Di seguito pubblichiamo il testo di questa memoria.
Al Signor Presidente della Commissione Parlamentare
sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali anche straniere
OGGETTO: Richiesta del gruppo parlamentare del Movimento Cinque Stelle di modifica e integrazione della programmazione dei lavori della Commissione sul tema delle stragi del 1992 e del 1993.
Con riferimento alla comunicazione della S.V. di volere circoscrivere i lavori della Commissione in ordine alle stragi del 1992 e del 1993 solo alla “ricostruzione storica” della strage di Via D’Amelio, si rappresenta che tale scelta appare incomprensibile ed ingiustificata sia nel merito che nel metodo.
Quanto al merito tale scelta implica l’inammissibile disimpegno della Presidenza della Commissione a fare luce su tutte le “ferite ancora aperte” ed i nodi ancora irrisolti della strage di Capaci del 23 maggio 1992, della strage di via Georgofili a Firenze del 27 maggio 1992, della strage di via Palestro a Milano del 27 luglio 1993, dell’autobomba in via Sabini a Roma il 2 giugno 1993, delle autobombe a San Giovanni Laterano e a San Giorgio al Velabro a Roma il 28 luglio 1993, del fallito attentato allo Stadio Olimpico a Roma il 23 gennaio 1994.
Chi erano i soggetti esterni di sesso femminile che – come emerge dalle più recenti indagini della magistratura – parteciparono alle stragi di Firenze e di Milano?
Tenuto conto che tali soggetti non potevano appartenere alle organizzazioni mafiose, di quali entità criminali esterne facevano parte?
Quali erano gli interessi di cui tali entità erano portatrici?
Chi aggiunse una dose supplementare di esplosivo nel furgone Fiorino collocato in via Georgofili per aumentarne la portata deflagrante dopo che il commando mafioso aveva ultimato il suo compito?
Si confrontino al riguardo le conclusioni della Relazione della Commissione Parlamentare sul fenomeno delle mafie approvata nelle sedute del 7 e 13 settembre 2022:
“plurimi elementi consentono di ritenere assolutamente apprezzabile l’ipotesi che l’autobomba, allestita con l’esplosivo dai siciliani, passò di mano poco prima del suo collocamento nel cuore di Firenze, e che dopo la partenza del Fiorino dall’abitazione dei Messana (intorno alle ore22 del 26 maggio 1993), al rilevante quantitativo di tritolo caricato nel garage (circa centoventi/centotrenta chilogrammi) venne aggiunta una ingente carica di esplosivo di natura militare, sicché la deflagrazione di siffatta micidiale miscela ebbe effetti ancor più devastanti”.
Chi collocò una autobomba in via Sabini il 2 giugno 1992 in prossimità del luogo in cui quel giorno doveva transitare il presidente Ciampi, tenuto conto che nessun collaboratore di giustizia ha mai saputo nulla di tale attentato?
Le forze di polizia refertarono che la miscela di esplosivi utilizzata era diversa da quella utilizzata per le altre stragi del 1992 e del 1993 ed analoga a quella utilizzata in passato in attentati della destra eversiva.
Chi erano i personaggi importanti che – come hanno riferito in pubblici dibattimenti i collaboratori di giustizia Salvatore Cancemi e Francesco Onorato – indussero Salvatore Riina a revocare l’ordine di uccidere Falcone a Roma con modalità tradizionali disponendo il rientro dalla capitale il 5 marzo 1992 del commando capitanato da Messina Denaro, per dare corso ad un attentato con modalità esplosive eclatanti che richiedevano un livello elevatissimo di competenze tecniche?
Chi erano gli ignoti che subito dopo la strage di Capaci si introdussero nella stanza del dott. Falcone al Ministero della Giustizia violando i sigilli apposti dalla Procura della Repubblica di Caltanissetta, per esaminare i files del suo computer concernenti Gladio e i delitti politici, come risulta dalla consulenza tecnica esperita dalla magistratura?
Come fu possibile tale ingresso abusivo in una stanza posta sotto sequestro, con quali complicità?
Perché gli ignoti erano interessati a conoscere quali informazioni il dott. Falcone aveva acquisito su tali temi mentre, con elevata probabilità, si apprestava a ricoprire l’incarico di Procuratore Nazionale Antimafia?
Chi soppresse alcuni files delle sue agende elettroniche? (Cfr. deposizione del consulente Giacchino Genchi all’udienza del 9 gennaio 1996 dinanzi alla Corte di Assise di Caltanissetta nel processo contro Aglieri Pietro + 40).
Risponde al vero che il dott. Falcone aveva programmato – come aveva confidato ad alcune persone di sua fiducia – che qualora fosse stato nominato procuratore nazionale antimafia, avrebbe subito riattivato le indagini sul coinvolgimento di elementi deviati della struttura Gladio e di esponenti della destra eversiva nei delitti politici, e, in particolare, nel delitto di Piersanti Mattarella, Presidente della Regione siciliana?
Che valenza occorre attribuire all’interesse manifestato per tali temi di indagine dagli ignoti che si introdussero nella stanza di Falcone al Ministero della Giustizia alla luce delle dichiarazioni rese l’11 settembre 2009 alla Procura della Repubblica di Caltanisetta dal prof. Pino Arlacchi in ordine alle confidenze ricevute da Falcone poco prima di essere ucciso sulle deviazioni che aveva accertato negli ambienti istituzionali e, in particolare, nel Sisde?
Tali deviazioni erano quelle che il prof. Arlacchi ha specificato alle pagine 244 e 245 del libro “Giovanni ed io” edito nel maggio 2022 che riguardavano anche Gladio e che qui di seguito si trascrivono?
Ci incontrammo a casa mia, a cena, alla fine del 1991. Falcone era rientrato dalla Sicilia, ed era in preda a un apprensione tale dal rifiutarsi di aprire bocca sui fatti all’ordine del giorno finchè tutti gli ospiti – magistrati, dirigenti della polizia e il mio carissimo amico Sylos Labini- non si furono congedati. Rimasti soli, Giovanni mi illustro la sua visione delle cose. “Ho parlato con un pò di gente dei servizi deviati [per noi deviati erano gli agenti fedeli alla Repubblica] e sono stato a Palermo da Paolo Borsellino. C’è lo scompiglio ovunque, sia in Sicilia sia qui. Temono che Andreotti li abbia mollati per salvarsi la pelle dopo che gli americani hanno preso le distanze da lui. Ha sbattuto loro in faccia Gladio a mò di ammonimento. Ma non pare che abbia ricevuto assicurazioni. Le due mafie sono sul piede di guerra contro Andreotti e contro tutti. Prima di rivalersi direttamente contro di lui sono decisi a farsi sentire alla grande. Contro di noi, ovviamente” .
“Chi te l’ha detto? Cosa hanno in mente di fare?”
Abbiamo sondato i pentiti che sono ancora in contatto con i vertici di cosa nostra e qualche dirigente dei servizi nemico di Contrada. Non abbiamo ricavato niente di preciso, ma tutti fiutano che si sta preparando qualcosa di grosso”.
“E’ chiaro che se vogliono sopravvivere”, continuò il giudice, “devono ripetere quanto hanno fatto dieci anni fa, quando si sono sbarazzati di La Torre e Mattarella. Però stavolta è più difficile perché non hanno più le coperture di allora. La Cia si disinteressa di loro, la Nato è quasi morta. Gli è rimasto Andreotti, che non è poco, ma non è abbastanza. gli altri politici sono allo sbando. e i due ministri più cruciali stanno con noi. non hanno altra strada che attaccare su tutta la linea, far saltare il banco. e dovevo colpire sia noi che l’entourage di Andreotti.
“Dobbiamo accelerare le nostre cose: dia, dna, leggi sui pentiti, Carnevale, tutto. li dobbiamo fregare sul tempo. devi stringere ancora di più su Martelli. Io lo sto facendo con Scotti” affermai guardando Giovanni negli occhi e notando quanto gli facesse bene sfogare i suoi pensieri liberamente.
“Cosa intendi quando dici che vogliono ripetere La Torre e Mattarella?” gli chiesi.
Ne seguì un lungo no sfogo, che qui riassumo: “ La Torre aveva un conto aperto da decenni con cosa nostra. era il nemico più forte che avessero in Sicilia, e gli aveva appena sparato contro una legge micidiale. ma nel suo omicidio c’entrano anche la P2 e Gladio, i super anticomunisti che lo odiavano per la sua battaglia contro gli euromissili. Per di più, La Torre era diventato debole anche nel suo partito. Non sapeva o non si rendeva conto che il Pci aveva rinunciato a un’opposizione frontale ai missili”.
“ E il delitto Mattarella?” Gli chiesi.
“ Quel delitto è stato un caso Moro bis. l’esecuzione fu opera di killer mafiosi e di terroristi inviati dalla P2 e sostenuti, forse anche ospitati, dalla base Gladio di Trapani. Sto ancora cercando riferimenti, è una buona fonte negli ambienti di destra” concluse il giudice.
Chi era la fonte degli ambienti di destra di Falcone sul delitto Mattarella? Falcone aveva fatto le stesse confidenze a Paolo Borsellino e questi le avevano annotate nell’agenda rossa?
E’ urgente, tenuto conto dell’età avanzata, che la Commissione proceda alla immediata audizione del prof. Arlacchi su quanto sopra specificato.
Si tratta di quesiti ad oggi insoluti di assoluto rilievo avuto riguardo anche a quanto segue.
Nell’ambito della istruttoria dibattimentale del processo per l’omicidio del giornalista Mauro Rostagno, è stato acquisito dalla Corte di Assise di Trapani un dispaccio segreto del 19 giugno 1989 attestante che l’articolazione di Gladio a Trapani fu incaricata di eseguire nei giorni seguenti una operazione (denominata in codice DOMUS AUREA) coperta dalla massima segretezza in ambito Nato nei pressi di un Villino all’Addaura. Il dispaccio conteneva l’ordine (per fortuna non eseguito dal destinatario) di distruggere immediatamente il documento dopo la lettura. Le coordinate del dispaccio consentono di identificare il villino in quello occupato dal dott. Falcone, dove il 21 giugno fu eseguito un attentato nei suoi confronti mediante esplosivo.
Chi e per quali motivi ordinò quell’operazione?
Perché i dirigenti nazionali di Gladio e quelli dell’articolazione di Trapani mentirono ai magistrati che condussero indagini sulle attività di Gladio in Sicilia, affermando che la struttura di Trapani non aveva eseguito mai alcuna operazione e si era limitata solo ad assumere informazioni sul territorio concernenti il traffico di stupefacenti?[1]
Che significato attribuire a tali false dichiarazioni alla luce della declassificazione degli archivi di Gladio (circa 190.000 pagine) disposta con direttiva del presidente del Consiglio Mario Draghi del 2 agosto 2021, a seguito della quale è emerso che in Sicilia furono eseguite numerose operazioni ed esercitazioni analoghe all’operazione Domus Aurea?
E’ pertanto indispensabile:
- che questa Commissione acquisisca copia della documentazione Gladio concernente la Sicilia declassificata e attualmente disponibile all’Archivio di Stato, operando una comparazione tra tale documentazione e il dispaccio sulla operazione “Domus Aurea”.
- che proceda alla urgente audizione dei vertici dei servizi di sicurezza attuali e di quelli operanti nel 1989 per acquisire informazioni sulle operazioni di Gladio in Sicilia e sull’operazione “ Domus Aurea”.
Quali erano i rapporti tra Cosa Nostra e Gladio, o con le articolazioni deviate di tale struttura, avuto anche riguardo alle rivelazioni del collaboratore di Giustizia Francesco Di Carlo, boss di Altofonte, ritenuto altamente attendibile in vari processi, di avere personalmente effettuato per conto dei servizi il trasporto di una grande quantità di armi e di esplosivo, occultati sotto un carico di mangime, da San Vito Tagliamento (Udine) sino a Trapani? [2]
In data 1 ottobre 1993 la squadra mobile di Trapani a seguito di una informazione proveniente da una fonte dei Servizi Segreti, effettuò una perquisizione in una villa nella disponibilità dei carabinieri LA Colla Vincenzo e Bertotto Fabio scoprendo un ingente deposito clandestino di armi e di esplosivo.
