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40 anni senza Peppino Impastato: un racconto da Cinisi

(clicca per ingrandire)

di Paolo Bonacini 

Peppino e mafiopoli tra Sicilia ed Emilia

A soli due passi, non a cento, dal casolare dove Giuseppe Impastato venne ucciso la notte del 9 maggio 1978 dalla mafia di Gaetano Badalamenti, don Luigi Ciotti evoca la sana pazzia che conduce alla liberazione.

Era pazza, ci dice, la “Radio Aut” di Peppino a Terrasini, dove ogni venerdì sera andava in onda il programma “Onda pazza a Mafiopoli” che sbeffeggiava il boss e i suoi servi: “Non abbassavano la testa, come la mafia avrebbe voluto, ma alzavano il volume della loro radio e la satira in quegli anni fu uno strumento molto forte per denigrare le mafie. Come pazzo e visionario”, aggiunge don Ciotti, “era quarant’anni fa lo psichiatra Franco Basaglia che riusciva ad aprire i manicomi con la legge 180 per trattare i matti con la dignità che si conviene alle persone”.

E sebbene l’Italia sia oggi in fondo alle classifiche in Europa per la percentuale di spesa sanitaria dedicata alla salute mentale, venti milioni di uomini e donne da allora non sono più stati rinchiusi nei manicomi.

Quanti sono invece gli italiani ancora incatenati all’omertà e alla sudditanza mafiosa? Le migliaia di studenti e ragazzi che sono qui tra Terrasini e Cinisi il 9 maggio 2018, a ricordare Peppino e a raccogliere il testimone della sua serena follia antimafia, fanno intendere che sono sempre meno coloro disposti a cedere alle lusinghe e alle minacce, a cullarsi nel quieto vivere, a credere alla menzogna della “mafia migliore dello Stato”.

Poi nella via centrale di Terrasini, davanti ad un fiume di persone colorate che attendono di partire in corteo e già urlano: “Peppino è vivo e lotta insieme a noi”, capita anche di chiedere ad una anziana signora affacciata al balcone se mi fa salire per qualche ripresa con la telecamera dall’alto. Lei indica un uomo sul marciapiede, a pochi metri da me: “Chieda a mio marito”.

Lui storce la bocca e segna la fine della strada, parlando con l’inconfondibile accento siciliano: “Se dovevi riprendere una bella ragazza giù in riva al mare, ti facevo salire”.

Poi cambia espressione: “Ma per questi qua…” e allarga le braccia a segnare con disprezzo i ragazzi dell’Istituto Comprensivo di Messina che aprono il corteo.

“Hanno tredici anni” gli dico.

Ci pensa un po’ ma scuote ancora la testa: “No, metti che dopo mi cadi giù dal balcone, sono guai”.

“Dal balcone cado solo se mi butti giù te”.

Fine della conversazione: anche a Terrasini, come a Brescello o a Finale Emilia, c’è chi preferisce guardare da un’altra parte.

Peppino Impastato ironizzava a due passi da qui, nella sua radio, parlando del vicino paese in cui viveva: “Siamo nei paraggi del maficipio mafioso, del municipio mafioso. E’ riunita la commissione edilizia e il grande capo Tano Seduto si aggira come uno sparviero nella piazza”.

La piazza è quella di Cinisi, che assomiglia tanto a uno Zocalo messicano con la fontana che zampilla davanti alla chiesa e il municipio bianco da cartolina davanti alle pareti della Montagna Longa.

Nella sala civica il giorno prima del corteo si parla della mafia che ancora c’è sebbene profondamente cambiata, e del lavoro che ancora non c’è sebbene anche quello sia profondamente cambiato.

Sabrina racconta la sua storia: è una giovane operatrice di un call center palermitano al servizio di Unicredit, pagata da un minimo di 60 centesimi a un massimo di 1,2 euro per le sole telefonate andate a buon fine. Dopo otto anni di lavoro per molti ancora non esistono ferie, indennità di malattia, diritti di gravidanza. Massimo 400 euro al mese.

