondo collaboratori di giustizia ritenuti attendibili, a suggerire a Domenico Papalia quelle rivendicazioni erano stati i suoi referenti nei servizi segreti, per l’esattezza del Sisde. Cosa Nostra, su ordine di Totò Riina, si adoperò a sua volta dal 1992 a effettuare rivendicazioni dei propri delitti a nome della Falange Armata. Le rivendicazioni dei propri crimini era una novità assoluta nella storia di Cosa Nostra. Eppure, lo stesso Gaspare Spatuzza ha raccontato delle lettere di rivendicazioni che egli stesso inviò ad alcune redazioni giornalistiche su ordine di Cristoforo Cannella in occasione delle stragi del 27/28 luglio 1993 a Milano e Roma. Tutt’altro che telefonate di mitomani, dunque, come si era tentato di far credere in sede giudiziaria. Era un disegno al quale parteciparono consapevolmente, con forze esterne alle organizzazioni della criminalità organizzata, prima Papalia e la ‘Ndrangheta e poi Totò Riina e Cosa Nostra. Ritengo che Falange Armata sia stata il grumo ideologico fondativo della cosiddetta Seconda Repubblica.

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Antonino Fava e Vincenzo Garofalo


11 aprile 1990, delitto Mormile, ucciso perché a conoscenza dei rapporti tra servizi e l’ergastolano Papalia. Anno 1993. Il boss di Altofonte Antonino Gioè muore nel carcere di Rebibbia la notte tra il 28 e il 29 luglio. Un “suicidio” si dirà. E’ nelle carceri che si muovono parte dei segreti e dei misteri dietro a stragi e delitti eccellenti?
Sono certo che l’aggregazione che operò con la sigla Falange Armata comprendeva anche personalità che operavano dentro le carceri. Su questo ho raccolto di recente utili elementi che spero di poter utilizzare adeguatamente in sede giudiziaria. Le carceri sono state il buco nero della nostra democrazia e in talune occasioni lo snodo di stipula di accordi indicibili. Si pensi all’avvelenamento in carcere di Gaspare Pisciotta quando si era determinato a rivelare i nomi dei mandanti politici della strage anticomunista di Portella della Ginestra, oppure alla trattativa di Cutolo con esponenti politici e dei servizi segreti durante il sequestro di Ciro Cirillo, oppure a come venne consentito l’avvelenamento di Michele Sindona al carcere di Voghera a marzo 1986, che sia stato praticato dallo stesso Sindona ma evidentemente con sostanze che gli è stato consentito di ricevere o che sia stata strumentalizzata la sua eventuale volontà di simulare un suicidio per toglierlo di mezzo. Per inciso, al momento dell’avvelenamento di Sindona il direttore del carcere di Voghera era lo stesso Aldo Fabozzi che dirigeva il carcere di Opera al momento dell’omicidio di Umberto Mormile. E quel funzionario del Sisde che abbiamo scoperto entrare abusivamente al carcere di Opera già da prima dell’omicidio Mormile, aveva avviato con Fabozzi la sua attività intracarceraria proprio a Voghera.

Anche nel caso di Gioè compare il nome di Papalia…
Certo, nella ultima lettera di Gioè compare il nome di Domenico Papalia nel disperato tentativo di smentire precedenti dichiarazioni di Gioè che coinvolgevano Papalia nel fondamentale episodio relativo all’omicidio di Antonio D’Agostino, commesso a Roma il 2 novembre 1976 e per il quale Papalia già da molti anni era stato condannato all’ergastolo. La cosa incredibile è che anche dopo la sorprendente campagna innocentista che nel 1993 fu avviata in favore di Papalia per l’omicidio D’Agostino, molti collaboratori di giustizia hanno confermato la sua partecipazione a quel delitto. Eppure, dopo una prima richiesta di revisione rigettata dalla Corte di appello di Roma, nel 2017 la Corte di appello di Perugia in un nuovo giudizio di revisione ha assolto Papalia. Nel giudizio perugino tutto è stato fondato su una perizia balistica. Sennonché, nonostante in epoca successiva ci fossero state molte rivelazioni di pentiti che addebitavano a Papalia la partecipazione all’omicidio D’Agostino, la Corte di appello non li sentì. Nemmeno la Procura generale di Perugia chiese il loro esame e poi non propose ricorso per cassazione avverso quella sentenza, che così è divenuta irrevocabile. Rimangono le domande: perché nell’ultima lettera di Gioè compare quell’aiuto a Domenico Papalia e in quali occasioni Gioè aveva riferito della responsabilità di Papalia nell’omicidio D’Agostino? Si dovrebbe pensare che lo abbia fatto involontariamente mentre era intercettato, prima del suo arresto, nel covo di via Ughetti a Palermo. Però simili intercettazioni non sono mai emerse da nessuna parte. L’alternativa è che lo avesse dichiarato in qualche colloquio investigativo negli ultimi giorni di vita, preludio della collaborazione con la giustizia che Gioè secondo tanti aveva deciso di intraprendere. Nel giudizio di revisione di Papalia a Perugia su questo non è stato accertato nulla. E nemmeno in altra sede. Mi sembra l’ennesimo buco nero riguardante certi scenari indicibili.