Su indicazione della medesima fonte fu rinvenuta all’interno della villa la foto di una donna indicata come coinvolta nelle stragi del 1992 e del 1993.
La donna ritratta nella foto è stata identificata dalla Procura della Repubblica di Firenze nell’ambito delle indagini concernenti la presenza di un soggetto di sesso femminile nel commando che eseguì la strage di Via Palestro a Milano il 27 luglio 1993.
Si rappresenta la necessità che la Commissione acquisisca:
- presso la Procura Generale di Palermo copia delle registrazioni delle dichiarazioni di Francesco Di Carlo concernenti il trasporto di armi su richiesta dei servizi segreti.
- presso la Procura della Repubblica di Trapani copia di tutta la documentazione del processo n. 5385/93 a carico dei carabinieri La Colla Vincenzo e Bertotto Fabio
Per quale motivo Giovanni Falcone dopo l’omicidio dell’agente della polizia di stato Antonino Agostino assassinato a Villagrazia di Carini il 5 agosto 1989, suo confidente e collaboratore dei servizi che si recava spesso a Trapani per missioni segrete, dichiarò al commissario Saverio Montalbano, dirigente del commissariato San Lorenzo dove l’agente Agostino prestava servizio, che
che quell’omicidio era un segnale diretto contro di lui (che stava in quel periodo compiendo indagini su Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini quali esecutori dell’omicidio di Piersanti Mattarella), e contro lo stesso Montalbano (che aveva condotto indagini su PierLuigi Concutelli e Francesco Mangiameli leader della formazione di estrema destra Terza Posizione)?
Per quale motivo Francesco Onorato, fu incaricato da Salvatore Biondino, braccio destro di Salvatore Riina, di uccidere Alberto Volo, esponente della destra eversiva, dopo che questi aveva reso dichiarazioni a Giovanni Falcone sull’omicidio Mattarella e sull’omicidio di Francesco Mangiameli ed era entrato in contatto con l’agente Antonino Agostino, e ciò su richiesta pervenuta all’organizzazione mafiosa da PierLuigi Concutelli, capo militare di Ordine Nuovo[3]?
In tale contesto appare rilevante che Salvatore Riina conoscesse bene i trascorsi di PierLuigi Concutelli tanto da annoverarlo come uomo che era stato vicino al capo mafia massone Stefano Bontate ed egli stesso massone, come risulta dal colloquio intercettato in carcere di Opera del 18.8.2013:
io ricordo, mi ricordo questo signore Stefano Bontate, capo dei capi e chiddu chi era pi fatti ri iddu… cumannava e dirigeva… capo siciliano ra massoneria, capo della Sicilia della massoneria iddu e atri rue: Cuncutelli ed un ricco palermitano. Iddi tre eruni i dirigenti ra massoneria siciliana…
Si rappresenta la necessità di acquisire presso la Procura Generale di Palermo copia del processo n.1/17 R.Av.P.G. concernente l’omicidio dell’agente Antonino Agostino e della moglie Ida Castelluccio
Sempre sul tema dei rapporti tra servizi segreti e Cosa Nostra in ordine alle stragi del 1992 e del 1993 restano tutt’oggi aperti e privi di soluzione altri importantissimi capitoli, ad alcuni dei quali si accenna qui si seguito.
La Falange Armata.
Vari collaboratori di giustizia hanno dichiarato che Salvatore Riina nel corso di alcune riunioni segrete svoltesi nella provincia di Enna nella seconda metà del 1991 e riservate ad una ristretta elite di capi regionali di Cosa Nostra, aveva comunicato che tutte le azioni omicidiarie e stragiste dovevano essere rivendicate con la sigla “ Falange Armata” (cfr. Avola, Spatuzza, ed altri). Il collaboratore Tullio Cannella ha dichiarato di avere appreso tale circostanza direttamente da Leoluca Bagarella.
In effetti è stato accertato che tutte le stragi sono state rivendicate con tale sigla.
Dalle indagini svolte sui contenuti dei comunicati della Falange Armata risulta che i suoi componenti erano a conoscenza di fatti segretissimi concernenti l’attività istituzionale all’estero e la vita privata del Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, circostanza questa che conferma la loro appartenenza a circuiti istituzionali interni agli apparati statali.
L’ambasciatore italiano all’O.N.U Francesco Paolo Fulci, Segretario del C.E.S.I.S. tra il 1991 ed il 1993, ritenne di individuare i componenti della Falange Armata in alcuni soggetti nominativamente indicati, appartenenti alla struttura Gladio.
Chi erano dunque i componenti della Falange Armata?
Da ultimo la Procura della Repubblica di Reggio Calabria nell’ambito del processo c.d. ndrangheta stragista ha svolto accurate indagini sulla riconducibilità di tale sigla a soggetti dei servizi segreti.
Tali risultanze probatorie sono evidenziate nelle pagine 614 e seguenti della sentenza emessa dalla Corte di Assise di Reggio Calabria, la cui motivazione è stata depositata il 19.1.2021, con la quale sono stati condannati all’ergastolo Giuseppe Graviano e Rocco Filippone, vertice della ndrangheta, per l’omicidio in data 18.1.1994 dei carabinieri Fava Antonino e Garofalo Giuseppe, nell’ambito della strategia stragista e di destabilizzazione politica del 1992/1993 concordata dai vertici di Cosa Nostra e della ndrangheta[4].
Per ragioni di sintesi si riporta in nota solo l’incipit del capitolo “Falange Armata e Servizi Segreti” di cui alle pagine citate della sentenza[5].
Si chiede l’acquisizione presso la Procura della Repubblica di Reggio Calabria di tutta la documentazione concernente le indagini sulla Falange armata.
Le dichiarazioni del collaboratore di Giustizia Armando Palmeri sui rapporti tra i servizi segreti e Cosa Nostra.
Sia la sentenza citata emessa nel processo “ndrangheta stragista”, sia la sentenza di condanna all’ergastolo di Matteo Messina Denaro per le stragi del 1992 e del 1993 (emessa dalla Corte di Assise di Caltanisetta il 20.10.2020 con deposito della motivazione in data 29 luglio 2021) hanno attribuito grande rilievo alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Armando Palmeri che qui si riportano nella sintesi della prima delle due sentenze citate.
“Significative sempre in ordine ai contatti di esponenti dei servizi segreti con esponenti di Cosa Nostra risultano le dichiarazioni di Armando Palmeri il quale ha affermato che nel primo semestre del 1992, Vincenzo Milazzo, capo mandamento di Alcamo prima di Giuseppe Ferro, aveva avuto tre incontri con degli uomini appartenenti ai servizi segreti che avevano proposto al predetto di prodigarsi per compiere degli attentati in Sicilia e fuori dall’isola.
Palmeri ha riferito che Milazzo gli aveva confidato che alcuni soggetti dei servizi segreti volevano parlare con lui e che gli aveva chiesto di presenziare a tale incontro ma egli si era rifiutato (<<DICH. PALMERI-Dunque, lui mi aveva avvertito che c’erano degli appartenenti dei servizi segreti che volevano parlare con lui. …E mi chiese… E poi, successivamente, invece… cioè, mi chiese anche di accompagnarlo, ma io gli ho detto: “Guarda, è meglio che mi tenga in maniera defilata, controlli da fuori la situazione. A che serve che io sia presente? Non serve a nulla”>>).
Il primo degli incontri era avvenuto all’inizio del 1992 presso la villa, di proprietà dell’imprenditore De Simone in contrada Conza, a Castellammare del Golfo e in tale occasione, egli aveva mantenuto un ruolo defilato, “in modo da poter controllare la situazione da distanza”. Aveva quindi avuto la possibilità di vedere due soggetti, che non conosceva, appartenenti ai servizi segreti, accompagnati dal primario di chirurgia del nosocomio di Alcamo, tale Baldassarre Lauria, che erano arrivati sul posto a bordo di due diverse autovetture. Ha affermato di avere conosciuto il dottore Lauria da piccolo in quanto il proprio padre con il predetto frequentava un circolo culturale. Il Milazzo all’arrivo dei predetti si trovava già all’interno della villa di cui aveva le chiavi, mentre egli era appostato nei dintorni con un binocolo. L’incontro era durato circa un’ora – un’ora e mezza e, una volta concluso, egli si era recato a prendere il Milazzo e lo aveva riaccompagnato a Gibellina, dove abitava. Sulla via del ritorno il Milazzo gli aveva raccontato il contenuto dell’incontro facendogli intendere chiaramente che dissentiva da quanto gli era stato proposto (“DICH. PALMERI-Che questi erano matti. Che questi erano matti, perché volevano fare addirittura… il dottore Lauria addirittura si mise a… propose di fare una guerra batteriologica, anziché ricorrere a bombe, e farla al fine di piegare lo Stato molto più facilmente”) in quanto i soggetti con cui si era incontrato avevano l’obiettivo di commettere delle stragi .
A seguito di contestazione da parte del P.M. ha confermato che il Lauria aveva affermato che sarebbe stato più facile avvelenare l’acquedotto e che forse aveva fatto riferimento a quello di Firenze. Il Milazzo era rimasto “contrariato” da tale proposta, ma sostanzialmente aveva capito che non si sarebbe potuto tirare indietro perché sarebbe stato molto pericoloso (<<DICH. PALMERI-lui, in una occasione, mi disse adirato: “Ma non lo capisci che moriamo, che siamo morti?”. “Non lo capisci che se rifiutiamo, siamo morti?”, “hai capito?”). Di fronte a tale argomento il Palmeri aveva risposto dicendo che morire non sarebbe stato un problema (<<E io mi mantenni calmo, gli ho detto: “E allora? Il problema dove sta?”>>) ma per il Milazzo tale affermazione era stata considerata “un affronto” in quanto rivolta ad un uomo d’onore da un uomo “non d’onore”.
Il collaboratore ha riferito che Vincenzo Milazzo al termine del primo incontro aveva definito i due soggetti “pazzi scatenati” ma nello stesso tempo era affascinato, e gli aveva detto: “Questa è la vera mafia, questa è la vera mafia”, anche se si sentiva “impotente” rispetto a tali soggetti e temeva che, se avesse rifiutato, gli avrebbero fatto la cosiddetta “tragedia”, in quanto altri avrebbero aderito a tale strategia.
Il Milazzo aveva detto che avrebbe dovuto riflettere sulla proposta (<<DICH. PALMERI-Disse “ni”. Si doveva… cioè, doveva rifletterci. Poi non so in quali termini, che usò il… sicuramente non ha detto un “no” drastico al primo incontro>>) forse perché doveva consultarsi con qualcuno.
Fra il primo e il secondo incontro il Milazzo aveva incontrato presso un casolare sito nella provincia di Gibellina, Gioacchino Calabrò, al quale aveva detto di riferire a Giuseppe Ferro, di mettersi a disposizione con quei parenti “di lassù” e successivamente egli aveva compreso che si trattava dell’attentato ai Georgofili, a Firenze in quanto il Ferro aveva dei parenti che abitavano nei dintorni di Firenze.
Il Milazzo pertanto non condivideva tale strategia ma non poteva rifiutarsi (“DICH. PALMERI-Non condivide la guerra allo Stato, perché, sostanzialmente, avrebbe provocato una veemente reazione dello stesso. Quindi… e che non porta a nulla di bene, come poi effettivamente è successo”) La guerra allo Stato doveva essere consumata, attraverso bombe, attentati terroristici, guerre batteriologiche e doveva portare alla “destabilizzazione dello Stato” per come riferitogli dal Milazzo. In una occasione il Milazzo gli aveva riferito che tali soggetti conoscevano anche lui (“Guarda che questi conoscono anche te”) e ciò probabilmente in quanto egli era stato detenuto presso la casa di reclusione di Spoleto, aveva goduto del massimo rispetto di tutti i detenuti, era stato amico e sostenuto anche dai terroristi di destra e aveva avuto anche una “diatriba” con Bagarella riuscendo ad avere la meglio.