“Siamo in una società che non è in grado di garantire il diritto al lavoro” commenta Umberto Santino, presidente del Centro di Documentazione dedicato a Peppino Impastato, “e va ancora peggio per i diritti SUL lavoro”, che resta precario, a cottimo, soggetto al caporalato e all’intermediazione. E ciò genera un contesto di povertà e di solitudine che non toglie radici alle mafie ma le alimenta, aggiunge il prof. Andrea Lassandri dell’università di Bologna, generando il paradosso all’interno della criminalità organizzata di una élite ricca e di una manovalanza mafiosa povera, specchio illegale della società civile.

C’è anche Susanna Camusso al tavolo e c’è il giorno dopo in manifestazione, gridando infine ai ragazzi dal balcone di casa Impastato: “Non credete a chi dice che sono solo pochi quelli che possono cambiare il mondo; il mondo lo cambiano le persone tutte insieme e ognuno può fare un pezzo di strada”.

Un pezzo di strada, cento passi, anzi mille, li ha percorsi da Terrasini a Cinisi anche il sindaco della Palermo che stende la sua mano sulle terre dove comandavano Riina e Provenzano. “Palermo è la città più cambiata in Europa negli ultimi quarant’anni” ci racconta Leoluca Orlando mentre cammina “grazie all’impegno e al sacrificio della vita di tanti come Peppino Impastato che hanno rotto la rassegnazione di fronte alla identificazione tra Stato e mafia. Che hanno fatto scoppiare le contraddizioni del sistema.”

Perché a pensarci bene quel giovane ragazzo di sinistra che denunciava il maficipio, metteva il dito nella piaga della collusione tra pezzi dello Stato e l’organizzazione criminale con quarant’anni di anticipo sul processo alla trattativa Stato mafia celebrato all’Ucciardone. Che dice con la sentenza del 20 aprile scorso, seppure solo in primo grado e con le parole del pubblico ministero palermitano Nino Di Matteo: “Mentre saltavano in aria i giudici qualcuno nello Stato aiutava Cosa Nostra a cercare di ottenere i risultati che Riina e gli altri boss chiedevano.”

Ancora un po’ più in là, a millecinquecento passi dall’aula bunker del processo, c’è villa Whitaker in corso Cavour a Palermo, splendido palazzo in stile gotico che ospita la Prefettura dove quattro anni dopo la morte di Peppino arrivò il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa per guidare la lotta a Cosa Nostra. Vi restò pochi mesi in quelle splendide sale, perché il prefetto venne ucciso a colpi di kalashnikov in pieno centro assieme alla moglie e ad un agente di scorta il 3 settembre 1982. Neppure un mese prima di morire diceva Dalla Chiesa a Giorgio Bocca su Repubblica: “Una prefettura come prefettura, anche se di prima classe, non mi interessa. Mi interessa la lotta contro la mafia.”

Anche al prefetto che lavora e si muove oggi nelle stesse stanze del generale Dalla Chiesa interessa la lotta contro la mafia, come le interessava quando era prefetto a Reggio Emilia. Ma forse qualcuno da noi non aveva ben capito al tempo delle interdittive quanto fosse concreto il rischio di arresa alla ‘ndrangheta.

Antonella De Miro mi racconta che la mafia stragista del secolo scorso nella sua Sicilia è stata sconfitta grazie al sacrificio dei “partigiani della libertà”, dei “morti che camminavano” sapendo di mettere a repentaglio la propria vita per difendere la Costituzione democratica. Straordinarie persone delle istituzioni e della società organizzata: magistrati, procuratori, uomini delle forze dell’ordine, rappresentanti dello Stato, sindacalisti, giornalisti, politici, con le loro famiglie. La lista delle corone sulle tombe è lunghissima.

