Il 25 settembre 1988, Cosa nostra uccide il giudice Antonino Saetta assieme al figlio Stefano. Il giudice Saetta aveva presieduto i processi di appello per l’assassinio del giudice Chinnici e per quello del capitano dei carabinieri Basile, processi che avevano visto entrambi aggravamento di pene e condanne per gli imputati. Il movente del duplice omicidio è quello di punire un altro magistrato giudicante (dopo l’omicidio del giudice Alberto Giacomelli colpito pochi giorni prima, il 14 settembre 1988) ma soprattutto quello di “prevenire”, per timore della sua onestà e capacità, la sua nomina a presiedere l’appello del Maxiprocesso. Lo stesso avverrà alla viglia del terzo grado dello storico processo contro Cosa nostra. Quando, infatti, nel 1991 il Maxiprocesso di Palermo arriva in Cassazione, il magistrato Antonino Scopelliti è il Sostituto Procuratore Generale della Suprema Corte di Cassazione, è un giudice noto agli addetti ai lavori per la sua competenza e la sua irreprensibilità, a lui era stato già affidato il compito di rappresentare la pubblica accusa in tutti i maggiori processi italiani per terrorismo o per crimini mafiosi, dalla strage di piazza Fontana a Milano (1969), alla strage di piazza della Loggia a Brescia e dell’Italicus (entrambe del 1974), al procedimento riguardante l’assassinio di Aldo Moro (1978) agli omicidi di Walter Tobagi (1980) e Rocco Chinnici (1983), sono più di 1.500 i processi seguiti da Scopelliti nel solo periodo passato in Cassazione. La sua conoscenza dei fatti terribili che hanno insanguinato l’Italia è enorme, la sua incorruttibilità è altrettanto indiscutibile. Il giudice Scopelliti aveva accettato di sostenere l’accusa nella fase che avrebbe portato il Maxiprocesso alla sentenza definitiva. Viene ucciso a Campo Calabro il 9 agosto 1991 con un delitto che rivela la collaborazione di Cosa Nostra e ‘ndrangheta, come sottolinea lo stesso Giovanni Falcone in una intervista al quotidiano La Stampa una settimana dopo affermando che “le organizzazioni mafiose (Cosa Nostra siciliana e ‘ndrangheta calabrese) probabilmente sono molto più collegate tra di loro di quanto si affermi ufficialmente”. Intuizione che, come molte altre di Falcone, troverà poi puntuale riscontro 27 anni dopo con le dichiarazioni di diversi pentiti nelle indagini in corso a Caltanissetta e Reggio Calabria e nei dibattimenti nel processo “’Ndrangheta stragista”, in quello contro il boss Messina denaro per la “Strage di Via D’Amelio” ed nel processo “Capaci bis”.
A meno di un anno dagli omicidi dei giudici Giacomelli e Saetta, Cosa Nostra alza ancora il tiro mettendo in atto il 21 giugno 1989 l‘attentato all’Addaura contro il giudice Falcone che doveva incontrare i suoi colleghi svizzeri in visita a Palermo per i riscontri relativi alle rogatorie internazionale per i reati finanziari del riciclaggio di denaro derivante dall’inchiesta Pizza Connection. L’attentato fallisce, ad esso ed alle relative indagini, vengono attribuiti gli omicidi degli agenti di polizia e del SISDE entrambi con compiti relativi alla cattura di latitanti, Emanuele Piazza e Antonino Agostino per i cui delitti nel 2011 vengono indagati per depistaggio e favoreggiamento di Cosa nostra alcuni personaggi vicini all’allora Alto Commissariato Antimafia, al SISDE ed al funzionario di polizia e dei servizi Bruno Contrada. Scampato all’attentato Falcone parla di mandanti non appartenenti a Cosa nostra e centri occulti di potere che orientano e guidano le azioni di Cosa nostra. Il giudice è estremamente chiaro su questo tema e su questi intrecci, nella sua affermazione completa a L’Unità parla in maniera molto precisa di “menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l’impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi….Sto assistendo allo stesso meccanismo che portò all’eliminazione del generale Dalla Chiesa…il copione è quello, basta avere occhi per vedere”. Il giudice Falcone esprime, in pratica, la stessa affermazione pronunciata dal giudice Borsellino alla moglie quando le disse di avere visto “la mafia in diretta” e che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, riferendosi a colleghi ed altri esponenti delle istituzioni, tra cui l’allora comandante dei ROS Subranni ed alla sua presunta connivenza con Cosa nostra.