Il secondo incontro era avvenuto a distanza di un paio di mesi dal primo ma prima della strage di Capaci sempre in contrada Conza, a Castellammare del Golfo, in una villa di proprietà di un costruttore palermitano, tale Manlio Vesco, e anche in questo caso il Milazzo aveva la disponibilità delle chiavi dell’abitazione. Il costruttore Vesco era morto suicida a distanza di qualche anno dagli incontri in strane circostanze in quanto si era fermato in autostrada, e dopo avere ripercorso a ritroso a piedi in autostrada un tratto lungo diversi chilometri, si era buttato giù dal viadotto. Con il Milazzo si erano recati sul posto mezz’ora – un’ora prima che arrivassero gli altri soggetti. Egli si era trattenuto fuori dall’abitazione ed aveva notato sempre i due soggetti che arrivavano, preceduti dalla “Volvo” del dottor Lauria. Una volta concluso l’incontro egli di sua iniziativa li aveva seguiti di nascosto fino a Palermo ed era riuscito ad annotare il numero di targa per cercare di capire chi fossero. Su richiesta del Milazzo egli aveva portato il numero di targa a tale Sebastiano Di Benedetto, macellaio di Castellammare del Golfo vicino a Giuseppe Ferro, affinchè risalisse al proprietario del veicolo e dopo qualche giorno il Milazzo aveva saputo che la macchina era intestata ad una società di autonoleggio dell’aeroporto “Punta Raisi”. Tuttavia era emerso che in quei giorni l’autovettura non era stata noleggiata in quanto non vi era alcuna annotazione al riguardo. Il pedinamento era durato circa mezz’ora e, una volta rientrato, aveva riferito tutto al Milazzo il quale era “incavolato”. Aveva quindi riaccompagnato il Milazzo a casa il quale nel corso del tragitto aveva ribadito le sue perplessità riguardo alla strategia propostagli (“DICH. PALMERI-…..sempre su questa situazione qua, che sono pazzi, che vogliono fare queste stragi, che vogliono la destabilizzazione dello Stato, che sarebbe la fine di cosa nostra, che non porterebbe nessun beneficio a nessuno….”) mantenendo le sue riserve. Il Milazzo cercava di defilarsi ma tale suo atteggiamento era stato interpretato come un rifiuto (<DICH. PALMERI-<Lui tentò di mantenere il “ni”, e questo “ni” però fu interpretato come “no”. E le spiego: appunto, in riferimento a quell’ordine che diede al Calabrò, di dire, di riferire a Giuseppe Ferro di mettersi a disposizione con quei parenti del nord… E quindi lui, in qualche maniera, cercava di defilarsi, però questo “ni”, questo protrarsi del “ni”, a mio avviso fu interpretato come “no”>>).
Ha precisato che l’incontro cui il Milazzo aveva partecipato al quale avevano presenziato Bagarella ed altri esponenti di Cosa Nostra era avvenuto in inverno, probabilmente tra il primo e il secondo incontro con i soggetti appartenenti ai servizi segreti.
Infine il terzo incontro era avvenuto poco prima della morte del Milazzo, tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio, e si era svolto in una villa alle pendici del monte Bonifato, che sovrasta Alcamo, di proprietà del senatore Ludovico Corrao. Quest’ultimo era molto famoso nella zona in quanto aveva contribuito alla ricostruzione di Gibellina ed era morto in circostanze “alquanto discutibili” in quanto era stato ucciso “dal servetto cingalese” a distanza di diversi anni da tale incontro.
Il Milazzo nell’apprendere la notizia della strage di Capaci, era rimasto attonito ed egli aveva commentato dicendo che adesso sarebbe stato il loro turno (“DICH. PALMERI-Lui rimase di pietra, non commentò. Ci guardammo in faccia, io con un sorriso, e gli dissi: “E poi tocca a noi, Vince’! E ora tocca a noi, Vince’”…..gli ho detto io: “E ora tocca a noi, Vince’! E ora sarà… prima o dopo verrà il nostro turno”, intendevo dire. …Perché sapevo che lui non… verrà il nostro turno>>) ed il primo gli aveva ribadito che la sua contrarietà a tale strategia (<< “Pazzi, sono pazzi”. “Pazzi, sono pazzi”. Ah, a quella mia infor… come… lo sapevamo, dottore Lombardo. È inutile dirlo. Lo sapevamo, però io ci scherzavo, lui un po’ meno. Lui un po’ meno. E io però ci scherzavo>>). In quel momento il Milazzo aveva compreso che era stata avviata la strategia stragista (“…capisce che quello è il momento che è partita la guerra. Ha capito che quello è il momento che è partita la guerra..”) ma aveva pensato che la spavalderia dimostrata sarebbe venuta meno nel momento in cui sarebbero state inflitte le condanne per tali gravi fatti criminosi (<<.. E mi dice, in siciliano, mi dice: “Amu a vìriri dopu quando accumincianu a chioviri l’ergastuli”. “Dobbiamo vedere dopo quando incominciano a piovere gli ergastoli”>>).
Ha precisato che nel corso del terzo incontro aveva avuto modo di vedere diverse macchine all’interno della villa, di avere accompagnato il Milazzo e di essere andato via. Il Milazzo in tale circostanza non aveva la disponibilità delle chiavi, ma gli era stata aperta la porta dai soggetti che si trovano già all’interno All’imbrunire era tornato a prenderlo e aveva notato la presenza di diverse macchine fuori dalla villa. Il Milazzo sulla via del ritorno aveva fatto gli stessi discorsi facendo intendere di avere mantenuto il medesimo atteggiamento (<<Nulla di nuovo, anche perché lui giocava la carta del “ni”. …ancora giocava… ancora giocava la carta del “ni”>>) ma egli aveva intuito che tale atteggiamento avrebbe provocato a breve la loro fine (“…..anche se io percepivo che era arrivata la fine, da determinati atteggiamenti, da incontri che vedevo col Brusca, Peppe Ferro, Gioacchino Calabrò, erano agitati, c’era un qualcosa di impercettibile, non so spiegarlo. …Comunque, la sentivo, sapendo, respirando quell’aria, lo sentivo che era la fine, che era arrivato il nostro momento”).
Ha chiarito che i soggetti appartenenti ai servizi segreti, “deviati” notati nel corso dei due primi incontri erano sempre gli stessi e che in occasione del terzo incontro non aveva avuto modo di vederli mentre scendevano dalla macchina[6].
Il Palmeri con riferimento ad Antonino Gioè ha affermato di essere a conoscenza del fatto che il predetto era morto suicida nel carcere di Rebibbia ma ha escluso che il predetto potesse avere deciso di prendere la decisione di togliersi la vita (“DICH. PALMERI-..allora, personalmente escludo che il Gioè si sia suicidato, perché lo conoscevo abbastanza bene. E credo verosimilmente che sia stato suicidato. Però questa… non ho elementi, lo ripeto, conoscevo Gioè, sono stato vicino a lui, so di che tempra era, e non credo che dopo un po’ di carcere si vada a suicidare. Non era nel suo stile, ecco perché lo escludo, personalmente. Però, non ho elementi di prova, che possano confermare quello che sto dicendo. Però, in virtù della conoscenza del Gioè, io lo escludo, nel mio cuore. Poi…”) aggiungendo che analoga valutazione aveva fatto anche Gioacchino Calabrò (“..Io mi ricordo che quando appresi del Gioè, tipo così, del suicidio di Gioè, lo raccontai a Gioacchino Calabrò, e incontrai Gioacchino Calabrò, gli ho detto: “Ma Nino”, tipo sconfortato, no?, e mi ha detto in dialetto: “L’hanno ammazzato”. Quindi, anche il Calabrò ebbe questa percezione, che fosse stato suicidato, ecco…”).
Al tal proposito merita di essere richiamato il contenuto della conversazione intercettata nel carcere di Ascoli Piceno in data 24-6-2016 nel corso della quale il Graviano, parlando del pentimento di Di Matteo, lo attribuisce al fatto che il predetto temeva di fare la stessa fine del Gioè per mano dei servizi segreti (“ Di Matteo che doveva andare all’Asinara si è pentito a ottobre, quando lui gli ha detto..dice…quando ha sentito che Gioè si è pentito e si è impiccato..lui stava andando all’Asinara e si è pentito perché dice ora impiccano pure a me, perché sono convinti che sono stati si servizi segreti..non so sei ha sentito..ad impiccare Gioè..”)
Va inoltre sottolineata l’anomala circostanza che lega Gioè a Domenico Papalia in quanto nella lettera scritta prima di suicidarsi il primo affermava, che quando aveva detto di avere appreso in carcere dal Papalia stesso che era lui l’autore dell’omicidio per cui era stato condannato, aveva affermato cosa non vera al solo scopo di accreditarsi come personaggio a conoscenza di varie circostanze.[7]
Conclusivamente può quindi affermarsi che l’esistenza di rapporti tra esponenti di vertice delle organizzazioni criminali sia calabresi che siciliane ed i servizi segreti si evince dalle dichiarazioni di numerosi collaboratori di giustizia, alcuni dei quali (Cuzzola, Foschini, Fiume) hanno affermato che si trattava di contatti assai risalenti nel tempo da cui erano derivati ad alcuni esponenti di vertice di famiglie di ‘‘Ndrangheta indubbi benefici.
Quanto poi ai contatti di esponenti dei servizi di sicurezza con elementi di vertice delle famiglie di Cosa Nostra finalizzati alla commissione di attentati ai danni dello Stato, rilevano le dichiarazioni rese dai collaboratori Ferro e Palmieri, sotto certi aspetti certamente inquietanti, secondo i quali gli apparati di sicurezza avrebbero avuto un ruolo nella strategia stragista”.
Il Milazzo fu assassinato il 14 luglio 1992 per ordine di Salvatore Riina da un commando capitanato da Matteo Messina Denaro coinvolto in tutte le stragi del 1992 e del 1993, e composto, tra gli altri, da Antonino Gioè esecutore della strage di Capaci e da Gioacchino Calabrò condannato con sentenza definitiva per la strage d Via Georgofili.
Il giorno seguente fu strangolata la ventitreenne Antonella Bonomo, fidanzata in stato di gravidanza del Milazzo, in quanto si temeva che potesse rivelare i segreti del Milazzo di cui era a conoscenza.
Il collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo, ex boss di Altofonte, sentito davanti la Corte d’Assise di Caltanissetta nel processo sulle stragi del 1992 in cui era imputato Matteo Messina Denaro, ha confermato di avere appreso dal cugino Antonino Gioè che Milazzo era stato ucciso perché non voleva le stragi.
Matteo Messina Denaro interrogato dal GIP di Palermo dopo la sua cattura, si è limitato a precisare di avere accertato dopo l’omicidio, che Antonella Bonomo non era in stato di gravidanza, come se tale circostanza potesse sminuire le sue responsabilità.
Chi erano gli uomini dei servizi segreti che unitamente al dott. Baldassare Lauria (eletto nelle elezioni politiche del 1994 al Senato per il movimento politico Forza Italia) in tre incontri avvenuti poco prima e poco dopo la strage di Capaci, puntualmente descritti dal collaboratore di giustizia Armando Palmeri, chiesero al capo mafia di Alcamo Vincenzo Milazzo (già coinvolto nella strage di Pizzolungo del 2 aprile 1985) di unirsi alla strategia stragista?
Quale è il collegamento tra l’omicidio del Milazzo eseguito il 14 luglio 1992 a causa del suo rifiuto di partecipare alla esecuzione delle stragi e la strage di via D’Amelio eseguita il 19 luglio successivo con il coinvolgimento pure di uomini dei servizi interessati a fare sparire l’agenda rossa di Borsellino e sino ad oggi mai identificati?
Per quali motivi il dott. Baldassare Lauria identificato già dalla Dia con informativa trasmessa alla Procura della Repubblica di Caltanissetta prot .n. 125 Cl/E 4 -3 prot. 2448 del 7 settembre 2004 è stato interrogato pe la prima volta solo nell’anno 2020, ben sedici anni dopo?