Persone che hanno aperto la strada negli anni in cui la cultura mafiosa imperava, con il loro impegno il loro esempio e il loro sacrificio, per una vera rivoluzione culturale ed etica capace di cambiare le cose. La mafia non è sconfitta, sottolinea anche il prefetto De Miro, ma averla ricondotta nella consapevolezza della popolazione e delle istituzioni ad un disvalore è un passaggio storico ed etico ad oggi irreversibile.

Il 7 maggio, assieme al questore Renato Cortese, Antonella de Miro ha ricordato il poliziotto del pool antimafia Ninni Cassarà, di cui ricorreva l’anniversario della nascita, consegnando ai ragazzi di alcuni licei palermitani una sintesi del “Rapporto 161”. E’ la base investigativa contro altrettanti accusati di appartenenza a Cosa Nostra da cui prese avvio il maxi processo istituito da Giovanni Falcone. Il primo denunciato con il nome battuto a macchina era Michele Greco, poi Riina, Provenzano, Badalamenti, per chiudere il lungo elenco con Tommaso Buscetta.

E’ un capitolo tra i più importanti di una storia che bisogna conoscere e trasferire, questo è l’altro tema ricorrente delle giornate siciliane, perché senza conoscenza non si vince alcuna battaglia. Giovanni Impastato dice ai ragazzi che manifestano il 9 maggio: “Vi consegniamo oggi la memoria di mio fratello Giuseppe; usatela per proseguire sulla strada della ribellione al sopruso e alla violenza mafiosa”.

Due giorni tra Palermo e Cinisi sono sufficienti per respirare una buona brezza di mare e rinfrescare i polmoni della piccola delegazione arrivata dalla CGIL di Reggio Emilia. Il quarantesimo di Peppino Impastato si sovrappone agli altri ricordi, alle altre pagine dolorose, ma racconta anche l’orgoglio di una comunità grande, più grande delle mafie, che ha solo bisogno di incontrarsi e riconoscersi in una battaglia comune.

Come a Reggio e in Emilia, viene da dire, dove ancora va troppo di moda sbandierare con enfasi cosa si è già fatto senza fermarsi abbastanza a ragionare su cosa si deve ancora fare per contrastare efficacemente la ‘ndrangheta.

Il 10 agosto del 1982 Giorgio Bocca chiedeva al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa in quell’intervista: “Generale, lei è stato qui in Sicilia tra il ’66 e il ’73. Cosa ha capito allora della mafia e che cosa capisce oggi, nel 1982?”

Risposta: “Allora ho capito una cosa soprattutto: che l’istituto del soggiorno obbligato era un boomerang, qualcosa di superato dalla rivoluzione tecnologica. Ricordo che i miei corleonesi, i Liggio, i Collura, i Criscione, da me denunziati a Corleone per più omicidi nel ’49, si sono tutti ritrovati alle porte di Torino. Chiedevo notizie sul loro conto e mi veniva risposto: sono brave persone, che non disturbano”. Sembra di sentire il sindaco di un comune della Bassa…

Mafia e ‘ndrangheta sono cambiate e nell’era della globalizzazione globalizzano i loro affari reinvestendo vagonate di soldi frutto di provenienza illecita nell’economia del nord. Nulla di sorprendente quindi che nel loro percorso incrocino persone disponibili a collaborare.

Nulla di sorprendente se in una qualsiasi provincia dell’Emilia o della Lombardia o del Piemonte sentiremo raccontare da una nuova Radio Onda Pazza che si stanno incontrando nella pubblica piazza, come urlava con sferzante ironia Peppino Impastato, “I due grandi capi, Tano Seduto e Geronimo Stefanini, sindaco di mafiopoli!!”.

L’importante è che a pagare per le malefatte, la prossima volta, siano i Tano e i Geronimo. Non più i Peppino Impastato.

 

Da: Cgil Reggio Emilia (con foto e video)

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