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La macchina del fango e il ruolo di Nino Di Matteo nel depistaggio di via D’Amelio

Dopo l’ennesimo attacco nei confronti di quello che viene sarcasticamente definito “il magistrato più scortato d’Italia”, colpevole – secondo certa stampa (minoritaria) che possiamo eufemisticamente definire negazionista – di depistaggi e di errori giudiziari, accusato senza alcuna vergogna di avere il grado più elevato di scorta, come se fosse una sua felice scelta quella di vivere da decenni ristretto nelle libertà e come se certe decisioni dipendessero da lui e non dal Comitato per l’ordine e la sicurezza (un organo collegiale dello Stato italiano, esperto e indipendente), riteniamo sia arrivato il momento di far parlare i fatti, che, come tali, sono scevri da considerazioni e giudizi di carattere soggettivo e/o opportunistico.

E allora parliamo del ruolo di Nino Di Matteo nel “depistaggio più grave della storia della Repubblica”, ovvero il “caso Scarantino”, ed iniziamo con i dati più oggettivi che esistano: le date.

 

L’inizio del depistaggio.

Vincenzo Scarantino fu arrestato il 26 settembre 1992 e iniziò la (falsa) collaborazione con la giustizia il 24 giugno 1994.
In quel lasso di tempo, il futuro falso pentito sostenne colloqui investigativi con appartenenti al gruppo investigativo della Polizia di Stato “Falcone-Borsellino” e interrogatori con alcuni magistrati della Procura di Caltanissetta (Giovanni Tinebra, Ilda Boccassini, Carmelo Petralia, Fausto Cardella, Francesco Paolo Giordano), alla presenza di personale del gruppo “Falcone-Borsellino” (in particolare Arnaldo La Barbera).

Al momento dell’arresto di Vincenzo Scarantino, Nino Di Matteo era ancora un semplice uditore giudiziario [quando si vince il concorso, il neomagistrato è obbligato ad un periodo di affiancamento di due anni accanto ad un magistrato ordinario, che si chiama appunto uditorato giudiziario, nda].

 Il 3 gennaio 1994, intanto, la Procura di Caltanissetta, nel processo Borsellino Uno, chiese il rinvio a giudizio per quattro indagati (Vincenzo Scarantino, Salvatore Profeta, Pietro Scotto e Giuseppe Orofino) per il reato di concorso nella strage di via D’Amelio. Il processo inizierà il successivo 4 ottobre.

Nino Di Matteo, in quegli anni, non faceva neanche parte del pool di pubblici ministeri che si occupava delle stragi e, non avendo lavorato alla sua istruzione, non prese parte al processo Borsellino Uno, che fu infatti condotto dai Pm Carmelo Petralia e Anna Maria Palma (che entrerà nel gruppo stragi nell’agosto del 1994).

Come già detto, il 24 giugno 1994, dopo aver effettuato l’ennesimo colloquio investigativo nel carcere di Pianosa con Arnaldo La Barbera, Vincenzo Scarantino dichiarò di voler collaborare con la giustizia, affermando di aver contribuito all’organizzazione della strage di via D’Amelio. I magistrati presenti a quel suo primo verbale da “collaboratore” furono Carmelo Petralia e Ilda Boccassini. Il 29 giugno successivo viene firmato il secondo verbale: Scarantino fu interrogato dai magistrati Giovanni Tinebra, Carmelo Petralia, Ilda Boccassini e Roberto Saieva, alla presenza di Arnaldo La Barbera.

Tra il 4 e il 13 luglio 1994, nel carcere di Pianosa, si realizzò un’anomala serie di colloqui investigativi tra Vincenzo Scarantino e gli uomini del gruppo Falcone-Borsellino diretti da La Barbera, colloqui che saranno poi oggetto di aspre critiche nel processo Borsellino Quater. I magistrati che firmarono l’autorizzazione per quei colloqui furono Ilda Boccassini e Roberto Saieva.

Nino Di Matteo riferì di aver saputo della loro esistenza solo nel 2015, quando fu trattato l’argomento durante la sua deposizione nel processo Borsellino Quater.

Il 15 luglio 1994 fu la volta del terzo verbale: Scarantino fu interrogato da Ilda Boccassini, alla presenza di Arnaldo La Barbera.

