Intervista al Colonnello Michele Riccio, importante testimone del processo trattativa Stato-mafia
– Colonnello Riccio, ad un certo punto della sua attività investigativa, Luigi Ilardo, suo confidente, le riferì notizie sullo scenario politico che andava delineandosi. Lei le ha rese note deponendo al processo trattativa: “Nel ’94, nel corso di una riunione a Caltanissetta, fu comunicata ai capimafia locali la strategia di Bernardo Provenzano: tornare a un vertice unitario di Cosa nostra, far cessare la violenza e appoggiare Forza Italia con cui si era stabilito un contatto tramite un personaggio insospettabile che era nell’entourage di Berlusconi. In cambio Cosa nostra avrebbe avuto dei vantaggi anche normativi”.
Ritenne subito attendibili quelle parole? E in seguito, si ritrovò a riflettere sull’incredibile risultato elettorale riportato da quel partito e da quel leader di partito proprio in Sicilia e sulla promozione di determinate leggi palesemente d’ostacolo per la lotta alla mafia ?
“Giudicai attendibile Ilardo sin dal nostro primo incontro. Mi parlò subito di Rampulla, amico che dai tempi dell’università di Messina frequentata assieme ai vari Romeo Paolo, Aldo Pardo e Rosario Cattafi.
Rampulla dopo aver militato per un certo tempo nella destra extra parlamentare, sviluppò una vera e propria passione per gli esplosivi che in breve tempo lo condusse ad essere un esperto nel realizzare sofisticati ordigni esplosivi con attivazione anche a distanza.
Era certo che lui fosse uno degli artificieri della strage di Capaci. Lo aveva presentato tempo prima ai vertici di Cosa nostra a Palermo, dove aveva dato dimostrazioni delle sue capacità. Ma quando fece un accenno all’esistenza di quel connubio di ambienti politico–istituzionali deviati che con il supporto dei servizi segreti, della massoneria e della destra eversiva aveva negli anni Settanta promosso le stagioni dei golpe e ora con l’apporto della criminalità organizzata di tipo mafioso le stragi e gli attentati degli anni novanta, destò ancora di più la mia attenzione.
Fece un nome, quello del gran maestro Savona Luigi, quale anello di congiunzione tra questi mondi, ed allora ebbi la certezza di trovarmi di fronte a qualcosa di veramente importante che stentai a credere si fosse davvero materializzato. Savona Luigi, il potente massone torinese, era già stato oggetto di mie indagini condotte con l’allora Ten. Col. Nicolò Bozzo, mio superiore nei nuclei speciali anticrimine, che avevamo avviato su incarico particolare del Gen. Carlo Alberto dalla Chiesa.
Indagini nei confronti di quegli ambienti deviati istituzionali ed alle loro strategie criminali di cui lo stesso Generale ne parlò in seguito ai magistrati di Milano, Turone e Colombo nel maggio 1981. Dopo aver informato dei risultati di quel primo incontro Gianni de Gennaro, mio direttore alla DIA che, mi aveva dato l’incarico di gestire Ilardo, ne parlai successivamente anche con Bozzo il quale disse: “comandante, finalmente ci siamo”.
Quando alle elezioni politiche del 2001 Forza Italia con i suoi alleati, realizzò una vittoria senza precedenti, 60 seggi a zero, ebbi l’ulteriore conferma che Provenzano era riuscito nel suo compito di compattare Cosa nostra e indirizzarla ad appoggiare quel nuovo soggetto politico, ma solo nell’apparenza, con il quale aveva stretto un patto di reciproco sostegno. Provenzano ormai libero dell’ingombrante figura di Riina, Bagarella e compagni aveva finalmente condotto l’organizzazione, verso acque più tranquille, un ritorno all’antico, più colloquiante con quei settori amici, propri di quell’apparato istituzionale deviato.
Ambienti politici di riferimento, come mi confidò Ilardo, che sin dagli inizi degli anni Novanta gli avevano consigliato di aspettare con pazienza tempi migliori vista l’incertezza politica di quei tempi e di non seguire la strategia, sempre più antagonista con lo Stato, che stava prendendo Riina che poi lo avrebbe condotto a compiere le stragi e gli attentati degli anni Novanta.