Il 24-10-1990, l’allora presidente del consiglio Giulio Andreotti in un intervento alla Camera dei Deputati riconosce l’esistenza dell’Organizzazione Gladio – Stay Behind, che era emersa già nel 1984 attraverso le rivelazioni di Vincenzo Vinciguerra, ex militante di Ordine Nuovo nel corso del processo sulla strage di Peteano, di cui il Vinciguerra confessa, unico caso nella storia delle stragi in Italia, di essere l’autore. Il processo si conclude con la condanna del Vinciguerra nel 1987 ed il giudice istruttore di Venezia Felice Casson invia per competenza alla Procura di Roma tutti gli incartamenti relativi all’organizzazione Gladio. Il segreto non può essere mantenuto ancora a lungo e nel 1990, in una rapida successione di eventi, soprattutto dopo un famoso servizio giornalistico d’inchiesta di Ennio Remondino, trasmesso da RAI 1 dal 28 giugno al 2 luglio 1990, l’allora Presidente del Consiglio Andreotti è costretto a rilasciare al giudice Casson l’accesso agli archivi del SISMI (27 Luglio), a riconoscere (2 agosto 1990) davanti alla Commissione Parlamentare Stragi l’esistenza di Gladio ed a fornine informazioni (18 ottobre) sull’organizzazione segreta, per poi procedere allo scioglimento dell’organizzazione (27 novembre). In questo contesto, a brevissima distanza dalla scoperta della seconda parte del Memoriale Moro nel covo BR di Via Montenevoso a Milano (9 ottobre 1990), Andreotti dà seguito anche all’ammissione pubblica dell’esistenza di Gladio il 24 ottobre 1990.
Questo apre la possibilità per Giovanni Falcone di sviluppare le indagini ed individuare collegamenti con inchieste su delitti precedenti che egli aveva già cominciato ad acquisire prima dell’attentato all’Addaura e che aveva intenzione di rivedere alla luce della nuova fase storica e delle rinnovate possibilità di inchiesta che si aprivano dopo la rivelazione dell’esistenza della struttura occulta. Le sue riflessioni e i suoi tentativi di avviare indagini presso la Procura di Palermo, furono duramente ostacolate se non del tutto impedite dall’allora Procuratore Piero Giammanco, gli accadimenti di quel periodo vengono affidati da Falcone ai suoi diari elettronici che non saranno mai ritrovati ma i cui contenuti vennero parzialmente pubblicati dalla giornalista Liana Milella su Il Sole24Ore e poi, ovviamente, condivisi anche con l’amico e collega Paolo Borsellino. Lo stesso giudice Borsellino, proprio sulla base di alcune di queste indicazioni, aveva dichiarato pubblicamente di avere dei contenuti da riferire agli organi giudiziari e, molto probabilmente, aveva anche avviato delle indagini personali sulla morte dell’amico e collega Giovanni Falcone.
Piero Giammanco, magistrato molto vicino a Mario D’Acquisto ed alla corrente andreottiana in Sicilia era stato nominato, come lo stesso Falcone, Procuratore Aggiunto della Procura di Palermo ed aveva chiesto a Falcone il suo appoggio per poter ricoprire l’incarico di Procuratore Capo in cambio della promessa di affidargli la responsabilità del coordinamento delle inchieste antimafia, da sviluppare senza alcun intralcio nello svolgimento del suo lavoro. Falcone accetta e la sua fiducia viene immediatamente tradita. Di fatto Giammanco costituisce quel blocco da parte andreottiana contro tutte le iniziative di indagine cui Falcone avrebbe potuto dare corso con la sua attività investigativa e che il capo corrente a Roma, Andreotti, non poteva più fermare direttamente, dopo aver dato risonanza pubblica all’esistenza di Gladio.