Il 19 luglio 1994 la Procura di Caltanissetta tenne una conferenza stampa per comunicare, con esplicito orgoglio, il grande passo avanti nelle indagini sulla strage di Via D’Amelio: la collaborazione di Vincenzo Scarantino. A condurre la conferenza stampa furono il Procuratore capo Giovanni Tinebra e la sostituta procuratrice Ilda Boccassini (unica ad intervenire, al netto di una breve frase dell’aggiunto Francesco Paolo Giordano).

Noi oggi qui celebriamo il secondo anniversario dell’eccidio di via d’Amelio ed abbiamo la profonda, commossa, consapevole soddisfazione di celebrarlo nel modo giusto, cioè in maniera fattiva. Ieri infatti abbiamo chiesto ed ottenuto sedici ordinanze di custodia cautelare nei confronti di alcuni dei mandanti e degli esecutori materiali della strage. (…) Scarantino. Io credo di poter dire finalmente che questa Direzione Distrettuale Antimafia ha onorato i suoi impegni. (…) Abbiamo una piena confessione con quindici chiamate in correità e siamo solo agli inizi. Abbiamo modo di affermare sul campo e con i fatti che anche questa strage fu ordinata da Totò Riina, il quale ebbe una riunione, con taluni pezzi della cupola, esattamente i capi dei mandamenti interessati sotto un profilo esecuzionale, vale a dire i mandamenti della Guadagna, Pietro Aglieri e Carlo Greco, e del Brancaccio, uno dei fratelli Graviano in rappresentanza degli altri
(Giovanni Tinebra).

…sono state premiate ancora una volta le indagini investigative pure. Ci siamo mossi con una logica di aggressione sul territorio e questo è stato premiale nel momento in cui una delle persone che era responsabile di questo reato ha accettato di collaborare con lo Stato. (…) Senza l’aiuto di Di Maggio, senza la collaborazione del direttore di Pianosa, di tutti gli agenti a cui va il nostro ringraziamento totale, non sarebbe stato possibile gestire per la prima volta con Scarantino nel carcere di Pianosa e non portato subito in una struttura extracarceraria, gli eccellenti risultati che noi stiamo ottenendo. (…) questo concetto va ripetuto fino alla noia, perché vi erano già delle indagini che hanno consentito di valutare appieno quello che Scarantino Vincenzo ci diceva. (…) Mi chiedo perché ancora oggi vengono pubblicate false notizie di due falsi teoremi che vedono ancora una volta in contrapposizione, che non è, le dichiarazioni di altro collaboratore di giustizia, Salvatore Cancemi, e oggi Scarantino
(Ilda Boccassini).

Tinebra e Boccassini erano evidentemente convinti della genuinità delle dichiarazioni di Vincenzo Scarantino.

Nino Di Matteo ancora non faceva parte del gruppo di Pm che lavoravano sulle stragi.

In estate i verbali che sottoscrisse Scarantino furono tre:

  • 28 luglio 1994. Scarantino è interrogato da Ilda Boccassini e Roberto Saieva, alla presenza di Vincenzo Ricciardi.
  • 11 agosto 1994. Scarantino è interrogato da Giovanni Tinebra, Anna Maria Palma e Carmelo Petralia.
  • 12 agosto 1994. Scarantino è interrogato da Anna Maria Palma e Carmelo Petralia.

In agosto Ilda Boccassini andò in ferie e, contemporaneamente, Anna Maria Palma entrò nel pool dei Pubblici ministeri di Caltanissetta che si occupava delle stragi.

Nell’estate nel 1994, inoltre, la Squadra Mobile di Palermo effettuò con Vincenzo Scarantino dei sopralluoghi (attività di individuazione dei luoghi espletate dal collaboratore in presenza dell’autorità giudiziaria e/o della polizia giudiziaria) per individuare il garage di Giuseppe Orofino e il percorso che fece la Fiat 126 per arrivare in Via D’Amelio. Anni dopo, Scarantino accuserà la Polizia di avergli indicato tutti i riferimenti che avrebbe dovuto riconoscere e di cui, invece, non aveva alcuna contezza. Scrissero i giudici di primo grado del processo Borsellino Quater: «ebbene, dell’esecuzione di un siffatto sopralluogo, nell’estate del 1994, vi è ampia traccia nel presente processo, (…). Tuttavia, del verbale di sopralluogo, sicuramente eseguito con Vincenzo Scarantino, non vi è alcuna traccia nei fascicoli dei precedenti processi (le ricerche, disposte dalla Corte, davano esito negativo, né dell’atto vi è alcuna menzione nelle sentenze dei precedenti processi)».