Il collaboratore Patti è stato trovato morto il 19 marzo 2023 nella sua abitazione all’età di 62 anni per cause in corso di accertamento. Il giorno seguente avrebbe dovuto testimoniare a Caltanissetta in un confronto con Baldassare Lauria, la persona da lui indicata come presente agli incontri del Milazzo con gli uomini dei servizi segreti, dopo che la Procura della Repubblica di Caltanissetta ha riscontrato l’esattezza delle dichiarazioni da lui rese sulle ville ove erano avvenute gli incontri, sull’autovettura utilizzata dal Lauria, e su altri particolari. Il Palmeri aveva chiesto al P.M. Pasquale Pacifico di poter intervenire in videoconferenza perché aveva paura e si sentiva in pericolo.
Manlio Vesco proprietario della villa in contrada Conza di Castellammare del Golfo nella quale si svolse il primo incontro con gli uomini dei servizi segreti fu trovato morto suicida nell’ottobre del 1993 in circostanze misteriose. Il senatore Ludovico Corrao proprietario della villa nella quale si svolse il terzo incontro è stato assassinato il 7 agosto 2011.
Questa inquietante sequenza di avvenimenti è casuale?
Si chiede che la Commissione acquisisca presso la Procura della Repubblica di Caltanissetta copia integrale del procedimento penale concernente le indagini svolte a seguito delle dichiarazioni del collaboratore Armando Palmeri sopra specificate e proceda alla audizione del Procuratore della Repubblica di Caltanissetta.
Le dichiarazioni dei collaboratori Giuseppe Ferro e Tullio Cannella sui suggeritori esterni per l’esecuzione delle stragi.
I collaboratori Giuseppe Ferro, condannato per la strage di Via Georgofili a Firenze, e il collaboratore Tullio Cannella che assistette Leoluca Bagarella durate la sua latitanza e che per suo conto si incaricò di dare vita da un nuovo movimento politico (Sicilia Libera) partecipando a varie riunioni, hanno entrambi dichiarato nel processo per la strage di Via Georgofili a Firenze che Leoluca Bagarella disse loro in circostanze diverse che l’indicazione per le esecuzioni delle stragi venivano da ambienti esterni a Cosa Nostra.
Si riporta qui di seguito quanto dichiarato al riguardo dal collaboratore di Giustizia Tullio Cannella dinanzi Corte di Assise, all’udienza del 25 giugno 1997:
“…Il signor Bagarella, per il rapporto che poi io ho avuto dal punto di vista della collaborazione che poc’anzi ho detto, di carattere strategico, politico e tutto, in maniera molto chiara mi disse che in effetti la ideazione delle stragi non è sua, nel senso che nel 1993, come noi sappiamo, già era stato catturato il signor Salvatore Riina. Quindi si potrebbe pensare che il signor Bagarella, nel 1993, decide di operare, di attuare questa stagione stragista. Ma il commento del signor Bagarella era e fu, ripercorrendo a ritroso pagine della storia italiana e quindi più specificatamente partendo dalla strage di Capaci a quella di Via D’Amelio, a quelle che si erano cercate nell’Estate del 1993, Bagarella mi dice che questo era il frutto di un determinato piano che era stato preventivamente stabilito o concordato. E che comunque mi disse: “E’ molto facile caro Tullio, secondo i pentiti, che tutta viene scaricata la responsabilità su Salvatore Riina o su di me. Mentre altri hanno questa responsabilità.” Che quindi con questa dichiarazione non sto affatto escludendo che sul piano operativo militare il signor Bagarella era a conoscenza e che altri fattivamente hanno partecipato praticamente alla attuazione delle stragi. Ma intendo precisare che il signor Bagarella mi disse in maniera molto chiara ed evidente che erano da ricercare in ambienti economico, politico, massonico, i veri mandanti e ideatori della strage. Altro non posso dire…”. A domanda se si trattasse di una interpretazione: “No, no questa non è una interpretazione…sì, sì, questo, una espressione chiara…” Il Presidente chiese al Cannella di ripetere: “Sì, posso ripeterlo. Che in effetti vi erano stati, per questa attuazione, degli interessi. E quindi una concomitanza di interessi con Cosa Nostra, per spiegarlo in maniera ancora più chiara, di ambienti politico-affaristici, quindi economici e massonici…”.
Il collaboratore Giuseppe Ferro a sua volta ha dichiarato:
“Aggiungo che, dopo l’arresto di Gino CALABRO’, mi incontrai con BAGARELLA LEOLUCA, da solo, a Partinico. BAGARELLA LEOLUCA mi disse che aveva bisogno di “appoggi” a Bologna e a Firenze.
A Bologna, lo dico ora in sede di verbalizzazione, io ho un cognato che si chiama MLLAZZO Gaspare, situazione della quale BAGARELLA LEOLUCA era a conoscenza. Obiettai a BAGARELLA LEOLUCA che, fino che “cosa nostra” avesse avuto come obbiettivi magistrati e forze dell’ordine, si sarebbe trattato di uno scontro tra combattenti che appartenevano a due fronti opposti. Se invece si fossero fatte azioni che coinvolgevano persone innocenti, “cosa nostra” avrebbe perso il consenso per la generalizzata reazione di rigetto che si sarebbe avuta.
BAGARELLA LEOLUCA allargò le braccia e mi rispose: “Vogliono che facciamo rumore”.
Chiestomi, in sede di verbale, di circostanziare questo incontro tra e BAGARELLA LEOLUCA, dico che era d’estate: poteva essere tra fine di maggio e giugno: “non era ancora luglio”. L’incontro si svolse a Partinico.
Ancora: quando mi dovevano arrestare (si tratta dell’arresto della fine del 1992, come preciso in sede di verbalizzazione), ebbi un incontro con BAGARELLA LEOLUCA a Castellammare.
Gli chiesi se c’era un modo per evitare l’arresto, ricorrendo a qualche aiuto esterno a “cosa nostra”, e BAGARELLA LEOLUCA mi rispose che al momento non c’erano aiuti e che erano “gli altri, quelli che in passato erano stati aiutati, che chiedevano ora a noi aiuto.”
Aggiungo óra che “cosa nostra” riceveva informazioni anche da ambienti esterni che potevano essere quelli politici o quelli della massoneria.
Chi erano i suggeritori esterni?
Le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Giovanbattista Ferrante sui mandanti esterni appartenenti alla massoneria e le intercettazioni di Salvatore Riina sui massoni che avevano voluto l’esecuzione di stragi fuori dalla Sicilia
Il collaboratore Giovanbattista Ferrante, uomo d’onore del mandamento di San Lorenzo condannato quale partecipe ad entrambe le stragi siciliane del ’92, ha dichiarato alla Procura della Repubblica di Caltanissetta in data 8 aprile 1988 che Riina, dopo avere incontrato Matteo Messina Denaro, aveva affermato in sua presenza che le stragi le avevano richieste i massoni: “ i massoni vosiru ca sifìci chistu”.
Tale dichiarazione ha trovato un eccezionale riscontro nelle rivelazioni dello stesso Salvatore Riina.
Infatti Salvatore Riina intercettato nel carcere di Opera nel corso del suo colloquio con il detenuto Lo Russo del 18 agosto 2013 esprimeva in modo infervorato tutto il proprio disappunto perché dopo il suo arresto erano state eseguite stragi fuori dalla Sicilia, in particolare a Firenze, accusando i mafiosi che avevano assunto tale decisione di essersi prestati a fare il gioco degli altri, altri espressamente indicati come i massoni. Il Riina qualificava i mafiosi che avevano deciso di eseguire la strage a Firenze come sbirri e infamoni, che nel gergo mafioso equivale a vicini ai poliziotti e ai servizi segreti.
Si riportano qui di seguito i passi salienti di tali affermazioni del Riina nella trascrizione acquisita agli atti del processo c.d. Trattativa:
Però, però che cosa pretendono di sti poveri ragazzi, ragazzotti con questo finimondo che è successo e che la gente si… ci mannanu a so’ zio fuora, a so’ a Firenze pi’ ghiri a fari dannu! Sti cuosi i va fannu fuora ra Sicilia. Ma si io sugnu sicilianu picchì l’è ghiri a fari fuora ra Sicilia?
[…]
io di Palermo mi nn’è ghiri a Firenze… Picchì mi nn’è ghiri a Firenze?
[..]
picchì l’è ghiri a fari fuora, io i’ fazzu rintra a me’ casa. |
[…] |
rintra a me’ casa miettu i cuosi, i’ pigghiu e i’ miettu a bolliri, non hanno capito niente nessuno, non le capiscono le cose… |
[..] |
si prestano al gioco degli altri… |
[..] |
tutte queste simulazioni, questi imbecilli, questi miserabili. |
[..] |
si prestano al gioco questi miserabili perché tu comu fai u capu massuoni, cu’ ti ci fici massuoni? Tu quannu facisti u giuramientu chi facisti? Facisti… |
[..] |
imbroglione, ma puru tu a diri… |
[..] |
imbroglioni tutti quanti su’, quindi sunnu tutti sbirruni e tutti ‘nfamuni… |
In ordine a rapporti tra Cosa Nostra, Ndrangheta e massoneria, si rinvia alla analitica ricostruzione basata su dichiarazioni riscontrate di collaboratori di giustizia e di testimoni, contenuta nella motivazione della sentenza sopra indicata del processo ndrangheta stragista di cui si chiede l’acquisizione, e in particolare al Capitolo III intitolato : I rapporti tra le organizzazioni criminali e la politica. Le infiltrazioni ed il coinvolgimento della massoneria[8].
Si chiede che la Commissione acquisisca presso la Procura della Repubblica di Caltanissetta copia delle dichiarazioni rese da Giovanbattista Ferrante in data 8 aprile 1988 nonché presso la Procura della Repubblica di Palermo copia delle trascrizioni di tutte le intercettazioni dei colloqui di Riina in carcere e, in particolare, del colloquio del 18 agosto 2013.
Le anticipazioni sulla strage di Capaci dell’agenzia di stampa “ Repubblica”
48 e 24 ore prima della strage di Capaci, l’Agenzia Giornalistica “ La Repubblica” anticipava che di li a poco si sarebbe verificato “un bel botto esterno” per interferire sulle elezioni in corso del nuovo Presidente della Repubblica.
Le indagini svolte dalla D.I.A. sull’agenzia “Repubblica”[9] hanno permesso di appurare che il direttore responsabile dell’agenzia era Ugo Dell’Amico, figlio di Lando Dell’Amico, a sua volta “Direttore politico” e fondatore (fin dal 1980) dell’agenzia. Lando Dell’Amico era stato per anni militante nell’estrema destra, legato al principe Junio Valerio Borghese, ed era stato coinvolto nelle indagini sulla strage di Piazza Fontana, nell’ambito delle quali nel 1974 era stato tratto in arresto in esecuzione di un mandato di cattura emesso dal G.I. di Milano.
Chi erano le fonti che consentirono di preannunciare l’imminente esecuzione della strage di Capaci?
A chi era diretto quel messaggio decifrabile solo da addetti ai lavori abbonati a quell’organo di stampa?
Il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca sentito nel processo a carico del senatore Andreotti ha dichiarato in udienza che Salvatore Riina gli disse che con la strage di Capaci avevano raggiunto due risultati: uccidere Falcone e impedire ad Andreotti di diventare presidente della Repubblica.
Si chiede che la Commissione acquisisca copia degli articoli di stampa citata e presso la Procura della Repubblica di Palermo copia delle indagini svolte dalla Dia al riguardo nell’ambito del procedimento penale Proc. pen. n. 2566/98 R.G.N.R. a carico di Licio Gelli + 13 nonché copia della trascrizione delle dichiarazioni rese dal collaboratore Giovanni Brusca nel dibattimento del processo a carico del senatore Giulio Andreotti.
Le anticipazioni su tutte le stragi e gli omicidi del 1992 e del 1993 di Elio Ciolini.