In realtà era stato proprio Provenzano a strumentalizzare con abilità la parte violenta dell’azione di comando del compagno, in modo da far rinascere come la fenice dalle sue ceneri una nuova Cosa nostra più moderna, più colloquiante con le Istituzioni, più affaristica e meno nota agli inquirenti”.
– Di pochi mesi fa, la sentenza del processo che l’ha vista protagonista fra i testimoni; Mario Mori condannato a 12 anni e con lui Antonio Subranni, l’uomo che Luigi Ilardo avrebbe indicato fra i collusi semmai fosse arrivato a formalizzare la sua collaborazione con le forze dell’ordine. Non ci arrivò. Forse per l’Italia non ci sarà mai una vera giustizia riguardo questi fatti che raccontano molto più di quel che viene colto dall’opinione pubblica, ma almeno per lei che vide vanificare e minimizzare le sue fatiche investigative proprio da questi individui, c’è la dovuta giustizia in queste condanne ?
“Questa prima sentenza, anche se è un primo passo importante, è ancora lontana per rendere giustizia a quanti hanno creduto e dato tutto, alcuni anche la vita a questo Stato ancora ostaggio di poteri oscuri. E i loro servi prima millantando visioni risorgimentali ed interessi atlantici hanno dato vita ad un unico piano criminale reiterato negli anni con un sistematico innalzamento del livello di “tensione” per assicurare il potere agli ambienti politici di riferimento e poi stretto intese famigerate con Cosa nostra. Intese e patti che avevano poi visto quelle istituzioni deviate essere, in alcuni casi, i mandanti di delitti eccellenti e di stragi di cui la Mafia era stata indotta ad esserne l’autore ed a pagarne poi le conseguenze”.
– Il mancato arresto di Provenzano a Mezzojuso è qualcosa di sconcertante; l’Italia intera attendeva quel momento; le bombe e il sangue delle stragi di tre anni prima erano ancora nell’aria e per quanto fosse ovvio come le lunghe latitanze dei boss corleonesi fossero frutto di patti sporchi, nessuno poteva davvero immaginare cosa stesse accadendo. Lei fu il primo a vivere lo sconcerto dinanzi alle scuse pretestuose dei suoi superiori che impedirono quell’arresto. Provi a raccontare come visse quei momenti. Ricordiamo che oltre a non intervenire, le fu chiesto di non fare relazioni di servizio in merito alle confidenze di Ilardo sul casolare occupato da Provenzano…
“Non potrò mai dimenticare il senso di frustrazione e di amarezza che seguì dopo che avevo individuato il casolare di Mezzojuso dove Provenzano organizzava gli incontri con gli affiliati a lui più vicini. L’imbarazzo e il disagio che provavo ad ogni incontro con Ilardo nel dover affrontare le sue domande se avevamo già visto Provenzano nel luogo che ci aveva indicato e se era stata già programmata la sua cattura, mentre io dovevo chiedergli invece di ripercorrere ancora il tragitto fatto nei giorni precedenti per recarsi a Mezzojuso.
Ciò perché gli ‘specialisti’ del ROS di Mori non avevano nemmeno individuato la strada che conduceva al casolare, che era di una facilità sconcertante, e nonostante avessi riconfermato più volte le indicazioni date. E con Ilardo fummo costretti a ripetere ben due volte il tragitto con il timore di essere scoperti.
La situazione non cambiò nemmeno quando provai a propormi nell’eseguire io quel lavoro e i successivi appostamenti ricordando che già in altre occasioni e con i medesimi scenari operativi con l’ausilio di pochi uomini della DIA, avevo sviluppato con successo le indicazioni di Ilardo giungendo all’arresto di più latitanti di livello dell’organizzazione. La risposta fu sempre la stessa da parte di Mori, quello non era un mio compito, ma dei suoi ‘specialisti’.
