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Scarpinato: la strage di via D’Amelio ancora tra noi

 

Roberto Scarpinato, la strage di via D'Amelio tra noiTrascrizione integrale dell’intervento del senatore Roberto Scarpinato, ex magistrato e attuale membro della Commissione Parlamentare antimafia, nell’ambito della commemorazione del XXXI anniversario della strage di Via D’Amelio intitolata “Io so chi è Stato” il 19 luglio 2023.

«Questo luogo, via D’Amelio, ha un potere magico che non ha nessun altro luogo di Palermo, ha il potere, grazie a voi che ogni anno tornate qui a presidiarlo, di tenere lontano da qui i riti della vuota retorica di Stato e le passerelle delle autorità. Da trentun’anni lo Stato e i suoi rappresentanti in occasione della commemorazione della strage non hanno l’animo di celebrare i loro riti venendo in questa via e se ne tengono prudentemente lontano, defilandosi in altri luoghi appartati inaccessibili alla gente comune.

Questa prolungata forzata assenza dei rappresentanti dello Stato dal luogo della strage significa che lo Stato non si può presentare in questo luogo con la coscienza a posto, con la coscienza di poter escludere che lo Stato non è coinvolto nella strage, con la coscienza di potere dire che lo Stato ha fatto tutto il possibile per identificare i mandanti e i complici eccellenti di quella strage e quindi i suoi rappresentanti si defilano, si sottraggono al pericolo e al disagio di pubbliche contestazioni.

Questa frattura tra il palazzo e la piazza, tra i luoghi del potere costituito e il popolo si è manifestata nei giorni immediatamente successivi alla strage di via D’Amelio in occasione di un evento drammatico che non ha precedenti nella storia del paese. Mi riferisco a quanto è accaduto il 21 luglio del ’92, in occasione della celebrazione dei funerali di Stato della scorta di Paolo Borsellino, trucidata insieme a lui nella strage del 19 luglio: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

Quel giorno una folla di circa 10.000 persone che tracimava nel sagrato antistante la cattedrale iniziò a gridare ripetutamente nei confronti delle pubbliche autorità che si trovavano all’interno della chiesa “fuori la mafia dalla chiesa” e quando il Presidente della Repubblica e il Capo della Polizia uscirono dalla chiesa, la folla ruppe gli argini del cordone di polizia e si avventò contro di loro circondandoli in modo quasi minaccioso mentre si levava il grido “assassini”. Furono scene drammatiche e si temette il peggio.

Dunque quel che accadde fu che il popolo, invece di stringersi solidale intorno alle figure simbolo dello Stato, il Presidente della Repubblica, il Capo della Polizia, invece di riconoscersi, di rispecchiarsi in quei simboli, li accusava di essere l’emblema di uno Stato in cui non ci si poteva riconoscere, non solo perché non aveva saputo, voluto proteggere Paolo Borsellino, nonostante la sua fosse una morte annunciata, ma anche perché -gridava la folla- la mafia stava dentro lo Stato, espressione cruda, semplificatrice che tuttavia coglieva un nucleo profondo di verità e cioè che il male non era tutto fuori dallo Stato, non albergava solo nei cuori malati di uomini sanguinari come Riina, Provenzano ed altri, ma stava anche dentro lo Stato, si annidava nelle pieghe segrete dello Stato, corrodendolo dall’interno.

A distanza di 31 anni dobbiamo riconoscere che quel grido che si levò quel giorno dal cuore della folla, quel grido che accusava una parte dello Stato di essere complice della strage, quel grido che allora sembrò incomprensibile, inconsulto e irrazionale, conteneva un seme scandaloso e profondo di verità.

Abbiamo tutti gli elementi oggi per potere dolorosamente ammettere la tragica verità che la strage di via D’Amelio non fu solo una strage di mafia, ma una strage che chiama in causa componenti interne dello Stato, componenti che hanno partecipato alla strage e poi hanno depistato le indagini per impedire così che si potesse andare oltre il livello dei semplici esecutori materiali.

Hanno depistato le indagini nell’immediatezza, facendo sparire l’agenda rossa con uno straordinario tempismo, tempismo possibile perché erano a conoscenza in anticipo del luogo e del tempo dell’esecuzione e quindi erano complici.

Hanno continuato a depistare a distanza negli anni mediante la costruzione a tavolino nel 1994 di falsi collaboratori di giustizia con una complessa orchestrazione che ha visto interagire vertici della polizia e vertici dei servizi segreti.

Hanno proseguito nel tempo la loro azione depistante sino a quasi i nostri giorni e questa presenza inquinante che continua a muoversi dietro le quinte ci fa comprendere come la strage di via D’Amelio è ancora una partita aperta, come la strage è ancora tra di noi come un vulcano che non si spegne e che nelle sue viscere conserva un magma infuocato che si teme possa esplodere travolgendo nelle sue verità devastatrici non soltanto destini individuali, ma anche alcuni contrafforti della Repubblica.