I magistrati che avevano verosimilmente autorizzato quei sopralluoghi, chiamati a rispondere nel suddetto processo, non ricordarono nulla, neanche di essersi lamentati dell’assenza di tale importante documento.

Nino Di Matteo, ripetiamo, non faceva ancora parte del gruppo stragi.

Il 6 settembre 1994 fu la volta di quello che risulterà essere l’interrogatorio più problematico per la collaborazione di Vincenzo Scarantino. Se fino a quel momento il “pentito” aveva descritto le modalità con cui era asseritamente entrato in possesso della Fiat 126 usata poi come autobomba, nell’occasione del verbale del 6 settembre fecero ingresso le poi tanto criticate dichiarazioni sulla “riunione nella villa di Calascibetta”. Scarantino, innanzi ai magistrati Ilda Boccassini, Carmelo Petralia e Anna Maria Palma, riferì che, nella riunione presso la villa di tale Giuseppe Calascibetta, durante la quale Riina avrebbe deciso l’omicidio di Borsellino, sarebbero stati presenti i boss mafiosi Salvatore Cancemi, Mario Santo Di Matteo e Gioacchino La Barbera.

Nino Di Matteo ancora non era entrato nel gruppo stragi.

Il 12 ottobre 1994 viene scritto e stampato da Ilda Boccassini e Roberto Saieva un “promemoria” (così chiamato nel documento stesso), denominato “Appunti di lavoro per la riunione della D.D.A. del 13.10.94”. Nella sua introduzione si legge: “…si sottopone all’attenzione dei colleghi il seguente promemoria corredato di specifiche proposte operative”; al suo interno, vennero esposte le perplessità sulla affidabilità del pentito Scarantino. Del suddetto promemoria, mancante delle firme dei due magistrati, non verrà trovata traccia negli archivi della Procura di Caltanissetta. Della sua esistenza si avrà contezza soltanto grazie al Procuratore di Palermo di allora, Francesco Messineo, che, dopo averlo ritrovato negli archivi della Procura di Palermo, lo inviò alla Procura nissena. Nulla si sa se e chi, della Procura di Caltanissetta, ricevette l’appunto nel 1994. La riunione del 13 ottobre, per cui quell’appunto venne redatto, non si svolse mai. Nonostante questo, Ilda Boccassini sostenne di averlo consegnato ai dott.ri Tinebra, Palma e Di Matteo, mentre Roberto Saieva ricordò di averlo consegnato al solo dott. Tinebra. Nessun magistrato interrogato nel quarto processo sulla strage di Via D’Amelio (quello istruito dopo lo svelamento del depistaggio) ricordò di averla mai avuta in mano. I dottori Palma e Di Matteo, per di più, esclusero espressamente di averla mai vista negli uffici della Procura nissena. La Procura di Caltanissetta la ricevette? I magistrati la lessero? Si possono avanzare ipotesi, alcune più verosimili di altre, ma nessuna potrà mai essere verificata con certezza.

L’unico dato certo è che di quell’appunto si persero le tracce alla Procura di Caltanissetta e che i dott.ri Boccassini e Saieva non ritennero di informare il CSM del suo contenuto.

Il 14 ottobre 1994, finito il periodo di applicazione, Ilda Boccassini e Roberto Saieva lasciarono la Procura di Caltanissetta.

Nel novembre 1994 il Procuratore capo Giovanni Tinebra, a seguito della riorganizzazione del pool a seguito della dipartita di quei magistrati che avevano lasciato la Procura, chiese al giovane Pm Nino Di Matteo di riprendere a verbale tutte le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino. Il primo interrogatorio di Vincenzo Scarantino a cui partecipa Di Matteo reca infatti la data del 18 novembre 1994 (presenti anche Anna Maria Palma e Carmelo Petralia), lavoro che proseguì nei successivi giorni del 19, 21, 22 e 25 novembre.