Alla fine del 1991 veniva tratto in arresto Elio Ciolini, già coinvolto nelle indagini sulla strage di Bologna. Al momento dell’arresto Ciolini veniva trovato in possesso di documenti e numeri di telefono attestanti i suoi rapporti con i servizi segreti statunitensi, italiani e di altre nazionalità.
ll Ciolini in data 4 marzo 1992 indirizzava una missiva al G.I. presso il Tribunale di Bologna
scrivendo:
“Nel periodo marzo-luglio di quest’anno avverranno fatti intesi a destabilizzare l’ordine pubblico come esplosioni dinamitarde intese a colpire quelle persone “comuni” in luoghi pubblici, sequestro ed eventuale “omicidio” di esponente politico PSI, PCI, DC sequestro ed eventuale “omicidio” del futuro Presidente della Repubblica.”
In data 18 marzo 1992, scriveva infatti un’altra lettera al giudice istruttore di Bologna:
Egregio dottore,
Non a caso la mia informazione sugli eventi di quanto in oggetto, per sfortuna, si è rivelata giusta.
Alla riunione (Sissak) parlavano Inglese, ho fatto un poco di fatica a ricordare, e per questo solo oggi le scrivo.
Ora, “bisogna” attendersi un’operazione terroristica diretta ai vertici PSI, a personaggio di rilievo…”
Lo stesso giorno consegnava un appunto esplicativo della complessa strategia stragista e di destabilizzazione politica in corso di esecuzione che coinvolgeva oltre alle mafie, esponenti della massoneria, e che prevedeva che nel prosieguo di “distogliere l’impegno dell’opinione pubblica dalla lotta alla mafia, con un pericolo diverso e maggiore di quello della mafia.
Tutte le anticipazioni fatte dal Ciolini in periodo non sospetto si verificavano puntualmente.
In effetti la strategia stragista aveva il suo incipit nel marzo 1992 a Palermo con l’omicidio a Palermo il 12 marzo 1992 dell’ on.le Salvo Lima importante esponente nazionale della D.C e referente siciliano del senatore Giulio Andreotti, uno dei più autorevoli candidati alla carica di Presidente della Repubblica, ed il suo climax nel luglio 1992 con la strage di via D’ del 19 luglio 1992 Amelio ( Nel periodo marzo-luglio di quest’anno avverranno fatti intesi a destabilizzare l’ordine pubblico come esplosioni dinamitarde intese a colpire quelle persone “comuni” in luoghi pubblici, sequestro ed eventuale “omicidio” di esponente politico PSI, PCI, DC sequestro ed eventuale “omicidio” del futuro Presidente della Repubblica.”)
Dopo la prima missiva del 4 marzo veniva assassinato a Palermo il 12 marzo 1992 l’ on.le Salvo Lima importante esponente nazionale della D.C e referente siciliano del senatore Giulio Andreotti, uno dei più autorevoli candidati alla carica di Presidente della Repubblica (omicidio di esponente politico PSI, PCI, DC.).
Veniva accertato che un gruppo di fuoco di Cosa Nostra era stato in effetti incaricato di uccidere l’on.le Claudio Martelli (omicidio di esponente politico PSI, PCI, DC.)
Veniva appurato che in effetti era stato progettato di uccidere Andreotti o di rapire e sequestrare suo figlio (sequestro ed eventuale “omicidio” del futuro Presidente della Repubblica).
Infine nel 1993 venivano eseguite le stragi nel Nord dell’Italia che – come preannunciato da Ciolini già il 18 marzo 1992 – sortivano lo scopo di “distogliere l’impegno dell’opinione pubblica dalla lotta alla mafia, con un pericolo diverso e maggiore di quello della mafia”.
A seguito delle rivelazioni del Ciolini, il capo della Polizia e il Ministro degli Interni Scotti diramavano dispacci di preallarme a tutte le prefetture dello Stato.
Quali erano le fonti di Ciolini?
O chi si avvalse di Ciolini per lanciare tramite lui l’allarme su quanto si preparava?
Si chiede che la Commissione acquisisca:
- presso la Procura della Repubblica di Firenze tutta la documentazione sequestrata al Ciolini al momento del suo arresto – documentazione che a tutt’oggi non risulta essere mai stata oggetto di indagine – attestante i suoi rapporti con servizi segreti nazionali ed esteri, nonchè copia delle missive e degli appunti del Ciolini sopra menzionati;
- presso la Procura della Repubblica di Firenze e di Palermo copia degli atti di indagine compiuti a seguito delle dichiarazioni del Ciolini
I temi di indagine accennati sono di estremo rilievo tenuto conto che a far data dal dicembre 1992 numerosi collaboratori di giustizia dichiareranno che negli ultimi mesi del 1991 si erano svolte riunioni nella provincia di Enna riservate solo ad una ristretta elite di capi regionali di Cosa Nostra, nel corso delle quali era stato approvato un piano tenuto segreto al di fuori di quella cerchia ristretta di capi e quindi tenuto segreto anche ai componenti della commissione provinciale di Palermo ai quali alla fine del 1991 Riina comunicò solo le motivazioni interne attinenti agli specifici interessi di Cosa Nostra, senza fare alcuna menzione della partecipazione di soggetti esterni e di quanto era stato deciso nelle riunioni di Enna.
Tale piano elaborato su indicazione di soggetti esterni appartenenti alla massoneria e al mondo politico e alla destra eversiva, prevedeva che gli omicidi e le stragi eseguite da Cosa Nostra venissero eseguite con una tempistica ed una scelta mirata degli obiettivi tali da finalizzare l’esecuzione di tali azioni criminose non solo agli interessi interni dell’organizzazione mafiosa, ma altresì agli interessi di un più articolato sistema criminale, e ciò al fine di destabilizzare l’ordine politico esistente non più in grado di garantire l’impunità e gli interessi di tale sistema criminale, e di creare le condizioni per la discesa in campo di un nuovo soggetto politico in fase di formazione.
Tale soggetto in una prima fase storica 1992/1993 era stato una formazione leghista meridionale, tuttavia nel corso del 1993 a seguito della nascita della formazione politica Forza Italia i consensi erano stati dirottati su tale nuova formazione politica.
A prescindere dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, la compartecipazione alle stragi di complici eccellenti integrati in un complesso aggregato di forze criminali fu rilevata autonomamente dalla Direzione Investigativa Antimafia già in un’informativa del 1993 nella quale si evidenziava che dietro le stragi si muoveva una “aggregazione di tipo orizzontale, in cui ciascuno dei componenti è portatore di interessi particolari perseguibili nell’ambito di un progetto più complesso in cui convergono finalità diverse” e che dietro gli esecutori mafiosi c’erano menti che avevano “ dimestichezza con le dinamiche del terrorismo e con i meccanismi della comunicazione di massa nonché una capacità di sondare gli ambienti della politica e di interpretarne i segnali”.
Il primo collaboratore di giustizia in ordine temporale a rivelare i contenuti delle riunioni di vertice ad Enna nel 1991 fu Leonardo Messina. Audito dalla Commissione Parlamentare Antimafia il 4 dicembre 1992, il Messina dichiarò quanto segue:
LEONARDO MESSINA. La riunione è stata l’atto finale. Erano lì da circa tre mesi …
PRESIDENTE. Lì dove?
LEONARDO MESSINA. Nella provincia di Enna. Avevano fatto la nuova strategia e avevano deciso i nuovi agganci politici, perchè si stanno spogliando anche di quelli vecchi.
PRESIDENTE. Può spiegare meglio questo passaggio di alleanze?
LEONARDO MESSINA. Cosa nostra sta rinnovando il sogno di diventare indipendente, di diventare padrona di un’ala dell’Italia, uno Stato loro, nostro.
PRESIDENTE. L’obiettivo è quello di rendere indipendente la Sicilia rispetto al resto d’Italia?
LEONARDO MESSINA. Si. In tutto questo Cosa nostra non è sola, ma è aiutata dalla massoneria.
PRESIDENTE. Ci sono forze nuove alle quali si stanno rivolgendo?
LEONARDO MESSINA. Si, ci sono forze nuove, si stanno rivolgendo.
PRESIDENTE. Può dire alla Commissione di quali forze si tratta?
LEONARDO MESSINA. Non vorrei creare qua situazioni …
PRESIDENTE. Va bene. Si tratta di formazioni tradizionali o di formazioni nuove?
LEONARDO MESSINA. Sono formazioni nuove.
PRESIDENTE. Non tradizionali.
LEONARDO MESSINA. No, non tradizionali.
PRESIDENTE. In Sicilia sono forti o sono deboli?
LEONARDO MESSINA. Non vengono dalla Sicilia.
…………………………………………
PRESIDENTE. Lei ha fatto più volte riferimento alla massoneria. Vuole spiegare questo rapporto?
LEONARDO MESSINA. Molti degli uomini d’onore, cioè quelli che riescono a diventare dei capi, appartengono alla massoneria. Questo non deve sfuggire alla Commissione, perché è nella massoneria che si possono avere i contatti totali con gli imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il potere diverso di quello punitivo che ha Cosa nostra.
PRESIDENTE. Ed è nella massoneria che sta sorgendo questa idea del separatismo?
LEONARDO MESSINA. Si. Desidero precisare che tutto quello che dico non è fonte di deduzioni o di interpretazioni personali, ma è quello che so.
PRESIDENTE. Queste cose le sa per conoscenza diretta?
LEONARDO MESSINA. Si, le so per conoscenza diretta.
……………………………
PRESIDENTE. Può spiegare l’ipotesi separatista? Lei ha detto che la Sicilia è troppo piccola ormai per gli affari di Cosa nostra; poi però ha aggiunto che a Cosa nostra e ai massoni insieme ora interesserebbe il separatismo siciliano. Può spiegare questi due concetti che sembrano apparentemente in contraddizione?
LEONARDO MESSINA. “Massone” è una parola che poi racchiude tantissimi tipi di persone. Cosa nostra non può più rimanere succube dello Stato, sottostare alle sue leggi, Cosa nostra si vuole impadronire ed avere il suo Stato.
………………………………………
PRESIDENTE. Le spinte separatiste vengono da fuori o sono dentro i confini nazionali?
LEONARDO MESSINA. Penso che vengono da fuori dei confini nazionali. Posso parlare del programma della regione mafiosa; sarebbe assurdo che sapessi che cosa decide la massoneria. So che cosa ha deciso Cosa nostra.
PRESIDENTE. E la regione ha deciso, come lei ci spiegava, di orientarsi verso l’indipendentismo, verso un nuovo separatismo?
LEONARDO MESSINA. Si.
PRESIDENTE. Questo separatismo sarebbe in collegamento con forze – lei dice – non nazionali o anche con forze nazionali?
LEONARDO MESSINA. Anche con forze nazionali.
PRESIDENTE. Quindi con forze nazionali e non nazionali?
LEONARDO MESSINA. Si.
PRESIDENTE. Le forze nazionali sono politiche o no ?
LEONARDO MESSINA. Anche politiche.
PRESIDENTE. Politiche e non, quindi?
LEONARDO MESSINA. Politiche ed imprenditrici.
PRESIDENTE. Non istituzionali?
LEONARDO MESSINA. Anche.
PRESIDENTE. Quindi ci sono settori. per così dire, delle istituzioni, dell’imprenditoria e della politica che sosterrebbero questo progetto?
LEONARDO MESSINA. Si.
PRESIDENTE. Questo per quanto riguarda l’Italia. Per quanto riguarda l’estero, che lei sappia?
LEONARDO MESSINA. Dell’estero e non so. So quello che hanno deciso là.
PRESIDENTE. Quindi sa che c’è un sostegno anche dall’estero, ma non sa da che parte venga. E così?
LEONARDO MESSINA. Si. Consideri che vengo a conoscenza solo dei fatti che decide Cosa nostra; posso parlare dei passaggi di cui sono a conoscenza, non posso fare deduzioni sull’estero.
PRESIDENTE. Non c’è dubbio. La teoria separatista vuoi dire colpo di Stato o vuoi dire …
LEONARDO MESSINA. In precedenza Cosa nostra si adoperava per fare colpi di Stato.
PRESIDENTE. Nel passato si, così come ha spiegato …
LEONARDO MESSINA. Oggi possono arrivare al potere senza fare un colpo di Stato.