Oltre alla continuità nel tempo dei depistaggi c’è un’altra inquietante continuità: la continuità nel tempo dei silenzi dei boss stragisti che conoscono i segreti delle stragi, le causali politiche delle stragi, il nome dei mandanti eccellenti e che continuano a tacere; quando i segreti durano così a lungo nel tempo, significa che su di essi è impresso il sigillo del potere, significa che coloro che conoscono questi segreti ritengono che una valutazione realistica dei rapporti di forza non consente di rompere il silenzio; i boss conoscono la realtà del potere molto meglio dei normali cittadini, sanno che la realtà dello Stato è molto complessa, sanno che accanto allo Stato visibile, legalitario, convive un altro Stato profondo e occulto, dotato di una forza con la quale essi devono fare i conti.

Lo Stato è il magistrato che ti interroga e ti induce a collaborare, ma lo Stato è anche l’uomo dei servizi segreti, degli apparati, che entra subito dopo in carcere senza lasciare traccia e ti chiede: “come sta la famiglia?” e ti lancia un messaggio; lo Stato erano anche gli uomini che hanno fatto sparire l’agenda rossa di Borsellino; i mafiosi all’ergastolo sanno che lo Stato è anche quello che ti può fare trovare impiccato nella tua cella al 41 bis, come è accaduto a Antonino Gioè nel carcere di Rebibbia poco prima che, secondo varie testimonianze, iniziasse a collaborare con la magistratura e rivelasse i segreti delle stragi. I mafiosi ricordano quello che è successo a Luigi Ilardo, capomafia assassinato pochi giorni prima che iniziasse a collaborare con i magistrati ai quali aveva anticipato che avrebbe rivelato l’identità degli uomini dello Stato che avevano partecipato a stragi e omicidi.

I boss stragisti condannati all’ergastolo sanno che i segreti scottanti di cui sono depositari sono un’arma a doppio taglio, dipende da come li gestisci, puoi morire se non li sai mantenere, ma puoi essere premiato con l’uscita dal carcere mediante l’abolizione della norma sull’ergastolo ostativo o con la revoca del 41 bis se sai tenere la bocca chiusa e dai fiducia che nel tempo saranno mantenute le promesse fatte dai complici ai vertici del potere e la fiducia alla fine è stata ripagata: l’approvazione della legge sulla riforma dell’ergastolo ostativo, che consente ai condannati all’ergastolo per le stragi di mafia del ‘92 e del ‘93 di uscire dal carcere senza collaborare e senza neppure l’obbligo di motivare le ragioni del rifiuto di collaborare, assume il significato inequivocabile di una rinuncia dello Stato a conoscere i segreti delle stragi, assume il significato di un’autorizzazione di Stato al silenzio, di una legittimazione e normalizzazione della cultura dell’omertà.

Dunque la strage di via D’Amelio è ancora tra noi con i suoi inquietanti nodi irrisolti, le sue verità indicibili e quell’urlo della folla del 21 luglio ‘92 “assassini!” continua nella sua crudezza a risuonare nell’aria attraverso il tempo e giunge potente sino a oggi, qui.

Quel grido si placherà solo quando e se sapremo la verità che sino ad oggi ci è stata negata.

Così pure non riusciranno a spegnere quell’altro grido della folla gridato il 21 luglio del ‘92 “fuori la mafia dallo Stato”, un grido che è risuonato anche quest’anno il 23 maggio 2023, rinnovato dai partecipanti al corteo organizzato dalle associazioni giovanili e studentesche della Cgil, da altre sigle, cittadini ai quali è stato vietato a colpi di manganello, come se fossero pericolosi e rivoltosi, di potere accedere alla via Notarbartolo e giungere all’albero Falcone, perché si temeva che potessero in qualche modo turbare l’esibizione delle pubbliche autorità sul palco dinanzi all’albero Falcone sul quale era stato invitato a salire il sindaco di Palermo eletto a quella carica con l’assist di Marcello Dell’Utri e di Salvatore Cuffaro.

Abbiamo così ufficializzato che esistono due antimafie, da una parte un’antimafia autorizzata che ha il timbro governativo che continua a raccontare al pubblico una mafia da Corriere dei Piccoli, una mafia costituita solo dai soliti brutti, sporchi e cattivi, Riina, Provenzano, Matteo Messina Denaro, indicati come unici responsabili del male di mafia e come unici artefici delle stragi del ’92 e del ‘93, una mafia che ripetono ormai sconfitta, consegnata al passato, un’antimafia innocua che mette tutto insieme appassionatamente e che non crea nessun imbarazzo a personaggi politici eletti a sindaco di Palermo, a presidente della Regione Siciliana, grazie al placet di personaggi come Dell’Utri e Cuffaro e dall’altro abbiamo un’antimafia popolare, non autorizzata, dei disobbedienti, che, quindi, deve essere messa a tacere e manganellata, perché questa storiella, questa falsificazione della verità della storia non è disposta a bersela e con il grido “fuori la mafia dallo Stato” rinnovato il 23 maggio del 2023 continua a ricordare una verità che nessun governo, nessun manganello, nessuna carica di polizia potrà cancellare perché scritta e accertata con decine e decine di sentenze, scritte grazie al sangue dei nostri martiri: la verità che la mafia è stata ed è dentro lo Stato e ha avuto i volti di presidenti del consiglio, di deputati, di senatori, di sottosegretari di Stato, di presidenti della regione, di assessori regionali, di capi dei servizi segreti della polizia e di tanti altri sepolcri imbiancati che con la mafia e grazie alla mafia hanno costruito carriere politiche e fortune economiche.