Gli “specialisti”, ovvero De Caprio che non faceva altro che lamentarsi del superiore che non gli dava a suo dire né i mezzi né il personale per questo lavoro. Ero sconcertato, allibito ad assistere a queste scene. Che dire: Maschere. Silenzio assoluto era la risposta che avevo quando chiedevo l’esito dello sviluppo delle indagini in merito alle indicazioni precise date sempre da Ilardo nei confronti dei favoreggiatori del boss latitante, come targhe, nomi, numeri di telefono da porre sotto controllo. Questo stato di inefficienza e di omissione proseguì per tutta l’indagine.
Gli esempi sarebbero tanti, molti riportati nel mio rapporto Grande Oriente. Avrei voluto che qualcuno avesse chiesto spiegazioni punto su punto su quanto era stato fatto in merito alle informazioni riportate nel referto. Input investigativi nessuno.
Invece ebbi la richiesta di non fare relazioni scritte, disposizione che ovviamente non eseguii e produssi 20 relazioni a Mori lungo tutta l’indagine che, come al tempo della DIA, erano poi inoltrate all’AG di Palermo referente dell’indagine. Nonostante l’evidenza dei riscontri, come l’esistenza di altri referti in cui si faceva menzione e riferimento a queste relazioni, Mori ha negato l’esistenza di questi importanti documenti.
E come quel detto popolare che dice: “Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi” il collega non si ricordò che altro suo dipendente fortunatamente mi aveva dato copia su floppy disk delle relazioni, su mia richiesta con la scusa che mi sarebbero servite quando un domani sarei stato chiamato in qualche aula di tribunale a testimoniare sul lavoro svolto.
Fatto grave non solo nei confronti dell’AG, ma ancor più del dipendente che, quale fiducia potrà mai avere del superiore quando si troverà ad affrontare contesti investigativi delicati e le relazioni di servizio costituiscono tutela e testimonianza del lavoro svolto?
La vicenda che considero ancor più inaccettabile fu poi la richiesta di pilotare la collaborazione formale di Ilardo solo nei confronti dell’AG di Caltanissetta dott. Tinebra escludendo l’AG di Palermo con la quale era stata sin dall’inizio avviata l’indagine. Ovviamente non eseguii la disposizione, lasciando che Ilardo incontrasse le due AG e facesse autonomamente le sue scelte. Pochi giorno dopo quell’incontro Ilardo a Catania veniva ucciso a colpi di arma da fuoco da killers di Cosa nostra”.
-L’ombra dei servizi segreti aleggia su tutti i casi relegati alla voce “misteri italiani”. Il rapimento di Moro, i legami con la banda della Magliana, Cosa nostra, le telefonate della Falange armata dagli uffici del Sismi, sono solo alcune delle vicende che hanno interessato la presenza dei servizi in posizioni tutt’altro che chiare. Come immaginava questo apparato dello Stato quando decise di diventarne servitore e cosa pensa oggi?
“Pur provenendo da una famiglia di ufficiali dell’esercito, negli anni trascorsi all’accademia militare e poi alla scuola di applicazione, non mi posi mai domande sulla esistenza dei Servizi Segreti. Le mie conoscenze si fermavano ai libri di avventure e quanto visto al cinema. La prima conoscenza l’ho fatta quando ero al comando della tenenza di Muggia un cittadina attigua a Trieste e posta proprio sul confine jugoslavo, erano gli anni ‘72 – ‘75.
Erano anni in cui si addensavano con maggior frequenza nubi minacciose sul panorama nazionale e l’instabilità delle nazioni ad Est era sempre più crescente con frequenti problematiche ai confini. Da quella prima conoscenza non ebbi una grande impressione di efficienza, tutt’altro. Giudizio che ho confermato anche in seguito nei tantissimi contatti e le tante conoscenze avute, specialmente a partire dall’ottobre 1978 quando entrai a far parte dei Nuclei speciali Lotta al Terrorismo del gen. Dalla Chiesa mio superiore dal 1975 e per il quale avevo già svolto più incarichi investigativi.