 

Gli elementi a riscontro delle dichiarazioni di Vincenzo Scarantino in quegli anni.

Ora si passi ai dati di cui era in possesso Nino Di Matteo quando iniziò a lavorare sulla strage di Via D’Amelio e, in particolare, sul ruolo di Vincenzo Scarantino in essa:

1) la confessione di Salvatore Candura e di Stefano Valenti, che indicarono in Vincenzo Scarantino il mandante del furto della Fiat 126, di cui si autoaccusarono.

Oggi sappiamo che, anche loro, furono falsi pentiti, ma all’epoca nessuno ne aveva contezza. Per quanto era a conoscenza dei Pm, e a maggior ragione di Nino Di Matteo che non era stato presente al momento dell’arresto di Candura e di Valenti (settembre 1992), la Squadra Mobile comandata da Arnaldo La Barbera (in quel momento da tutti ritenuto eccellente investigatore e fiore all’occhiello della Polizia di Stato) era arrivata a loro tramite solide intercettazioni telefoniche;

2) la confessione di Francesco Andriotta, che dichiarò ai magistrati di aver ricevuto le confidenze autoaccusatorie (per la strage di Via D’Amelio) di Vincenzo Scarantino durante un periodo di detenzione comune in carcere. Andriotta era detenuto per un omicidio avvenuto nel nord Italia, che nulla aveva a che fare con la mafia. Oggi sappiamo che, anche lui, era l’ennesimo falso pentito imboccato da uomini delle istituzioni, ma all’epoca nessuno poteva avere il benché minimo sospetto. Anzi, proprio in virtù della sua posizione, appariva un testimone attendibile;

3) la confessione di Vincenzo Scarantino, che si autoaccusò di aver organizzato il furto della Fiat 126 e il suo trasporto fino al garage di Giuseppe Orofino, dove sarebbe stata poi imbottita di esplosivo. Le dichiarazioni autoaccusatorie di Scarantino, inoltre, collimavano con quelle di Salvatore Candura e Francesco Andriotta. I magistrati, all’oscuro del ruolo svolto da Arnaldo La Barbera, non potevano fare altro che ritenere le loro dichiarazioni genuine, poiché i “pentiti” non avrebbero potuto altrimenti essere a conoscenza di elementi che erano stati confermati dalle indagini;

4) il riferimento, sin dal primo interrogatorio di Vincenzo Scarantino, al garage di Giuseppe Orofino (dal quale era stata rubata la targa poi applicata sull’autobomba), al furto della Fiat 126 mediante rottura del bloccasterzo e all’avvenuta sostituzione delle targhe del veicolo. Tutti elementi confermati dalle acquisizioni investigative della Squadra Mobile di Palermo e che sarebbero stati sicuramente estranei al personale patrimonio conoscitivo di Scarantino, se non fosse stato autore del furto (o, come si seppe solo quindici anni più tardi, imbeccato da uomini che avevano condotto le indagini);

5) la chiamata in correità di Pietro Scotto, operaio della ditta telefonica Sielte che, secondo le accuse di Scarantino, si sarebbe occupato di intercettare abusivamente le conversazioni telefoniche tra Paolo Borsellino e la madre, mezzo tramite il quale si scelse il giorno e l’ora in cui compiere l’attentato. Ebbene, Pietro Scotto venne identificato da due testimoni oculari di eccezione, ovvero la figlia di Rita Borsellino, che in quel periodo viveva proprio in Via D’Amelio, e il suo fidanzato dell’epoca. Agli atti, inoltre, venne depositata una consulenza tecnica che confermava la probabile manomissione della linea telefonica del civico 19 di Via D’Amelio.