Sono molto probabilmente questi i temi contenuti nelle “confidenze” affidate da Giovanni Falcone all’amico e collega Paolo Borsellino e da questi menzionate nel corso dell’intenso discorso tenuto il 25 giugno 1992 alla Biblioteca Comunale di Palermo, quando afferma: “In questo momento, oltre che magistrato, io sono testimone. Sono testimone perché avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone ..e avendo raccolto comunque come amico di Giovanni Falcone tante sue confidenze, prima di parlare in pubblico delle opinioni che mi sono fatto raccogliendo tali confidenze, questi elementi che io porto dentro di me, devo per prima cosa assemblarli e riferirli all’Autorità Giudiziaria, l’unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell’evento che ha posto fine alla vita di Giovanni”
Gli appunti del Diario di Falcone, come diffusi da Liana Milella contengono una serie desolante di circostanze riguardanti la difficoltà e l’amarezza subìte nell’esercizio delle sue funzioni nella Procura diretta da Giammanco e ai continui atti di scortesia, scenate, rinvii, esclusioni, omissioni, temporeggiamenti che causano decorrenza dei termini per l’avvio di attività investigative o chiusura di indagini a favore di esponenti regionali vicini alla corrente andreottiana, controllo delle attività esterne del giudice Falcone, assegnazione ad altri colleghi di fascicoli a lui diretti, archiviazioni a sua insaputa, ostacoli e impedimenti anche alla semplice conoscenza di indagini e informazioni riguardanti temi estremamente significativi e di interesse nazionale come i delitti eccellenti di Palermo, la P2, l’organizzazione Gladio, traffici di stupefacenti. E’sinceramente molto triste leggere i passaggi del diario in cui Falcone trascrive: “Protesto per non essere stato previamente informato … faccio presente che sono prontissimo a qualsiasi diverso mio impiego ma che, se si vuole mantenermi il coordinamento delle indagini antimafia, questo coordinamento deve essere effettivo. Grandi promesse di collaborazione e di lealtà per risposta” o concusioni come quelle affidate alla giornalista ed alla quale motiva il suo trasferimento a Roma: “E per questo che sono andato via da Palermo. Tienili questi fogli, non si sa mai ….Che ci rimanevo a fare? Per fare polemiche ogni giorno? Per subire umiliazioni? Per non lavorare? O soltanto per fornire un alibi?”
Circostanze che giungono all’opinione pubblica e sulla cui autenticità il commento più autorevole è quello contenuto nelle parole di Paolo Borsellino: “Posso dire soltanto .. che questi appunti che sono stati pubblicati dalla stampa, sul “Sole 24 Ore” … li avevo letti in vita di Giovanni Falcone. Sono proprio appunti di Giovanni Falcone, perché non vorrei che su questo un giorno potessero essere avanzati dei dubbi”.
Nel Gennaio 1992 la sentenza del Maxiprocesso di Palermo, grazie al criterio di rotazione nell’assegnazione dei procedimenti in Cassazione, secondo una proposta di Falcone (traferitosi a Roma presso la Direzione degli Affari Penali del Ministero della Giustizia) passa ad altro giudice e non come al solito alla Prima sezione, dove per mano di Corrado Carnevale venivano regolarmente annullati, e supera il terzo grado di giudizio diventando definitiva assieme a tutti gli ergastoli comminati e mettendo fine all’impunità della mafia. Di lì a poco Cosa nostra elimina Salvo Lima e Ignazio Salvo. Nello stesso periodo il giudice Paolo Borsellino si insedia come Procuratore Aggiunto presso la Procura della Repubblica di Palermo e quasi contemporaneamente entra in vigore la normativa che regolamenta le DDA – Direzioni Distrettuali Antimafia che fanno capo alla DNA – Direzione Nazionale Antimafia, istituite dal decreto legge 20-11-91, convertito nella legge n.8 del 20-1-92 e la DIA – Direzione Investigativa Antimafia, che diventa operativa all’inizio del 1992 dopo essere stata istituita con il decreto legislativo n.345 del 29-10-91, convertito in legge dello Stato con la legge 410 del 30-12- 1991. Entrambe le normative erano state approvate grazie alla determinazione di Giovanni Falcone, in forze presso la Direzione Generale degli Affari Penali del Ministero di Grazia e Giustizia dove aveva deciso di prestare servizio in seguito al clima derivante dai contrasti e dagli ostacoli subiti dall’allora capo della Procura di Palermo, Giammanco. Le due nuove strutture investigative e giudiziarie centralizzano a livello nazionale e locale le indagini su mafia, appalti, politica e finanza, costituendo un esemplare modello di lotta alla criminalità di tipo mafioso ed alla sua rete di tipo economico-finanziario e politico-istituzionale. Giovanni Falcone è il candidato d’eccellenza per la posizione di Procuratore Nazionale Antimafia, con la quale intende riprendere le sue originarie competenze e funzioni di magistrato investigativo con potenzialità estremamente più ampie rispetto a quelle imposte dai limiti subiti alla Procura di Palermo e verso la quale vuole incanalare tutte le indagini rimaste in sospeso dopo il suo trasferimento all’Ufficio Affari Penali del Ministero di Grazia e Giustizia, probabilmente a cominciare dal coordinamento delle indagini sull’organizzazione Gladio avviate da diverse procure nazionali e dal loro collegamento con gli omicidi eccellenti di uomini politici ed istituzionali (Reina, Mattarella, La Torre, Dalla Chiesa, Lima) che erano avvenuti nel corso degli anni ’80 o con la prima strage mafiosa avente finalità terroristiche, quella del Rapido 904 avvenuta nel 1984 (per la quale venne usata la stessa miscela e tipologia di esplosivo militare utilizzate per l’attentato di Pizzolungo, per l’attentato dell’Addaura e per quello di Via D’Amelio).