Da quegli ambienti non ho mai ricevuto una informazione degna di nota, il loro compito era evidentemente altro. Parlare di inquinamenti, depistaggi, delegittimazione non basterebbe un libro, credo che la migliore e sintetica risposta sia nelle parole di un mio vecchio amico: – Quantunque incapaci, i servizi segreti italiani si presentarono per quello che volevano essere: ladroni, ladri, ladruncoli. Certamente non erano al servizio dello Stato -”
-Per restare in tema di servizi segreti, “Faccia da mostro”, è morto di morte naturale ?
“’Faccia da mostro’, come lo definì sinteticamente Ilardo era, secondo le sue descrizioni, una persona alta, magra e di brutto aspetto. Questi faceva parte o era al soldo dei Servizi Segreti ed ebbe un ruolo nelle morti di Claudio Domino il bambino ucciso a Palermo nell’ottobre del 1986, così negli omicidi sempre avvenuti a Palermo dell’agente di PS Agostino Antonino, della moglie Castelluccio Giovanna nell’agosto 1989 e poi dell’altro agente di PS e collaboratore del SISDE Piazza Emanuele del marzo 1990.
Giovanni Aiello ritenuto faccia da mostro nell’agosto 2017 è morto d’infarto. Le morti sospette nei servizi segreti e negli ambienti collaterali non sono state affatto una rarità e sono state sempre provvidenziali per il Potere”
-Cosa pensa delle incredibili carriere che accomunano uomini dell’arma “distratti” – nella migliore delle ipotesi definiti “negligenti” – e come se le spiega ?
“Senza affrontare lunghi discorsi, desidero solo riportare alcuni avvenimenti. Nel 1986 Mario Mori assume il comando del gruppo centro dei carabinieri di Palermo e l’allora colonnello Antonio Subranni quello della legione carabinieri di Palermo. Incarichi che ricopriranno fino ad ottobre del 1989.
Capo della squadra mobile di quella città in quegli anni è Arnaldo la Barbera a doppio servizio tra la PS e il SISDE (nome in codice Catullo). Bruno Contrada è tra i vertici di comando al SISDE. Nella mia informativa Grande Oriente verrà indicato secondo le dichiarazioni di Ilardo ‘l’uomo dei misteri’ e trait-d’union fra Cosa nostra e istituzioni. Mori sarà teste della sua difesa dopo la consegna del mio rapporto alle AG siciliane.
Il 7 ottobre 1986 un killer tuttora sconosciuto uccise con un colpo di pistola nel quartiere San Lorenzo un bambino Claudio Domino. Nel maggio 1989 il vice questore Arnaldo La Barbera arresta Salvatore Contorno nei pressi di Palermo. Nei primi dell’estate 1989 giunsero le lettere del “corvo” con le quali iniziò la delegittimazione del giudice Falcone accusato di aver organizzato in combutta con Gianni De Gennaro il rientro in Sicilia di Contorno per favorire la cattura o la eliminazione fisica dei capi corleonesi di Cosa nostra.
Il 20 giugno 1989 il fallito attentato all’Addaura; viene rinvenuto un ordigno esplosivo composto da un timer e 58 candelotti di dinamite, che doveva colpire Falcone e alcuni magistrati svizzeri riunitisi per esaminare i canali del riciclaggio dei proventi illeciti di Cosa nostra. L’artificiere dei carabinieri il maresciallo Tumino, distrugge maldestramente il timer dell’ordigno esplosivo, limitando l’opera di verifica dei periti che dimostrano ugualmente la pericolosità distruttiva della bomba.
Iniziarono presto a circolare voci che si trattava di un finto attentato e che addirittura fosse stato organizzato dalla stessa vittima.
Nel processo poi celebratosi a Caltanissetta emerse che vi fu una colpevole operazione indirizzata a sminuire l’enorme gravità dell’attentato, riportando un semplice atto minatorio, ciò anche a seguito delle deposizioni del Dott. Domenico Sica, capo dell’Alto commissariato antimafia, del Dott. Francesco Misiani altro magistrato e collaboratore di Sica e del ten col. Mori Mario al tempo comandate del gruppo di Palermo.