6) Le informative del SISDe (coinvolto dallo stesso Procuratore di Caltnissetta Giovanni Tinebra, che chiese assistenza al funzionario dell’intelligence Bruno Contrada) nelle settimane successive alla strage: il 4 agosto 1992 il Servizio civile inviò una dettagliata segnalazione con la quale si ipotizzava il coinvolgimento del clan Madonia di Palermo nella strage; il 13 agosto 1992, una nota del SISDe di Palermo comunicava l’arrivo di imminenti novità «circa gli autori del furto della macchina ed il luogo ove la stessa sarebbe stata custodita prima di essere utilizzata nell’attentato»; il 17 ottobre Lorenzo Narracci, vice capocentro del SISDE di Palermo, firmò una nota contenente i nomi di Luciano Valenti, Roberto Valenti e Salvatore Candura; il 19 ottobre 1992, infine, il centro SISDe di Palermo riferì sulle parentele mafiose “importanti” di Scarantino, legato – secondo l’intelligence – non solo al cognato Salvatore Profeta, uomo d’onore della famiglia mafiosa di S. Maria di Gesù, ma alla famiglia Madonia di Resuttana.

A questi dati si deve aggiungere anche la chiamata in correità, da parte di Vincenzo Scarantino, di alcuni mafiosi accusati di essere presenti al momento della preparazione dell’autobomba, soggetti (come Lorenzo Tinnirello e Francesco Tagliavia) la cui presenza sarà poi confermata da Gaspare Spatuzza, vero autore del furto della 126 e presente nel garage in cui si imbottì di esplosivo l’automobile.

 

I confronti con i pentiti.

Come si è visto, nell’interrogatorio del 6 settembre 1994 Vincenzo Scarantino, parlando della riunione presso la villa di Giuseppe Calascibetta, riferì la presenza di tre boss mafiosi, poi divenuti collaboratori di giustizia: Mario Santo Di Matteo, Gioacchino La Barbera e Salvatore Cancemi.

Il 13 gennaio 1995 Scarantino fu messo a confronto con i tre boss, che sbeffeggiarono Scarantino davanti ai pubblici ministeri ed esclusero che potesse aver mai fatto parte di Cosa Nostra. Cancemi addirittura alluse ad un suggeritore che avrebbe imboccato Scarantino.

La versione di Scarantino sulla riunione alla villa di Calascibetta, per quanto oggettivamente poco credibile nella narrazione dei fatti, chiamava in causa tre soggetti sulla cui collaborazione i magistrati avevano ragione di avere dubbi: Cancemi, fino a quel momento, aveva negato di aver preso parte alla strage di Via D’Amelio (confesserà la sua partecipazione solo nel 1996); Santino Di Matteo, a cui era stato già rapito il figlio quattordicenne, intercettato al primo colloquio in carcere con la moglie, veniva pregato dalla donna di non parlare degli infiltrati della Polizia nella strage; su La Barbera erano giunte informazioni secondo cui, “rientrato in armi a Palermo, aveva commesso dei delitti” (audizione di Nino Di Matteo al CSM, 17 settembre 2018).

 

Le ritrattazioni di Vincenzo Scarantino.

Il 25 luglio 1995 fu il giorno della prima ritrattazione pubblica di Vincenzo Scarantino. Ai microfoni del giornalista di Studio Aperto Angelo Mangano, Scarantino confessò di aver mentito e di non sapere nulla della strage di Via D’Amelio. Nell’intervista Scarantino aveva anche accusato Arnaldo La Barbera di averlo costretto a mentire ma questa parte non andò in onda e la registrazione integrale dell’intervista venne sequestrata dalla Polizia di Stato e mai più ritrovata. Il giorno successivo Scarantino venne sentito a verbale dal Pm Carmelo Petralia, davanti al quale ritrattò la ritrattazione. Prima dell’interrogatorio con il Pm, Scarantino aveva ricevuto la visita di alcuni uomini del gruppo investigativo Falcone-Borsellino, tra cui Mario Bò, con il quale ebbe un acceso scontro.
Durante tutta la permanenza di Vincenzo Scarantino nel luogo di protezione in Liguria, Nino Di Matteo non ebbe alcun contatto con il pentito.

Il 15 settembre 1998, durante un’udienza del processo Borsellino Bis, Vincenzo Scarantino ritrattò pubblicamente per la seconda volta e accusò magistrati e poliziotti di averlo costretto a dire bugie. Per quella confessione – che nel 2002 ritrattò una seconda volta – Scarantino subì un processo per calunnia ai danni di Anna Maria Palma, Carmelo Petralia e Arnaldo La Barbera, che lo vide condannato, con sentenza passata in giudicato, ad otto anni di carcere.