………………………………………
PRESIDENTE. Lei ha accennato più volte alla questione del separatismo ed ha spiegato il tipo di intese che vi possono essere dietro, nonché la ragione e lo scopo del separatismo. Vi sono o meno forze politiche siciliane d’accordo su questo progetto del separatismo?
LEONARDO MESSINA. Loro appoggeranno una forza politica a distanza di qualche anno che partirà dal sud. Ora la manovra non viene dal sud.
PRESIDENTE. La manovra viene da altre parti, però Cosa nostra appoggerà una forza politica siciliana. E’ questo che sta dicendo?
LEONARDO MESSINA. Si.
PRESIDENTE. Una forza politica nuova o tradizionale?
LEONARDO MESSINA. Nuova, con un nome nuovo.
………………………………..
PRESIDENTE. RIINA è il capo di questa strategia tendente a separare la Sicilia dal resto d’Italia?
LEONARDO MESSINA. Si, è uno dei capi.
PRESIDENTE. E gli altri capi chi sono?
LEONARDO MESSINA. I capi della provincia che voi chiamate corleonesi, che sono i rappresentanti provinciali.
…………………………………
PRESIDENTE. Lei comprende che questa questione interessa particolarmente la nostra Commissione perchè riguarda la struttura dello Stato. Quindi, in merito alla strategia separatista, se ha gli clementi per farlo, può spiegare più approfonditamente alla Commissione cosa vuol dire?
LEONARDO MESSINA. In pratica, devono appoggiare nuovi partiti che tentano…
PRESIDENTE. Che tentano di separare la Sicilia dal resto d’Italia?
LEONARDO MESSINA. Si.
PRESIDENTE. Lei ha detto prima che questi gruppi non vogliono più dipendere dallo Stato nazionale.
LEONARDO MESSINA. In un certo senso. Finora hanno controllato lo Stato. Adesso vogliono diventare Stato.
ROMANO FERRAUTO. Solo la Sicilia interessa questo movimento separatista?
LEONARDO MESSINA. No. Io parlo di Cosa nostra, che è la stessa in Calabria come in Sicilia.
PRESIDENTE. Il tipo di separatismo di cui lei ha sentito parlare, di cui si decideva ad Enna, riguardava soltanto la Sicilia o anche altre parti d’Italia?
LEONARDO MESSINA. Riguardava l’organizzazione di Cosa nostra. Non si parlava della Sicilia ma dell’organizzazione, quindi delle regioni dove c’è Cosa nostra.
PRESIDENTE. Quindi, la separazione dovrebbe riguardare non solo la Sicilia.
LEONARDO MESSINA. Sicilia, Campania, Calabria, Puglia.
PRESIDENTE. Questo è il tipo di questione che è stato affrontato ad Enna?
LEONARDO MESSINA. Si.
CARLO D’AMATO. Anche la Lombardia si doveva separare?
LEONARDO MESSINA. Dipende.
PRESIDENTE. Quindi, il problema era di disporre di aree sulle quali esercitare un controllo davvero totale, pel divenire stabile. Non doveva trattarsi di un controllo di altri ma dell’impossessamento totale.
…………………………………………..
PRESIDENTE. Tornando al tema del separatismo, vorrei chiederle se in Sicilia oggi ci sono alleati politici favorevoli e questo progetto.
LEONARDO MESSINA. Li stanno creando.
………………………………..
PRESIDENTE. Ora che il tentativo di un nuovo compromesso, oppure si è deciso di non avere più compromessi?
LEONARDO MESSINA. Ci sarà un nuovo compromesso con chi rappresenterà il nuovo Stato, se ce la faranno.
PRESIDENTE. Pero, se c’è un progetto separatista, si tratta di una cosa distinta: un compromesso vuole dire che si resta comunque all’interno dello Stato unitario, oppure no?
LEONARDO MESSINA. Sì, ma loro hanno interesse ad arrivare al potere con i propri uomini, che sono la loro espressione: non saranno più sudditi di nessuno.
PRESIDENTE. Quindi, possono essere strade diverse per raggiungere lo stesso tipo di obiettivo?
LEONARDO MESSINA. Loro devono raggiungere un fine: che sia la massoneria, che sia la Chiesa, che sia un’altra cosa, devono raggiungere l’obiettivo. Cosa nostra deve raggiungere l’obiettivo, qualsiasi sia la strada.
Leonardo Messina, nei successivi interrogatori resi alla A. G. (3 giugno 1996, 4 febbraio 1993) confermava e precisava quanto da lui appreso sul “progetto politico-eversivo” discusso dai vertici di Cosa Nostra nel corso della riunione di Enna, fornendo altresì un racconto assai minuzioso e ricco di dettagli che consentiva di svolgere una puntuale attività di riscontro.
“Una delle tante volte in cui io mi trovai a conversare con il Micciche’, il Potente ed il Monachino, il discorso cadde sull’on. Bossi della Lega Nord, che poco tempo prima era andato a Catania.
Io, che allora consideravo Bossi un “nemico della Sicilia”, dissi: “Perché un’altra volta che viene qua non l’ammazziamo?”. Al che il Micciche’ Borino esclamò: “Ma che sei pazzo? Bossi è giusto”.
Il Micciche’ spiegò quindi che la Lega Nord, e all’interno di essa non tanto Bossi, che era un “pupo”, quanto il senatore Miglio, era l’espressione di una parte della Democrazia Cristiana e della Massoneria che faceva capo all’On. Andreotti e a Licio Gelli.
Il Miccichè spiegò ancora che dopo la Lega del Nord sarebbe nata una Lega del Sud, in maniera tale da non apparire espressione di Cosa Nostra, ma in effetti al servizio di Cosa Nostra; ed in questo modo “noi saremmo divenuti Stato”.
Queste cose il Micciche’ disse di averle sapute proprio da Riina Salvatore e da altri componenti della “regione”.
[…..]
Nell’agosto del 1991 il Miccichè mi disse che nella zona di Enna, in un posto che non specificò, si trovavano riuniti Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Giuseppe Madonia e Benedetto Santapaola.
Costoro, come ebbe a riferirmi lo stesso Miccichè successivamente, si trattennero nella zona di Enna sino al febbraio del ’92, data in cui si svolse una riunione formale della Commissione Regionale, alla quale parteciparono anche Angelo Barbero, Salvatore Saitta ed altri rappresentanti provinciali, dei quali non mi fece i nomi.
Provenzano, Riina, Madonia e Santapaola, dall’agosto ’91 sino agli inizi del ’92, si trattennero nella zona di Enna per discutere di un progetto politico finalizzato alla creazione di uno Stato indipendente del Sud all’interno di una separazione dell’Italia
in tre stati: uno del Nord, uno del Centro e uno del Sud. In tal modo, Cosa Nostra si sarebbe fatta Stato.
Il progetto era stato concepito dalla massoneria. A tal riguardo, intendo chiarire che Cosa Nostra e la massoneria, o almeno una parte della massoneria, sono stati sin dagli anni ’70 un’unica realtà criminale integrata.
Il progetto aveva anche l’appoggio di potenze straniere.
Era stata stanziata la somma di mille miliardi per finanziare il progetto. Coinvolti in tale progetto erano non solo esponenti della criminalità mafiosa e della massoneria, ma anche esponenti della politica, delle istituzioni e forze imprenditoriali.
Il progetto consisteva nella futura creazione di un nuovo soggetto politico, la Lega Sud o Lega Meridionale – che doveva essere una sorta di “risposta naturale” del sud alla Lega Nord.
A proposito della Lega Nord, quando io proposi al Miccichè di uccidere Bossi in occasione di un suo viaggio a Catania nel settembre – ottobre ‘91, questi mi spiegò che Bossi era in realtà un “pupo” e che il vero artefice del progetto politico della Lega Nord era Miglio, dietro il quale c’erano Gelli e Andreotti. Mi disse anche che la Lega Nord era finanziata da forze imprenditoriali del nord, non meglio precisate, che avevano interesse alla suddivisione dell’Italia in tre stati separati.
Quando Miccichè, che aveva appreso quanto sopra poiché era lui ad ospitare Riina e gli altri nel suo territorio, mi fece tale discorso, era presente pure Giovanni Monachino, “uomo d’onore” della famiglia di Pietraperzia, il quale faceva da vivandiere a Riina e agli altri.
Durante la permanenza di Riina e gli altri nella zona di Enna, io incaricai Remigio Augello, figlio di una persona che ha un negozio di carte di parati a S. Cataldo, di predisporre e collocare nella zona ove Riina e gli altri si riunivano, un’apparecchiatura che serviva ad intercettare sia i telefonini sia le radio della Polizia per garantire la sicurezza dei vertici di Cosa Nostra. Io non dissi all’Augello a quale scopo serviva l’apparecchiatura, né che in quella zona si trovavano Riina e gli altri. L’Augello fu costretto ad acquistare a Catania un’antenna più potente di quella originariamente installata. L’Augello fu portato sul luogo, che io non conosco, dal Monachino e da Potente Mario (cugino di Borino Miccichè e altro “uomo d’onore” della famiglia di Pietraperzia). L’Augello non è uomo d’onore. E’ una persona alla quale io avevo fatto dei favori.
In particolare, avevamo simulato il furto di una sua Lancia integrale di colore bianco del valore di circa 50 milioni di lire (furto denunciato a Catania). L’autovettura fu venduta all’officina Giambra di S. Cataldo per 9 milioni di lire. L’Augello lucrò dall’assicurazione la somma di circa 50 milioni di lire. Ciò avvenne nel 1991.
Inoltre, gli feci consegnare della droga da Sessa Michele, trafficante di Napoli, regalandogli del denaro. Il Sessa alloggiava all’hotel Elios di S. Cataldo, luogo dove doveva avvenire la consegna nel 1991. Senonchè, io venni a sapere che l’albergo era sorvegliato dalla polizia, sicché feci alloggiare il Sessa nell’abitazione dell’Augello, che si trova in una parallela di Piazza degli Eroi. La consegna di 200 grammi di eroina avvenne davanti il ristorante “La flambè” di S. Cataldo.
………………
Le riunioni che si svolsero dall’agosto in poi furono preparatorie della riunione allargata tenutasi nel febbraio ’92. Dopo tale ultima riunione, il Miccichè mi disse che era stato deciso di uccidere Falcone. Non mi parlò degli altri argomenti che erano stati discussi.
Le dichiarazioni di Leonardo Messina sono state successivamente confermate e integrate dalle dichiarazioni di numerosi collaboratori di giustizia appartenenti a Cosa Nostra, alla “ndrangheta e ad altri ambienti criminali esterni, che hanno consentito di delineare come le stragi del 1992 e del 1993 siano state eseguite nell’ambito di una complessa strategia stragistica di tipo eversivo avente l’obiettivo di creare le condizioni più idonee per la nascita di un nuovo movimento politico.
Si tratta dei collaboratori di Cosa Nostra Avola Maurizio, Malvagna Filippo, Pattarino Francesco, Tullio Cannella, Gioacchino Pennino, Antonino Galliano, dei collaboranti calabresi Filippo Barreca e Pasquale Nucera, dei collaboratori pugliesi, già appartenenti alla Sacra Corona Unita, Gianfranco Modeo e Marino Pulito, di Massimo Pizza ed altri ancora.
Si rinvia per l’esposizione di tali dichiarazioni e dei puntuali analitici riscontri alle dichiarazioni del Messina e degli altri collaboratori alla motivazione della sentenza più volte citata del processo ndrangheta stragista, e, in particolare, al Capitolo II intitolato : “La strategia stragista di Cosa Nostra e il coinvolgimento della ‘Ndrangheta”.
In particolare il collaboratore Maurizio Avola all’udienza del 9.4. 1999 del processo per la strage di via D’Amelio riferiva che nelle riunioni di Enna – come egli aveva appreso da uno dei partecipanti Eugenio GALEA, all’epoca vice rappresentante provinciale di Catania – Salvatore RIINA aveva esposto il piano strategico dell’organizzazione, consistente in un clima di attacco allo Stato che avrebbe consentito di “togliere il vecchio” sistema politico e, al contempo, di creare un clima favorevole per l’affermazione di un nuovo soggetto politico “ il nuovo partito”.