La sentenza emessa dalla Corte di Cassazione del 19 ottobre 2004 riporta: “Resta il dato sconcertante che autorevoli personaggi pubblici investiti di alte cariche e di elevate responsabilità, si siano lasciati andare in una vicenda che, per la sua eccezionale gravità, imponeva la massima cautela, a così imprudenti dichiarazioni tali da fornire lo spunto ai molteplici nemici di inventare la tesi del falso attentato”.
Nell’ agosto 1989 in Palermo avveniva l’omicidio dell’agente di PS Agostino Antonino, e della moglie Castelluccio Giovanna. Seguito poi nel marzo 1990 dall’omicidio avvenuto sempre nel medesimo capoluogo dell’agente di PS e collaboratore del SISDE Piazza Emanuele.
Questi omicidi collegati al fallito attentato dell’Addaura, furono oggetto da parte di numerosi depistaggi posti in essere, in parte, anche dagli stessi organi investigativi. Ilardo nel corso della sua collaborazione mi rappresenterà che avrebbe fatto luce su tutti questi avvenimenti nel corso della sua collaborazione ufficiale con l’AG, notizia che riportai ai miei superiori documentandola anche per iscritto.
Mai nessuno di loro, visto che riguardavano avvenimenti accaduti nel corso del loro comando in Sicilia, mi chiese solo per curiosità notizie in merito. Certo è che prima di incontrare i magistrati di Palermo e Caltanissetta a Roma presso il comando ROS, nel presentare Ilardo a Mori alle dure e improvvise parole del collaboratore dirette frontalmente al collega: ‘Molti attentati che erano stati addebitati esclusivamente a Cosa nostra, in realtà erano stati commissionati dallo Stato..”’, questi preferì non rispondere, come mi sarei aspettato che facesse, ma preferì, contrariato, allontanarsi precipitosamente dall’ufficio.
Tempo dopo Mori quale direttore del Sisde, nominato nel 2001 dal governo Berlusconi, si occupò della posizione di Dell’Utri e Previti, con due informative del Sisde, anticipate da La Repubblica del 7 settembre 2002, che rivelava che un’informativa del Sisde indirizzata alla presidenza del consiglio aveva segnalato che Dell’Utri e Previti (già ministro della difesa) si trovavano a rischio di attentati da parte di Cosa nostra, in considerazione del fatto che essi erano stati “mascariati” , ovvero ne era stata infangata l’immagine.
Il dott. Tinebra nello stesso periodo e dallo stesso governo fu nominato al vertice del D.a.p.. Il gen. Subranni è stato consulente del presidente della Regione Siciliana Provenzano (Forza Italia).
Prof. Provenzano che, in qualità di commercialista della famiglia dell’allora latitante Provenzano, fu arrestato dall’Ufficio istruzione di Palermo negli anni Ottanta e successivamente prosciolto. In quel procedimento emerse, comunque, pacificamente che il prof. Provenzano era stato fiduciario di Saveria Benedetta Palazzolo, notoriamente compagna di Bernardo Provenzano.”
-Cosa sente di dire pubblicamente al magistrato Nino Di Matteo dopo quel processo e dopo quella sentenza ?
“Ancora oggi chi cerca effettivamente la libertà, chi tenta di farlo viene duramente combattuto, osteggiato, messo all’angolo per poi essere calunniato, a secondo il momento e le convenienze.
Si accorgerà di essere sempre più solo, con il supporto di pochi, non farà parte di alcuna squadra e la sua voce avrà sempre meno eco, per lui niente sconti, nessun favore e tutto ciò accadrà nell’indifferenza più totale. Quando molti conoscono la verità e tacciono o per viltà o nella convinzione di trarne un vantaggio.
Ambiguità, ipocrisia, rinuncia alla propria identità ed al proprio dovere sono compromessi per la costruzione di una comoda e finta democrazia. Un male che ha radici antiche. Parlare, ricercare la verità, comprendere la storia è un atto di libertà.”
Francesca Scoleri
da: ThemiseMetis
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