I “giornaloni” che oggi incolpano Nino Di Matteo di essere “il magistrato più scortato d’Italia”, hanno più volte puntato il dito contro le dichiarazioni che il Pm rilasciò dopo la seconda ritrattazione di Scarantino, inquadrata (erroneamente, questo è poco ma sicuro, ma col senno del poi) come il tentativo della mafia di inquinare le indagini e i processi. I suddetti “giornaloni” si guardano bene, però, dal sottolineare un “piccolo” dato di fatto, che passò sotto silenzio (mediatico) anche durante il processo Borsellino Quater, ma che gettò una luce ancora più inquietante su tutta la vicenda:
dopo la ritrattazione di Scarantino venne chiamato a testimoniare nei processi “Borsellino Uno” e “Borellino Bis” un prete che viveva nella apparentemente lontana Emilia-Romagna, Don Giovanni Neri. L’uomo, parroco di Marzaglia (Modena), riferì ai magistrati “circa le forti pressioni esercitate su Scarantino a partire dal giugno 1998 perché ritrattasse le originarie accuse” (sentenza della Corte di Cassazione, processo “Borsellino Uno”, 16 dicembre 2000). Ebbene, quelle dichiarazioni del parroco arrivarono ai Pubblici ministeri di Caltanissetta, incluso Nino Di Matteo, prima ancora della ritrattazione del falso collaboratore, tanto che i magistrati erano già stati preventivamente messi a conoscenza che quel 15 settembre 1998 Scarantino avrebbe ritrattato.

Non è finita qui. Al processo per il depistaggio delle indagini di Via D’Amelio (“Bò+2”, udienza del 21 giugno 2019) depose Luigi Catuogno, ispettore della Polizia di Stato, tra il 1996 e il 1998 addetto alla tutela di Scarantino. Il teste riferì ai giudici ciò che successe dopo la ritrattazione di Scarantino del 1998: “Ci fu un gran trambusto quel giorno. La località protetta era saltata. Scarantino fu poi portato a Rebibbia. La famiglia, invece, da questo parroco (Don Giovanni Neri, nda). Quando arrivammo sul posto vedemmo una Hyundai a sei cilindri. In quel periodo era un’auto in dotazione agli organi dello Stato. Si avvicinò a noi un uomo e chiesi chi fosse. Mi rispose: ‘non ti preoccupare’. Poi mi portò in un sottotetto della chiesa e l’arredamento era come quello che noi avevamo in ufficio c’erano armadi, dei faldoni e persino le stesse luci dei nostri uffici. Parlammo tre, quattro minuti. Ebbi l’impressione che lui sapeva chi eravamo noi. Ma noi non sapemmo mai chi era questa persona. So solo che non mi era garbata molto quella cosa“.

Anche Scarantino, durante la sua testimonianza al processo Borsellino Quater (4 giugno 2015), riferì sulla figura di Don Giovanni Neri: “dopo ho parlato con don Giovanni Neri, mi ha portato nella sua stanzetta, ha tolto la presa del telefono perché ci potevano sentire e io ho raccontato tutto. Lui mi ascoltava, mi ha detto di stare tranquillo”. Per quello che aveva appreso dal fratello, Scarantino sapeva che don Neri aveva rapporti con le forze dell’ordine “per un fatto di prostituzione, erano amici, mio fratello mi ha detto che era sbirro”.

Ad aggiungere fumo ad una situazione già di per sé opaca, si inserirono in quel periodo anche le intercettazioni ambientali a casa del latitante Gaetano Scotto. Secondo quanto riferito dallo stesso Nino Di Matteo in occasione di una sua audizione innanzi al CSM (17 settembre 2018), la moglie di Scotto, Cosima D’Amore, “disse che un avvocato aveva chiesto ai familiari del latitante una raccolta di fondi da dare a Scarantino per farlo ritrattare. Per questo, sia da noi, che dalla Corte, quella ritrattazione fu ritenuta indotta”.

 

Le determinazioni di Nino Di Matteo nel processo Borsellino Bis.

Come si è visto, Nino Di Matteo non condusse le indagini e non partecipò al dibattimento del procedimento Borsellino Uno. Le condanne comminate agli innocenti imputati in quel processo, quindi, non possono essere attribuite a lui.