E’ questo il contesto determinante per inquadrare il movente reale della strage di Capaci, un delitto di tipo preventivo, come quelli nei confronti dei giudici Saetta e Scopelliti, volto a contrastare quello che Falcone sarebbe stato in grado di fare nella posizione di Procuratore Capo Nazionale Antimafia e con i suoi (negli ambienti noti) interessi per il ruolo svolto dalle organizzazioni Gladio e P2 nei delitti eccellenti degli Anni Ottanta nonché nei traffici e nelle operazioni occulte in corso presso la provincia di Trapani facenti capo alle attività massoniche del Circolo Scontrino ed al Centro Operativo Scorpione del SISMI in cui si svolgevano molte operazioni sotto copertura di Gladio (riferimenti tristemente noti perchè in collegamento con le indagini sugli omicidi di Graziella De Palo, Italo Toni, Mauro Rostagno, Ilaria Alpi, Miran Hrovatin, Vincenzo Li Causi e sulla strage alla caserma dei Carabinieri di Alcamo Marina avvenuta nel 1976).
A questo proposito, è molto chiaro il punto di vista del giudice Antonino Di Matteo: “In quel momento, quando Falcone non era più alla Procura di Palermo, ma all’Ufficio degli Affari Penali del Ministero della Giustizia a Roma continuava ad avere attenzione per la vicenda Gladio …Giovanni Falcone aveva indagato a lungo e credeva nella pista della collaborazione tra la mafia e la destra eversiva nell’omicidio di Piersanti Mattarella. E non dobbiamo dimenticare che nell’ultimo periodo di presenza a Palermo, Falcone aveva raccolto le dichiarazioni appartenenti a quell’ala politica, prima ancora che uscisse l’elenco di Gladio e probabilmente quelle dichiarazioni potevano fare riferimento all’esistenza di quella strategia segreta, ancor prima che Andreotti rivelasse l’esistenza della lista dei gladiatori”.
Analogamente, il giornalista Saverio Lodato, con cui Falcone chiede di parlare all’indomani dell’attentato dell’Addaura, dà uno spaccato estremamente significativo di quel frangente e delle valutazioni fatte dal giudice : “Giovanni Falcone fa in tempo prima di morire a vedere che quella mafia che aveva iniziato a conoscere e scoprire come tale, nel corso del suo lavoro gli si trasforma sotto gli occhi, diventa qualcosa di molto più inquietante e allarmante.Non solo un potere criminale che in qualche modo si diceva semplicisticamente che faceva la guerra allo Stato ma una mafia dietro alla quale lo stesso Falcone alcuni anni prima di Capaci avverte alcune presenze occulte che suggeriscono alla mafia che la guidano e in qualche modo “istradano” nei suoi processi criminali….. Lui dice di avere finalmente capito che dietro Cosa nostra ci sono delle “menti raffinatissime” che guidano il gioco della mafia”
Nel febbraio 1992 a Milano inizia il corso di inchieste sulla corruzione nel mondo dell’impresa e della politica al Nord Italia noto come Mani Pulite, che provoca di lì a poco il crollo del sistema partitico della cd. Prima Repubblica e offre un’ulteriore conferma al tramonto dei rapporti tra Cosa nostra e il sistema partitico della Prima Repubblica, già avviato dalle inchieste del Pool Antimafia di Palermo che avevano creato un conrto circuito nei legami tra la mafia e la corrente andreottiana della DC. In quel frangente storico la figura di Giovanni Falcone era densa di significati di grande impatto sia per l’opinione pubblica e la società italiana che per la consorteria mafiosa e per i poteri occulti attivi in Italia ed esterni a Cosa nostra. Falcone rappresentava uno spartiacque