La verità accertata con le sentenze è che Riina, Provenzano, Matteo Messina Denaro sarebbero rimasti volgari criminali assicurati alle patrie galere in poco tempo se non avessero goduto di queste protezioni eccellenti; la verità è che Riina e altri personaggi di tal fatti sono stati usati per le stragi e sono stati condannati non soltanto all’ergastolo ma anche a mantenere il silenzio sui loro complici eccellenti.

Quest’anno e ancora di più che negli altri anni lo Stato non può presentarsi in via D’Amelio neanche con una delle sue massime espressioni: il presidente del consiglio Giorgia Meloni.

Il presidente Meloni ha dichiarato più volte che proprio la strage di via D’Amelio era stato l’evento che lo aveva indotto a iniziare la propria attività politica: è evidente che la Meloni cammin facendo ha lasciato per strada Borsellino e ha scelto nuove figure guida.

Non è possibile infatti affermare di ispirare la propria azione ai valori di legalità di Paolo Borsellino e poi dichiarare lutto nazionale con un atto di imperio politico totalmente discrezionale per la morte di Silvio Berlusconi.

Non è possibile dichiararsi ammiratrice di Paolo e nello stesso tempo indicare a tutti gli italiani, al mondo, come esempio da seguire, come modello di virtù repubblicane, un uomo come Berlusconi, che è stato l’antitesi vivente di tutti i valori ai quali Paolo ha dedicato la propria esistenza e per i quali ha sacrificato la propria vita.

Un uomo, Berlusconi, che quando era ancora un imprenditore era già entrato nell’orbita dell’interesse investigativo di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino per i suoi rapporti con i mafiosi e che poi da politico ha portato la mafia dentro lo Stato, arruolando ai vertici delle istituzioni alcuni campioni nazionali della peggiore borghesia mafiosa, referenti di cosa nostra, della camorra, della ‘ndrangheta, tutti condannati per concorso esterno: dal senatore Marcello Dell’Utri, mediatore di Berlusconi nei rapporti con cosa nostra sin dagli anni ‘70 e da lui riproposto alla pubblica ammirazione sino alla fine, ad Antonino D’Alì, nominato al ruolo chiave di sottosegretario agli Interni dove si è attivamente operato a favore dei mafiosi capeggiati da Matteo Messina Denaro, al sottosegretario all’Economia Nicola Cosentino, referente del clan dei Casalesi, al deputato Amadeo Matacena, collegato alla ‘ndrangheta: ha portato la mafia nello Stato!

O forse il presidente Meloni crede che gli italiani vogliono continuare a bersi la favoletta di Stato che la mafia è costituita dai soliti brutti, sporchi e cattivi Riina, Provenzano e che sono gli unici artefici del male di mafia.

Come può il presidente Meloni dichiararsi ammiratrice di Borsellino e contemporaneamente guidare una formazione governativa che giorno dopo giorno sta programmaticamente distruggendo, smantellando a passo di marcia tutti i principali strumenti di contrasto all’illegalità dei colletti bianchi: vogliono impedire le intercettazioni per la corruzione, vogliono abolire l’abuso d’ufficio, vogliono abolire il traffico di influenza, vogliono abolire il concorso esterno, sino al colpo grosso finale di cambiare la Costituzione per sottoporre la Magistratura al controllo del potere politico.

Paolo Borsellino avrebbe fatto le barricate per opporsi a simili disegni!

No, presidente Meloni, è troppo facile, troppo comodo dichiararsi a parole ammiratrice di Borsellino il 19 luglio e scegliere negli altri 364 giorni dell’anno Berlusconi come spirito guida delle riforme della giustizia.

Presidente Meloni, non sono le nostre parole a qualificarci, a dire chi siamo veramente, sono le nostre scelte di vita a dire la nostra verità e a rivelare la nostra vera identità e Lei, presidente Meloni, ha scelto da tempo da che parte stare e le sue scelte dimostrano che Paolo Borsellino non le appartiene: lei ha scelto di stare dalla parte dei palazzi del potere e della ricchezza e questo luogo invece è il simbolo di un uomo, Paolo Borsellino, che in tutta la sua vita fu avversato dal potere e dal potere fu abbandonato e lasciato uccidere.

Abbia rispetto per i nostri morti, Meloni!»

 

https://vimeo.com/847119421

 

 

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