Per quanto riguarda il processo Borsellino Bis, il secondo e ultimo processo oggetto di revisione a seguito della collaborazione di Gaspare Spatuzza (il primo era, per l’appunto, il Borsellino Uno), Nino Di Matteo, come è stato ampiamente dimostrato, non partecipò alle indagini che portarono alle misure cautelari richieste e applicate il 19 luglio 1994 e non si occupò neanche dell’udienza preliminare. Condusse però il processo di primo grado, sulla base delle prove raccolte dai suoi colleghi.

Alla conclusione del Borsellino Bis, Nino Di Matteo sostenne l’attendibilità limitata di Vincenzo Scarantino, tanto da chiedere l’assoluzione per il reato di strage nei confronti di tre dei sette soggetti chiamati in causa dal falso pentito (tra cui Gaetano Murana e Giuseppe Calascibetta). Nelle requisitoria, inoltre, sostenne l’utilizzabilità soltanto dei primi tre verbali del 1994 di Scarantino, poiché in seguito era intervenuto “un inquinamento dello stesso Scarantino”. Per lo stesso motivo, Scarantino non venne inserito neanche nella lista testimoniale del nuovo processo, il Borsellino Ter, istruito sin dall’inizio dal dott. Di Matteo.

18 dicembre 1998. Al termine della requisitoria del processo Borsellino Bis, i Pubblici ministeri Anna Maria Palma e Nino Di Matteo chiesero dodici condanne all’ergastolo (per i boss Salvatore Riina, Pietro Aglieri, Salvatore Biondino, Carlo Greco, Giuseppe Graviano, considerati mandanti, e Francesco Tagliavia, Natale Gambino, Giuseppe La Mattina, Lorenzo Tinnirello, Cosimo Vernengo, Gaetano Scotto, e Giuseppe Urso, ritenuti esecutori materiali). I Pm chiesero l’assoluzione dall’accusa di strage per Gaetano Murana, Giuseppe Calascibetta e Antonio Gambino. Assoluzione da tutti i reati chiesta invece per Giuseppe Romano.

Il 13 febbraio 1999 la Corte d’assise del processo Borsellino Bis condannò all’ergastolo Salvatore Riina, Pietro Aglieri, Carlo Greco, Giuseppe Graviano, Francesco Tagliavia, Salvatore Biondino e Gaetano Scotto e altre dieci persone per associazione mafiosa. Furono invece assolti Natale e Antonino Gambino, Giuseppe La Mattina, Lorenzo Tinnirello, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso, Giuseppe Calascibetta e Gaetano Murana (per il reato di strage).

Il 16 novembre 1999, prima ancora che Scarantino ritrattasse la seconda ritrattazione (cosa che avvenne nel 2002), i procuratori generali di Caltanissetta Maria Giovanna Romeo e Dolcino Favi, nell’ambito del processo Borsellino Bis, presentarono appello contro le assoluzioni di Gaetano Murana, Natale e Antonino Gambino, Giuseppe Calascibetta, Giuseppe La Mattina, Lorenzo Tinirello, Giuseppe Urso e Cosimo Vernengo. Medesima richiesta fu presentata nei confronti di Salvatore Vitale e Salvatore Tomaselli, condannati solo per associazione mafiosa, e nei confronti di Giuseppe Romano, assolto in primo grado per associazione mafiosa.

Il 7 marzo 2001, inoltre, l’ennesimo falso pentito comparve sulla scena: Calogero Pulci, ex mafioso della provincia di Caltanissetta, durante il suo esame dibattimentale al processo Bis, accusò Gaetano Murana di avergli confidato di aver preso parte alla strage, fornendo così un riscontro alle dichiarazioni di Scarantino.

Il 1 febbraio 2002 Vincenzo Scarantino ritrattò la ritrattazione del 15 settembre 1998. Il 18 marzo 2002 la Corte d’appello di Caltanissetta, nel processo Borsellino Bis, inasprì il verdetto del primo grado, condannando tredici imputati all’ergastolo, tra cui Cosimo Vernengo, Natale Gambino, Giuseppe La Mattina, Lorenzo Tinnirello, Gaetano Murana e Giuseppe Urso.

Nino Di Matteo non prese parte al processo di secondo grado.

 

Conclusioni.