tra due fasi diverse della storia, non solo processuale, dei rapporti tra politica, Stato e mafia. Nel corso della requisitoria per il processo sulla trattativa Stato-mafia, il Pubblico Ministero Roberto Tartaglia descrive così il suo ruolo storico: “Giovanni Falcone nel 1991 segnò uno spartiacque nella lotta a Cosa nostra, da quel momento è mutata la strategia nei confronti di Cosa nostra … Cosa nostra vede in soggetti come Falcone e l’allora ministro dell’Interno Vincenzo Scotti l’emblema del cambiamento. Viene modificato, ad esempio, il regime sulla custodia cautelare, viene introdotto il doppio binario. Il primo marzo 1991 viene approvato il decreto legge di interpretazione che fa il governo sugli articoli che disciplinano il calcolo della decorrenza della custodia. E’ un effetto che agli occhi di Cosa nostra è stato devastante. Altra azione decisiva è stata poi l’introduzione della regola della turnazione in Cassazione dei processi di mafia spostando l’assegnazione dalla I° sezione, presieduta da Carnevale, ad altre sezioni. Brusca disse che era diventata un’ossessione per Riina la mano di Falcone in Cassazione. La colpa veniva data a Falcone, Lima, Andreotti e Martelli”. E’ in quel momento che, secondo la ricostruzione dei PM, “Cosa nostra diventa consapevole di non poter acquisire quel risultato sul Maxi e questa convinzione viene maturata mentre si fa un tragico tentativo attraverso l’omicidio di Scopelliti”.
Il 23 maggio 1992, l’eliminazione del Giudice Falcone avviene in una modalità estremamente significativa utilizzando appositamente una strage eclatante invece che la tradizionale forma di maggiore discrezione e facilità di solito preferita dalla mafia. Ciò non avviene a caso ed i significati simbolici dell’omicidio mafioso, dal sasso in bocca alle autobomba alle azioni di guerra, hanno precisi riferimenti e specifici interlocutori, in questo caso anche diversi tra loro ed a diversi livelli del panorama istituzionale. I significati di questa modalità stragistiche, esattamente come era avvenuto per l’attentato all’Addaura, e i necessari supporti esterni ricevuti dalla mafia per realizzare questo tipo di attentanto cominciano a profilarsi come una “realtà diversa” da quella che sino a quel momento era stata catalogata semplicemente come una guerra solo di Cosa nostra contro chi ne minacciava gli interessi. E’ così che emerge la presenza di “menti raffinatissime” esterne a Cosa nostra, compartecipi nell’ideazione, nell’organizzazione e nell’esecuzione materiale della strage di Capaci e della successiva messa in atto in Via D’Amelio contro Paolo Borsellino.
Questa è una verità che deve condurre necessariamente ad altre valutazioni e direzioni sia l’opinione pubblica, sia naturalmente l’azione giudiziaria ma, soprattutto, gli orientamenti della politica e quella degli organi di informazione. Il processo di ricerca della verità non può fermarsi alle attuali acquisizioni, per quanto queste siano già di importanze storica per molti versi. “La verità che è stata accertata”, sostiene il giudice Di Matteo, “è ancora una verità parziale. Proprio la conoscenza degli atti delle inchieste e dei processi, la lettura analitica delle sentenze che sono state emesse ci porta a ritenere che è stato possibile, ma mi sento di dire altamente probabile che insieme agli uomini di Cosa nostra abbiano partecipato alla strage, nel momento del mandato stragista, organizzazione ed esecuzione, anche altri uomini estranei alla mafia”.