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Tribunale di Milano © Imagoeconomica

Lei che idea si è fatto? Cosa c’era dietro a quegli intrecci oscuri tra ‘Ndrangheta ed apparati?
La storia delle mafie più importanti, Cosa Nostra e ‘Ndrangheta, è storia immancabile di relazioni proficue con apparati istituzionali. Un settore decisivo in quel piano inclinato è stato quello dei sequestri di persona, pratica criminale inizialmente avviata al Nord Italia da Cosa Nostra ma col tempo diventata quasi monopolio della ‘Ndrangheta. Insieme ad Antonella Beccaria e Mario Vaudano, ne ho scritto abbondantemente ne “I soldi della P2”. Quelle relazioni nella cosiddetta Seconda Repubblica, con lo svuotamento delle rituali sedi politiche nella gestione del potere, hanno avuto ancora più incidenza. Analizzando le gesta, fra gli altri, di Domenico Papalia, in realtà l’unica perplessità che mi viene sulla sua domanda riguarda la locuzione «intrecci oscuri». Se si guardano le cose con obiettività, non mi sembrano per nulla oscuri. Condizionanti nella vita democratica del Paese purtroppo sì.

Tornando alla ricerca della verità sul delitto Mormile qual è il prossimo passo?
Mi lasci dire che il risultato raggiunto con la sentenza nei confronti di Foschini e Pace, per la motivazione depositata la settimana scorsa, è davvero enorme. Quasi nessuno ci credeva e in molti consideravano pura illusione destinata al fallimento l’iniziativa assunta con Stefano Mormile di proporre la denuncia l’1 agosto 2018. Invece, abbiamo ribaltato tante mistificazioni che si erano stratificate in trent’anni di rito ambrosiano e abbiamo ottenuto una sacrosanta riabilitazione morale di Umberto Mormile e la certificazione delle ragioni che hanno portato al suo assassinio. Quindi, intanto c’è da sottolineare la straordinaria soddisfazione per questo risultato, l’alta considerazione per i soggetti istituzionali che lo hanno determinato e la gratitudine per coloro che, fuori da certi circuiti canonici e un po’ retorici di una parte della società civile, hanno condiviso la battaglia fatta con Stefano e con Daniela e Nunzia Mormile, figlia e sorella di Umberto. Naturalmente, si sono aperti ulteriori spiragli che meritano una prosecuzione dell’impegno per la più completa ricerca della verità. Intanto, è auspicabile che il processo ‘Ndrangheta Stragista arrivi a conclusione. In quel caso, l’irrevocabilità della sentenza che ha squarciato il velo sull’intervento di esponenti dei servizi segreti a monte dell’omicidio Mormile e della ideazione della Falange Armata, fornirebbe un ulteriore perno probatorio utile per il giudizio di appello, nel caso in cui Foschini e Pace impugneranno la sentenza. Poi, va approfondito il capitolo relativo agli ingressi di uomini del Sisde nelle carceri. Ho già detto come la sentenza abbia qualificato come reticenti le dichiarazioni di Aldo Fabozzi, direttore del carcere di Opera, Osvaldo Putzolo, comandante della polizia penitenziaria a Opera, e Andrea De Lucia, funzionario del Sisde che faceva ingresso a Opera «senza neppure registrarsi», come è stato sottolineato in sentenza. La Giudice ha sottolineato come non sia stata acquisita la documentazione che negli archivi del Sisde (ora Aisi) non può, almeno in parte, non essere presente. Anche perché, se di quegli ingressi del funzionario del Sisde al carcere milanese non vi fosse traccia negli archivi, dovremmo concludere che quella attività si sviluppava in un quadro di assoluta illegalità. Ancora, dovranno essere acquisiti tutti i provvedimenti emessi della magistratura di sorveglianza dei quali è stato beneficiario Domenico Papalia e per tutti quei benefici fare un approfondito monitoraggio. Infine, anche la questione Falange Armata merita ulteriori approfondimenti, scartata definitivamente la favoletta per gli allocchi, secondo cui si trattava di rivendicazioni fatte da mitomani. Come detto, ho reperito alcuni elementi che ritengo fondamentali per dimostrare che il disegno Falange Armata è stato condiviso a mezzadria fra cosche mafiose e apparati istituzionali.

Aaron Pettinari (AntimafiaDuemila)

 

 

 

 

 

 

 

 

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