Oggi sappiamo che Vincenzo Scarantino è stato un falso pentito, indottrinato da figure istituzionali, tra le quali, come certificato dalla Corte d’assise di Caltanissetta del processo Borsellino Quater, l’ex dirigente della Squadra Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera. All’epoca, però, nessuno si sarebbe mai sognato di accusare La Barbera di operare attività contrarie ai doveri d’ufficio, tantomeno di depistaggio. E, nonostante ciò che si sostiene ora, con le certezze granitiche derivate dalla genuina collaborazione nel 2008 di Gaspare Spatuzza, negli anni ’90 la figura di Vincenzo Scarantino non era così risibile come si vorrebbe far pensare oggi: fino al verbale del 6 settembre 1994, infatti, le dichiarazioni di Scarantino collimavano con gli elementi emersi dalle indagini della Polizia (elementi che Scarantino non avrebbe potuto conoscere), c’erano note del SISDe che lo indicavano come soggetto legato a Cosa Nostra, c’era la sua confessione e quelle di altri tre pentiti (Candura, Valenti e Andriotta), c’era la testimonianza di un parroco modenese che riferì dei tentativi di terzi di convincere Scarantino a ritrattare. C’erano certamente anche segnali di inattendibilità, che vennero infatti presi in considerazione da Nino Di Matteo, tanto da chiedere l’assoluzione per gli imputati aventi come prove la sola confessione di Scarantino.

Nulla seppe Nino Di Matteo della richiesta del Procuratore capo di Caltanissetta, Giovanni Tinebra, rivolta al numero due del SISDe Bruno Contrada, di collaborare alle indagini. Nulla seppe Nino Di Matteo dei preventivi colloqui a porte chiuse tra Giovanni Tinebra e Vincenzo Scarantino in occasione di alcuni interrogatori (circostanza riferita dalla dott.ssa Ilda Boccasini soltanto nel 2020, durante il processo per il depistaggio di Via D’Amelio, nonostante fosse stata già sentita come testimone al processo Borsellino Quater nel 2014 e 2015, quando Tinebra era ancora in vita, essendo deceduto nel 2017). Nulla seppe dei colloqui investigativi “fiume” del luglio 1994 tra Scarantino e gli uomini del gruppo Falcone-Borsellino, autorizzati infatti da Ilda Boccasini e da Roberto Saieva.

Come si è potuto dimostrare grazie a dati di fatto incontestabili, Vincenzo Scarantino era stato istruito ben prima che Nino Di Matteo iniziasse ad occuparsi delle indagini sulle stragi. Il depistaggio, pertanto, si è consumato senza il contributo di Nino Di Matteo, che ha avuto l’unica colpa di fidarsi della correttezza istituzionale della Polizia giudiziaria e delle indagini svolte fino a quel momento. Col senno del poi, oggi, chiunque (probabilmente anche Di Matteo stesso) può affermare che si commisero gravi errori di valutazione. Quello che non si può, con onestà intellettuale, affermare, è che chiunque, nel 1994 e con gli elementi che si avevano in mano all’epoca, si sarebbe accorto facilmente del depistaggio.

La verità incontestabile è che il depistaggio delle indagini di Via D’Amelio, iniziato probabilmente addirittura prima che si consumasse la strage, è stato portato avanti da soggetti che nulla hanno a che vedere con il dottor Nino Di Matteo. E non si può fare a meno di chiedersi a chi stia giovando questo tentativo di ridurre l’intero movente depistatorio delle indagini sulla strage di Via D’Amelio ad un desiderio di carriera di alcuni e all’ignoranza, alla presunzione e all’ingenuità (che magari ci sono anche state) di altri. Il depistaggio costruito sulla figura di Vincenzo Scarantino è servito per allontanare le indagini dai concorrenti esterni a Cosa Nostra, co-ideatori della strage e, oggi sappiamo, grazie all’ultima sentenza del processo per il depistaggio, anche co-esecutori. L’unico grande assente nelle dichiarazioni di allora di Vincenzo Scarantino, rispetto a quelle di Gaspare Spatuzza, è infatti l’uomo dello Stato presente nel garage in cui si preparò l’autobomba. Altro che aspirazioni di carriera e ingenuità dovute alla giovane età.

 

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