I riscontri delle indagini recenti, in questo senso, evidenziano come ci fosse una sorta di muro di omertà e silenzio interno alla stessa organizzazione Cosa nostra, addirittura fino ai membri della commissione provinciale di Palermo, sul vero significato e sulle trame sottese all’organizzazione della stagione delle stragi a Palermo e poi a Roma, Firenze e Milano, sul contenuto delle riunioni tenute nelle campagne di Enna nel 1991, nel corso delle quali si mise a punto un progetto per l’attuazione di un complesso piano di destabilizzazione politica suggerito da entità esterne, per il quale si pensò anche all’utilizzo di una sigla terroristica di copertura per la rivendicazione degli attentati che venne individuata nella Falange Armata e con cui furono rivendicati molti delitti di quegli anni. Riunioni riservate e strategiche inconfessabili anche agli stessi uomini di Cosa nostra, con decisioni motivate da fattori ai cui contenuti non era consentito accedere se non al circolo ristretto dei vertici corleonesi, pena la distruzione della stessa Cosa nostra.
Si tratta, dunque, di una strategia ben studiata, di una serie di delitti di eccezionale gravità commessi con modalità di voluto impatto terroristico, ideati e commessi non solo per fare fronte ad interessi di Cosa Nostra ma per attuare una linea perseguita da altre entità molto probabilmente anche di intelligence, politiche, finanziarie, imprenditoriali non soltanto nazionali ma anche internazionali. Questo è, praticamente, quanto emerge già nel 1993 da una informativa della Dia, operativa da appena un anno, che segnala come: dietro le stragi si muoveva una “aggregazione di tipo orizzontale, in cui ciascuno dei componenti è portatore di interessi particolari perseguibili nell’ambito di un progetto più complesso in cui convergono finalità diverse” e dietro gli esecutori mafiosi c’erano menti che avevano “dimestichezza con le dinamiche del terrorismo e con i meccanismi della comunicazione di massa nonché una capacità di sondare gli ambienti della politica e di interpretarne i segnali”.
Queste considerazioni trovano riscontro anche per quanto riguarda le indagini sulla strage di Capaci nel corso delle quali, grazie all’apporto di diversi collaboratori di giustizia, è emerso come tra i pianificatori ed organizzatori della strage ci fosse la presenza di un esponente storico della destra estrema, Pietro Rampulla, ex-appartenente ad Ordine Nuovo, esperto di esplosivi, segnalato da Antonino Gioè, altro esperto di esplosivi che aveva avuto rapporti diretti con i servizi segreti ed era presente a Capaci, oltre alla circostanza del ritrovamento di un biglietto con i riferimenti telefonici di alcune sedi del SISDE a Roma e Palermo e di personaggi appartenenti ai servizi tra cui il capo centro di Palermo. Le investigazioni porteranno, inoltre, ad una specie di agenzia esperta in clonazioni di cui si servivano anche i mafiosi che fecero uso proprio di telefonini clonati nel corso della realizzazione dell’attentato. Dall’individuazione delle tracce dei telefoni clonati si è appurato che Gioè nelle fasi precedenti alla strage aveva utilizzato un telefonino fantasma, cioè apparentemente disattivato, con cui ha chiamato per ben tre volte un numero del Minnesota, negli Stati Uniti. Vale la pena di ricordare che lo stesso Gioè venne ritrovato cadavere nella sua cella, apparentemente per suicidio, nel 1993, poco prima di iniziare la sua collaborazione con la giustizia e poco dopo aver ricevuto in carcere la visita di esponenti dei servizi. A questo si somma l’inquietante coincidenza con la strage in cui morì il capo dell’Ufficio Istruzione di palermo Rocco Chinnici, quando l’Fbi, tenendo sotto controllo le utenze di Gino Mineo, un mafioso di primo piano residente negli Stati Uniti, aveva intercettato che questi, al telefono con un anonimo interlocutore di Palermo, veniva informato dell’esito dell’eccidio appena avvenuto in Via Pipitone Federico..
Riscontri del genere, però, dovrebbero valere anche e, soprattutto, per quanto concerne gli ambienti esterni a Cosa nostra, come ha più volte sottolineato il Procuratore Generale della Repubblica di Palermo Roberto Scarpinato affermando come “sono ancora ignoti i personaggi che, dopo la strage di Capaci, si affrettarono a ispezionare i file del computer di Falcone (riguardanti Gladio e i delitti politico-mafiosi) nel suo ufficio romano al Ministero della Giustizia, alla ricerca di documenti scottanti di cui evidentemente conoscevano l’esistenza. E restano senza nome anche gli uomini degli apparati di sicurezza che fornirono ai mafiosi le riservatissime informazioni logistiche indispensabili per uccidere Falcone già nel 1989 nel momento in cui si sarebbe concesso un bagno sulla scogliera del suo villino all’Addaura”.
