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Il Diario della Memoria – Paolo Borsellino – prima parte

Paolo Borsellinodi Luciana De Luca per Il Quotidiano del Sud

«Paolo non volle fuggire. Si sacrificò per amore e per la sua Palermo»


Il giudice Borsellino venne assassinato il 19 luglio del 1992. Il fratello Salvatore lo ricorda. Dall’amore per il jazz a quello per la legge

«Mamma, è vero che vuoi più bene a me che al milanese?». E la madre di Paolo Borsellino, il giudice Paolo Borsellino, rispondeva prontamente: «Paolo, il bene di una madre per i propri figli non si può misurare in quantità, perché ogni madre dà ad ogni figlio il bene di cui ha bisogno. A te do il bene che si deve a un figlio che rischia ogni giorno la vita, a tuo fratello, invece, che vive lontano, cerco di dargli, quando lo sento, attraverso la voce, tutte quelle carezze che non posso fargli». Li ricorda ancora Salvatore Borsellino, fratello del magistrato ucciso a Palermo il 19 luglio del 1992, insieme ad Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina e alla prima donna a far parte di una scorta, Emanuela Loi, i racconti di sua madre dopo la strage. Gli parlava di quel figlio perduto, dei fiori che le aveva portato per il suo compleanno accompagnati da un biglietto sul quale aveva scritto: «Grazie» e tutte le parole ancora impresse nella sua mente quando Paolo andava a trovarla nella casa di via D’Amelio che condivideva con la figlia Rita, alla ricerca di un conforto interiore che solo lei poteva dargli seppur, apparentemente, toccava a lui rasserenare gli animi, allontanare i pericoli e ridurre, agli occhi della donna che gli aveva dato la vita, l’entità del rischio al quale era sottoposto. E il magistrato era bravo con le parole, con le parole e i gesti spontanei che la riempivano di calore e riuscivano a tenere lontani i fantasmi che spesso le assalivano la mente.

Famiglia Borsellino
La famiglia Borsellino al mare

Maria Pia Lepanto e Diego Borsellino erano entrambi farmacisti e vivevano nel quartiere popolare della Kalsa. Mentre Diego si occupava a tempo pieno della sua farmacia, Maria seguiva con particolare dedizione i suoi quattro figli: Adele Anna, Paolo Emanuele, Salvatore e Rita.

«La figura centrale della nostra famiglia era nostra madre – ricorda Salvatore Borsellino – è a lei che dobbiamo veramente tutto. Ci ha insegnato l’amore, il rispetto, il senso dello Stato, ci ha insegnato anche e soprattutto l’amore per la lettura. Lei leggeva tantissimo, aveva una biblioteca sterminata con testi non molto conosciuti come gli autori americani e molti siciliani come Leonardo Sciascia che era il nostro idolo da ragazzi, e lei non ci poteva vedere senza un libro in mano, appena ne finivamo uno, ce ne offriva subito un altro. Tutti noi figli eravamo legatissimi a lei anche se ognuno in maniera diversa. La figura di nostro padre, invece, era piuttosto incolore perché lui era farmacista e parlava solo di medicinali, tra l’altro lavorava tantissimo perché aveva una delle sole tre farmacie notturne di Palermo e quindi per tre settimane al mese dormiva fuori casa. Saliva la mattina per colazione e per mangiare a pranzo. Davanti a mia madre che era una persona coltissima, la figura di mio padre si disperdeva quasi, e poi è stata lei a seguirci e a inculcarci i valori che ci hanno sempre guidato».

Paolo, Salvatore e Rita Borsellino
Paolo, Salvatore e Rita Borsellino

Diego Borsellino morì giovane, a 52 anni come suo fratello del resto. E per questo Paolo e Salvatore con l’ironia che li ha sempre contraddistinti, si invitavano scherzosamente a realizzare i loro progetti in fretta perché, probabilmente, anche a loro, come da tradizione di famiglia, sarebbe toccato morire a 52 anni. E per Paolo Borsellino fu veramente così.

«Quando mio padre morì – continua Salvatore Borsellino – Paolo si era appena laureato in Giurisprudenza e a soli 22 anni gli cadde addosso tutta la responsabilità della famiglia. La farmacia non rendeva molto perché era in un quartiere povero di Palermo e anche se mia madre era farmacista non esercitava. Rischiavamo di perdere un’attività antica che aveva realizzato mio nonno, anche lui farmacista. E allora Rita, che non si era ancora laureata, ma frequentava già la facoltà di Farmacia, ottenne dall’Ordine una sorta di sospensione in attesa che completasse gli studi nel più breve tempo possibile, per poter prendere in mano l’attività di famiglia. Io frequentavo la facoltà di Ingegneria, probabilmente per uscire dal cono d’ombra di mio fratello perché essendo lui più grande di me di due anni, avevamo frequentato le stesse scuole, avevamo avuto gli stessi professori e avere un fratello maggiore come Paolo, non era facile».

Paolo, Salvatore e Rita Borsellino con la mamma Maria Pia Lepanto
Paolo, Salvatore e Rita Borsellino con la mamma Maria Pia Lepanto

Paolo e Salvatore finché frequentarono il liceo, avevano condiviso tutto, persino gli amici. Solo all’università si separarono. Il loro era un rapporto conflittuale per varie ragioni: Paolo aveva un altissimo senso dello Stato, Salvatore era sempre stato un po’ ribelle, intimamente anarchico, e gli era sempre costato molto accettare sia l’autorità del padre che quella del fratello maggiore. Per questo dopo il servizio militare a 27 anni decise di lasciare la Sicilia per andare a lavorare a Milano.

Paolo era un leader. All’università era entrato a far parte del Fuan, il Fronte universitario d’azione nazionale e in breve tempo era diventato uno dei dirigenti del movimento.

«Mio fratello, contrariamente a quello che si può credere – spiega Salvatore -, fece il magistrato non perché volesse combattere la mafia, tutto questo era lontano dalle sue idee e poi noi nella mafia ci vivevamo tutti i giorni. A Palermo tra mafia e Stato non c’era differenza. Il sindaco era un mafioso, il cardinale di Palermo era un mafioso e quindi la mafia era come se facesse parte dell’ambiente. Paolo decise di fare il magistrato per l’amore che aveva per gli studi di Diritto civile e infatti lo scrive nella sua ultima lettera del 19 luglio, prima di essere ucciso, rispondendo alle domande degli studenti di un liceo di Padova. Lui avrebbe voluto intraprendere la carriera universitaria ma essendo sprovvisto di “santi in paradiso” che comunque lui non avrebbe mai voluto, dovette rinunciare. Di fare l’avvocato poi, neanche a parlarne: la mia famiglia nonostante fosse una famiglia borghese, non aveva la possibilità economica di aiutarlo ad aprire uno studio e sostenerlo nei primi anni di attività. Anzi, dopo la morte di mio padre fu necessario che lui si mettesse subito a lavorare e Paolo per guadagnare qualcosa, faceva le tesi per i suoi compagni di corso e gliele batteva persino a macchina».

 

Fine della prima parte (continua)

Link alla seconda parte

Fonte: Il Quotidiano del Sud

 

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