Tutti gli attentati avrebbero dovuto essere rivendicati con la sigla Falange armata. La strategia, che aveva incluso anche i fatti del 1992, era stata portata avanti con un duplice scopo: quello di eliminare i personaggi che secondo l’ottica dell’organizzazione, avevano concorso a danneggiarla e tra questi, certamente i giudici FALCONE e BORSELLINO, e quella diretta al compimento di attentati terroristici, tra i quali il danneggiamento di tralicci dell’ENEL, di opere d’arte di particolare valore, atti da compiersi al di fuori del territorio siciliano, al fine di destabilizzare lo Stato. Proprio per tale motivo il collaboratore era stato incaricato da parte della famiglia mafiosa dei catanesi di recarsi già nel 1992 a Firenze per visionare qualche opera d’arte di particolare pregio da includere tra gli obiettivi da colpire successivamente.
Si riportano qui di seguito alcuni passi salienti di tali dichiarazioni:
AVOLA MAURIZIO/: – Mi ha detto che si… doveva nascere questo partito e si doveva attaccare, dovevamo fare dei segnali, diciamo, distruttivi in Italia e poi si appoggiava questo partito nuovo per rinascere un’Italia… l’Italia nuova, diciamo. Un partito nuovo, tutte cose nuove.
[..]
”Poiché’ voi mi chiedete in che modo questo programma politico di “Cosa Nostra”possa ‘essere collegato alla perpetrazione delle gravissime stragi di Capaci e di via D’Amelio, devo aggiungere che perche’ potesse affermarsi – questo l’ha già’ detto – il nuovo partito era necessario che si instaurasse un clima di attacco allo Stato. Ad attaccare lo Stato era stata delegata “Cosa Nostra” già’ dall’inizio del 1992”.
[…]
L’effettuazione di queste azioni, miranti soprattutto a creare disagio e panico tra la popolazione, non escludeva pero ‘ che la stessa strategia terroristica venisse utilizzata anche per eliminare tradizionali nemici di “Cosa Nostra”, come i magistrati Falcone e Borsellino. In questo caso si ottenevano i due risultati
Le indagini svolte hanno confermato che nei mesi seguenti alle riunioni di Enna, furono costituti numerosi movimenti politici variamente denominati promossi da esponenti della massoneria, da esponenti della destra eversiva come Stefano Delle Chiae, da esponenti di Cosa Nostra e della ndrangheta, tutti destinati a confluire in una più grande formazione politica nazionale aggregatrice promossa da Licio Gelli.
Per l’analisi dei riscontri si rinvia alla motivazione della sentenza ndrangheta stragista e in particolare al Capitolo III intitolato “I rapporti tra le organizzazioni criminali e la politica. Le infiltrazioni ed il coinvolgimento della massoneria”
In particolare dalle indagini svolte dalla D.I.A ( cfr. l’informativa D.I.A. del 4 marzo 1994) risultava che Menicacci Stefano, avvocato di Stefano Delle Chiaie e suo socio nella “Intercontinental Export Company I.E.C. S.r.l.“[10], e Romeo Domenico, palermitano pregiudicato per reati comuni, l’8 maggio 1990 avevano fondato la Lega Pugliese, l’11 maggio la Lega Marchigiana, il 13 maggio la Lega Molisana, il 17 maggio la Lega Meridionale o del Sud, il 18 maggio la Lega degli Italiani e, sempre nello stesso periodo, avevano fondato la Lega Sarda. E la maggior parte di questi movimenti di nuova formazione avevano eletto la propria sede sociale presso lo studio dell’avv. Menicacci, già sede della “Intercontinental Export Company I.E.C. S.r.l.“.
Si segnalava, inoltre, che durante il medesimo arco di tempo erano intanto sorti anche movimenti leghisti legati a Licio Gelli. Infatti, il 7 maggio 1991 Licio Gelli aveva fondato la Lega Italiana, con sede in Roma, insieme con Rozzera Bruno (Prefetto in pensione, già appartenente alla P2), Pittella Domenico (già senatore P.S.I., coinvolto nell’inchiesta giudiziaria sulle Brigate Rosse denominata “Moro ter” e condannato a 7 anni e 3 mesi per partecipazione a banda armata), Esposito Alfredo (già vicino agli ambienti del M.S.I.), Viciconte Enrico (pubblicista, funzionario della Regione Lazio, già organizzatore e dirigente del periodico calabrese Progetto Sibari e di varie emittenti radiofoniche e televisive).
Il 31 gennaio 1992 il Pittella ed il Viciconte fondavano, con altre persone, la Lega Italiana – Lega delle Leghe. Nell’ambito di questa iniziativa il Pittella, in data 17 gennaio 1992, tenne in provincia di Potenza il 1° forum della Lega delle Leghe con la partecipazione di elementi già appartenenti al M.S.I., di rappresentanti del Movimento Lucano (in stretto contatto con la Lega Nazional Popolare, altra iniziativa politica direttamente riconducibile a Stefano Delle Chiaie) e della Lega Sud di Calabria. Il programma era la costituzione di un cartello elettorale denominato Lega delle Leghe di cui, oltre ai summenzionati partiti, avrebbero dovuto far parte il Partito di Dio Partito del Dovere del napoletano Boccone Mauro, i Movimenti Lombardo e Popolare di Milano e Busto Arsizio, la Lega Toscana e la Lega Laziale.
Nel marzo 1993 a Massa Carrara nasceva il movimento politico Lega Italia, con sede in Roma e operante in Massa tramite tale Esposito Antonio. Fondatore era Licio Gelli unitamente agli stessi personaggi che avevano partecipato alla costituzione della Lega Italiana e della Lega delle Leghe. E nelle elezioni amministrative dello stesso anno in molte città venne presentata la lista della Lega Italia Federale, che tra gli iscritti annoverava Enrico Viciconte e Romeo Domenico, ovvero uno dei fondatori delle leghe riconducibili a Licio Gelli ed uno dei fondatori delle leghe riconducibili a Stefano Delle Chiaie.
Nel 1993, poi, venne costituita a Catania Sicilia Libera, nell’ambito di analoga convergenza di interessi.
Ulteriori risultanze emergevano, poi, dalla minuziosa analisi dei movimenti leghisti meridionali successivamente compiuta dalla DIA, anche sulla base della documentazione fornita dal SISDE e dalla Direzione Centrale Polizia di Prevenzione (proveniente dai vari uffici DIGOS), e condensata nelle informative n. 17959/97 del 3/6//1997 e n.3815/98 del 31/1/1998 e relativi allegati.
Il dato rilevante che emerge da tali accertamenti è che, nello stesso periodo in cui sorsero i movimenti meridionalisti fondati dall’avv. Stefano Menicacci e da personaggi al medesimo legati (per lo più provenienti dalle fila dell’estrema destra), cominciarono a sorgere nelle varie regioni centrali e meridionali d’Italia una serie di movimenti, tutti apertamente collegati alla Lega Nord e per lo più fondati da tale Cesare Crosta, e che, in quasi tutti i casi, i movimenti fondati dal Crosta si sono poi fusi con quelli costituiti dall’avv. Menicacci.
Tra i vari movimenti meridionalisti le indagini hanno particolarmente posto in evidenza, per la sua matrice spiccatamente massonica, per i suoi rapporti con ambienti della criminalità organizzata e per la tormentata storia dei suoi rapporti con Licio Gelli, la “Lega Meridionale – Centro–Sud-Isole”, costituita il 27 giugno 1989 dai seguenti soci fondatori: l’avv. Egidio Lanari, il Gran Maestro siciliano Giorgio Paternò, il pugliese Cosimo Donato Cannarozzi ed il calabrese Enzo Alcide Ferraro.
L’avv. Egidio Lanari è stato difensore del noto capomafia Michele Greco ed è colui il quale propose pubblicamente di candidare alle successive elezioni politiche, fra gli altri, lo stesso Michele Greco, Vito Ciancimino e Licio Gelli. Quanto al Gran Maestro Giorgio Paternò, è lo stesso che aveva pubblicamente, con ampio risalto sulla stampa nazionale, riabilitato il noto Licio Gelli, riaccogliendolo “fraternamente ed a braccia aperte nella fratellanza Universale, insieme a tutti i fratelli iscritti alla Venerabile Loggia P2“, affermando che “la Loggia P2 era ed è legittima“, e definendo infine Gelli ed i suoi fratelli “massoni in eterno”.
Il programma della Lega Meridionale, come si può desumere dal “documento” del movimento pubblicato il 22 luglio 1989 dall’agenzia di stampa “Punto critico“, era principalmente indirizzato contro la c.d. “partitocrazia” e la magistratura (Lanari proponeva, fra l’altro, l’abrogazione della legge Rognoni – La Torre e l’amnistia per i reati politici). Malgrado l’avversario politico venisse individuato nelle Leghe del Nord[11], il progetto esposto dal Lanari non prevedeva ipotesi di separatismo ma, al contrario, sosteneva l’unità nazionale (così nel convegno presso l’Hotel Midas di Roma dell’11.11.90).
Nel contempo, si rilevano rapporti della Lega Meridionale con personaggi legati agli ambienti eversivi della destra. In pubbliche manifestazioni (come ad es. quella di Roma del 6 giugno 1990 intitolata “Un indulto per la pacificazione nazionale“) con il Lanari intervennero soggetti quali Adriano Tilgher (esponente di Avanguardia Nazionale), l’avvocato Giuseppe Pisauro (legale di Stefano Delle Chiaie), Tommaso Staiti Di Cuddia, i fratelli Andrini Stefano e Germano (militanti dell’organizzazione di estrema destra “Movimento Politico Occidentale” di Boccacci Maurizio, molto legato a Stefano Delle Chiaie) ed esponenti degli Skin heads romani, tra cui Mario Mambro (fratello di Mambro Francesca ed esponente del “Movimento Politico Occidentale”). Ed il Lanari, nel suo intervento, manifestò disponibilità ed interesse verso il progetto politico di organizzazione delle leghe meridionali al quale si era dedicato Stefano Delle Chiaie in quel periodo[12].
Al convegno dell’hotel Midas di Roma dell’11 novembre 1990, nel corso del quale venne illustrata la linea politica del movimento, vennero invitati Vito Ciancimino, che effettivamente vi presenziò, e Licio Gelli, che con una lettera del 30/10/90 offrì il proprio sostegno morale e con un telegramma dell’11/11/1990, nel confermare la propria adesione all’iniziativa politica, comunicò l’impossibilità di intervenire.
Al convegno dell’hotel Majestic di Roma del 28 novembre 1990, a seguito delle dimissioni di Giorgio Paternò, avvenute per divergenze con la linea adottata da Egidio Lanari, venne eletto un nuovo presidente nella persona di Elio Siggia, considerato vicino a Gelli. Causa l’indisponibilità del Siggia, venne eletto Claudio Alari.
La Lega Meridionale divenne, intanto, un punto di riferimento per altri analoghi movimenti (fra cui la Lega Romana e la Lega Meridionale di Lecce).
Nel suo organigramma un ruolo di rilievo ebbe la città di Catania, una delle poche ad essere sede di una segreteria provinciale, guidata da Strano Antonino, poi divenuto esponente di spicco del movimento Sicilia Libera, e sul quale il collaborante catanese Francesco Pattarino, nell’interrogatorio del 4/2/1998, ha riferito di avere appreso nel ’91 da Pulvirenti “il malpassotu” che egli era un uomo politico “in obbligo” con l’associazione mafiosa, cui i mafiosi catanesi potevano certamente “fare riferimento”[13].
Al convegno “Giustizia e libertà”, svoltosi il 10 febbraio 1991 ad Anghiari (provincia di Arezzo) l’avv. Lanari offrì pubblicamente una candidatura a Gelli e difese l’iniziativa presa anche nei confronti di Vito Ciancimino (e cioè l’invito al convegno dell’hotel Midas) e dell’ex sen. del P.S.I. Domenico Pittella (nome proposto da Gelli), del quale si è già fatto cenno.