A questo proposito una ulteriore considerazione necessaria, per gli approfondimenti della quale ciascuno può fare riferimento agli esiti degli iter processuali ed investigativi più recenti, è quella relativa al fatto che gli anni in cui Giovanni Falcone e Paolo Borsellino svolgevano la propria attività in Sicilia erano caratterizzati dalla presenza di personaggi istituzionali, in particolare quelli che lavoravano intorno ai due magistrati, che hanno indagato sulle stragi di cui sono stati vittime e che come tutte le principali figure istituzionali italiane allora competenti per i relativi settori, vale a dire Presidente della Repubblica, Ministro degli Interni, Capo della Polizia, Alto Commissariato per la lotta alla mafia, Questore di Palermo, vertici del ROS dei Carabinieri, noti esponenti di vertice dei servizi di sicurezza (con tanto di scandalo insabbiato sulla dotazione di fondi neri attivi tra servizio segreto civile e Ministri degli Interni), Capi delle Procure di Palermo e Caltanissetta, giudici della Corte di Cassazione, Presidenti della Commissione Parlamentare Antimafia, parlamentari, uomini politici anche di governo, etc., sono state tutte indistintamente toccate da gravissimi sospetti, di omissioni o comportamenti equivoci, favoreggiamento, connivenza, depistaggi, quando non addirittura indagate o condannate.
Valutazioni che hanno trovato ampi riscontri anche nelle dichiarazioni di collaboratori di grande attendibilità e calibro, con esperienza di rapporrti ed apparati di intelligence nazionale ed internazionale come, ad esempio, Francesco di Carlo, il quale ha in più sedi sostenuto la convinzione che “la mafia da sola non avrebbe avuto il coraggio di uccidere Falcone e Borsellino. Ma i due giudici non colpivano soltanto la mafia. Per scoprire i flussi di denaro sporco hanno varcato (introdotto) il segreto bancario perfino in Svizzera: bisognava fermarli e lo hanno fatto”. Considerazioni dalle quali emerge con grande evidenza quella convergenza di interessi tra mafia, politica, finanza, servizi segreti, non solo italiani, che potrebbe avere determinato le stragi di Capaci e via D’Amelio, convergenza finalizzata alla realizzazione e al mantenimento degli interessi propri di ciascuna delle suddette componenti che non hanno esitato a ricorrere ad azioni delittuose oggi qualvolta tali interessi sono stati posti in pericolo.
E’ questo, dal punto di vista dell’analisi storica e sociale dei fatti sinora emersi, il risultato di quanto gravita attorno alla strategia di eliminazione preventiva posta in essere contro Giovanni Falcone per la quale, come affermato da Antonino Di Matteo: “Quello di Capaci è stato un attentato che non è stato fatto solo per motivi di vendetta, visto che il giudice aveva istruito il maxiprocesso….La finalità della vendetta c’è stata, ma non è stato l’unico aspetto del movente. C’è stata una motivazione preventiva, perché Falcone ispirando il governo sulla politica della lotta alla mafia, con il ministro Martelli, stava provocando dei danni a Cosa nostra ed altri ne avrebbe provocati”.
E Paolo Borsellino aveva, come evidente, sin da subito un quadro estremamente e drammaticamente chiaro di quanto oggi comncia ad assurgere al rango di prova, un quadro che sente l’esigenza di comunicare immediatamente nel citato discorso del 25 giugno 1992 alla Biblioteca Comunale di Palermo, quando afferma che “l’organizzazione mafiosa, quando ha preparato ed attuato l’attentato del 23 maggio, l’ha preparato ed attuato proprio nel momento in cui, a mio parere, si erano concretizzate tutte le condizioni perché Giovanni Falcone, nonostante la violenta opposizione di buona parte del Consiglio Superiore della Magistratura, era ormai a un passo, secondo le notizie che io conoscevo, che gli avevo comunicato e che egli sapeva, e che ritengo fossero conosciute anche al di fuori del Consiglio, al di fuori del Palazzo, dico, era ormai a un passo dal diventare il Direttore Nazionale Antimafia …quello che non si può contestare è che Giovanni Falcone in questa sua breve, brevissima esperienza ministeriale lavorò soprattutto per potere al più presto continuare, ritornare a fare il magistrato. Ed è questo che gli è stato impedito, perché è questo che faceva paura”.
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