Il 2 marzo 1991, la denominazione del movimento venne indicata come “Lega Meridionale per l’Unità Nazionale” ed il 6 aprile 1991 si tenne all’hotel Jolly di Palermo il convegno “Sicilia = terra di nessuno o Stato di Polizia?“, dove venne pubblicizzato un referendum abrogativo della legge ” Rognoni – La Torre “, già formalizzato presso la Corte di Cassazione.
Riguardo alla posizione di Licio Gelli, va rammentato che già nell’informativa D.I.A. del 4 marzo 1994, cui si è fatto cenno, si segnalavano alcune sue “singolari” interviste rilasciate proprio nel periodo in cui divampava la strategia della tensione del 1992-93.
Nel settembre del 1992 Gelli aveva rilasciato una intervista al settimanale “L’Europeo”(10.9.1992) nel corso della quale aveva, fra l’altro, dichiarato: “E’ da un pezzo che ci sarebbero tutte le condizioni per un colpo di Stato onde eliminare la teppaglia che ci sta rapinando. ……… In realtà, sa chi rappresenta l’unica speranza, in questo paese alla deriva? BOSSI. BOSSI che se davvero darà il via allo sciopero fiscale.. Eh bè: sarò il primo ad aggregarmi. D’altronde perchè dovrei pagar le tasse ?….”
Su Paese Sera del 3 agosto 1993, in un’intervista intitolata “Prevedo una rivoluzione”, Gelli individuava negli attentati dell’estate di quell’anno come la logica conseguenza dello stato di esasperazione in cui versava la popolazione oppressa da una classe politica corrotta e da un governo iniquo, responsabile di ingiustizie fiscali e della crescente disoccupazione. Secondo Gelli, infatti, si sarebbe trattato dei primi segnali di una ribellione montante provocata dal desiderio di accelerare il processo di ricambio della classe politica ed ogni ulteriore ritardo, unitamente al progressivo aumento dei disoccupati, sarebbe stato suscettibile di far degenerare l’insofferenza della popolazione in una autentica rivoluzione.
Si noti che nei suoi interventi pubblici e nelle sue interviste Gelli esprime concetti quali “l’esasperazione in cui versa la popolazione oppressa” e indica come via d’uscita quella di “accelerare il ricambio della classe politica corrotta e iniqua…”, argomenti che riecheggiano quelli formulati da Riina nell’esporre, nel settembre del 1992, il piano eversivo e che così vengono riferiti dal collaboratore Avola: “il popolo esasperato sarebbe stato propenso ad appoggiare gli uomini che sarebbero scesi tempestivamente in campo, sbandierando a parole un programma di rinnovamento….”.
E sempre nella citata informativa D.I.A. del 4 marzo 1994 si coglievano certe “assonanze” fra la situazione verificatasi nel 1993 con altre situazioni degli anni passati: “sembra riproporsi un ‘clichè’ ben noto al Gran Maestro, già pianificato e posto in essere negli anni’70, quando, mediante i suoi contatti massonici – che gli consentivano di poter essere presente all’interno dei Servizi Segreti, dell’Arma dei Carabinieri e dei principali organismi pubblici, nonchè in ambienti del ‘sistema criminale’, supportato da personaggi come l’Avv. Filippo De Iorio, i fratelli Alfredo e Fabio De Felice, Paolo Signorelli, Stefano Delle Chiaie e tanti altri, massoni e non, gravitanti di massima nell’area della destra eversiva – aveva ordito un organico piano di assalto alle Istituzioni democratiche, finalizzato comunque, al di là dell’apparente risultato politico, all’accrescimento del suo già notevole potere personale.” E venivano pertanto richiamate, fra l’altro, le dichiarazioni degli estremisti di destra Aleandri Paolo e Calore Sergio, rese negli anni ’80 innanzi a varie Autorità Giudiziarie ed alla Commissione Parlamentare sulla Loggia Massonica P2, relative ai progetti di golpe nei quali Gelli aveva già tentato di realizzare trasformazioni istituzionali nel paese in senso spiccatamente conservatore, anche avvalendosi della convergenza di interessi con altri ambienti, come quello della destra estrema, al fine ultimo di accrescere il proprio potere di ricatto e di controllo nei confronti di ambienti politico-economici coinvolti nel tentativo eversivo ovvero intimoriti da esso.
Sono stati inoltre acquisiti atti che confermano l’esistenza di rapporti, risalenti nel tempo, fra Licio Gelli e vari ambienti della criminalità organizzata.
Con riferimento a Cosa Nostra, un collaboratore “storico” come Marino Mannoia ha riferito di aver saputo da Stefano Bontate e da altri uomini d’onore della sua famiglia che uomini di spicco dello schieramento corleonese (in particolare Pippo Calò, Riina Salvatore e Madonia Francesco) si avvalevano di Licio Gelli per i loro investimenti a Roma. Secondo Mannoia, Gelli era il “banchiere” di questo gruppo, così come Sindona lo era stato per quello di Bontate Stefano e di Inzerillo Salvatore.
L’esistenza di un rapporto fra Gelli e i corleonesi è stato sostanzialmente confermato dalla ben più ampia ricostruzione fornita da Gioacchino Pennino, il quale ha riferito dei pregressi rapporti tra Gelli e Bontate e dalla frattura che si determinò nel 1979 quando Gelli non appoggiò il progetto di golpe separatista caldeggiato da Bontate, per l’organizzazione del quale Michele Sindona fece il noto viaggio in Sicilia in occasione della simulazione del suo rapimento[14]. Secondo Pennino, Gelli ebbe invece un ruolo nella riorganizzazione del progetto di ristrutturazione dei rapporti fra mafia e massoneria organizzato dai corleonesi (in particolare da Bernardo Provengano) con la costituzione del Terzo Oriente, e cioè un’organizzazione massonica ancora più “coperta” nata per “riciclare” l’esperienza della P2 dopo la scoperta degli elenchi a Castiglion Fibocchi e dopo la morte di Bontate, fatti che – come è noto – si collocano a poco più di un mese di distanza tra loro (17/3/1981 e 23/4/1981[15]).
Sono inoltre accertati rapporti (telefonate, incontri a Roma e ad Arezzo, appuntamenti annotati nell’agenda di Gelli e utenze telefoniche annotate nella sua rubrica personale) di Licio Gelli con Luigi Capuano, gioielliere romano strettamente legato fin dagli anni ’70 alla criminalità organizzata napoletana (Michele Zaza), romana (“Banda della Magliana”) e ad esponenti di spicco di Cosa Nostra, ed in particolare ad Alfredo Bono, uomo d’onore della famiglia di S. Giuseppe Jato e grosso trafficante di stupefacenti.
Peraltro, dalle indagini della D.I.A. risultano anche compresenze alberghiere di Licio Gelli ed Alfredo Bono presso l’hotel Ambasciatori (residenza abituale romana di Licio Gelli) nell’estate ’91[16].
Conferme, ancora, dei rapporti di Licio Gelli con la criminalità organizzata legata a Cosa Nostra ed in particolare a Pippo Calò, sono emerse anche dalle dichiarazioni di alcuni collaboratori provenienti dalla “Banda della Magliana” (cfr. in particolare le dichiarazioni di Antonio Mancini).
Non meno cospicua è la mole degli elementi relativi ai rapporti di Gelli con la criminalità organizzata calabrese, in particolare contenuti nelle dichiarazioni rese dal teste Bruno Villone al P.M. di Catanzaro nell’ambito di un’indagine sulle logge massoniche locali, dalle quali sono emersi altresì elementi di prova circa i rapporti fra Licio Gelli e Stefano Delle Chiaie. Il Villone, vigile urbano presso il comune di Vibo Valentia, ha infatti riferito di avere personalmente notato, dall’agosto del 1989 in poi, il Gelli recarsi di frequente a Vibo Valentia, assieme al Delle Chiaie (ed il Gelli, in particolare, frequentare fino al 1993 la sede di una loggia massonica locale). Ed in effetti, le indagini successivamente espletate hanno confermato la frequentazione di Delle Chiaie di un’emittente televisiva locale avente sede a Vibo Valentia.
Va, poi, segnalato che dei rapporti di Licio Gelli con la criminalità organizzata calabrese ed in particolare con il piduista Carmelo Cortese ha riferito il teste Massimo Pizza. E di tali rapporti vi è riscontro nelle annotazioni dei numeri telefonici del Cortese rinvenuti nelle agende sequestrate a Licio Gelli, acquisite agli atti in copia.
I rapporti con i servizi segreti di Antonino Gioè esecutore della strage di Capaci.
Uno degli esecutori della strage Capaci è stato Antonino Gioè.
Dalle indagini esperite risulta che dal telefono clonato in uso al Gioè furono effettuate il 23 maggio poco prima della strage avvenuta alle ore 17.57 due telefonate all’utenza telefonica 0016-127774690 sita nel Minnesota negli Stati Uniti. La prima alle ore 15,38 per un totale di 23 scatti e la seconda alle ore 15,43 per un totale di 522 scatti.
Chi era il ricevente di tali importanti chiamate?
Come si spiega che i carabinieri di Altofonte con nota dell’8 agosto 1967 prot. 2810/5 abbiano attestato che il Gioè, sebbene figlio di un noto pregiudicato mafioso più volte tratto in arresto, era “ giovane (che) offre fiducia per la sicurezza ed ritenuto idoneo a disimpegnare particolari incarichi di natura riservata” ?
Quali incarichi di natura riservata furono affidati al Gioè?
Incarichi analoghi a quelli affidati a Paolo Bellini con il quale il Gioè interloquì ripetutamente nel 1992?
Chi erano gli uomini dei servizi segreti che Francesco Di Carlo, boss di Altofonte detenuto in Inghilterra poi divenuto collaboratore di giustizia, mise in contatto con Antonino Gioè dopo che costoro gli avevano chiesto di entrare in contatto con i vertici di Cosa Nostra per un piano diretto a eliminare Falcone?
Il Di Carlo ha identificato tra costoro Arnaldo La Barbera, di cui è stato accertato il rapporto parallelo con i servizi segreti con il nome in codice Rutilius.
Esiste una connessione tra questa richiesta di La Barbera e il suo successivo ruolo nel depistaggio nelle indagini sulla strage di Via D’Amelio?
Perché l’Autorità giudiziaria inglese non ha fornito la propria collaborazione in sede di rogatoria internazionale per fare piena luce su tale episodio?
Si chiede che la Commissione acquisisca:
- copia dei tabulati telefonici dei telefoni clonati in uso ad Antonio Gioè e copia di tutti gli atti di indagine effettuati al riguardo;
- copia della nota dei Carabinieri di Altofonte dell ’8 agosto 1967 prot. 2810/5
I rapporti di Antonino Gioè con Paolo Bellini, esecutore della strage di Bologna del 2 agosto 1980 e uomo dei servizi segreti.
Tali circostanze assumono un rilievo estremamente potenziato alla luce delle ultime risultanze probatorie acquisite nei processi celebrati dalla Corte di Assise di Bologna a carico di Gilberto Cavallini e di Paolo Bellini, entrambi condannati in primo grado all’ergastolo in quanto ritenuti esecutori della strage di Bologna del 2 agosto 1980 unitamente a Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini.
Nella sentenza a carico di Cavallini depositata il 7 gennaio 2021 , la Corte di Assise di Bologna ha dedicato circa cento pagine della motivazione alla rivisitazione probatoria dell’omicidio di Piersanti Mattarella, Presidente della Regione Siciliana, ritenendo tale ricostruzione un passaggio obbligato per la motivazione della condanna di Cavallini per la strage di Bologna. La Corte alla luce delle nuove risultanze probatorie acquisite ha ritenuto fondate le conclusioni alle quali era pervenuto Giovanni Falcone il quale aveva individuato come esecutori di quel delitto Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini traendoli a giudizio.
Si riporta qui di seguito la conclusione dell’ampio capitolo dedicato dalla Corte di Assise di Bologna alla ricostruzione dell’omicidio di Piersanti Mattarella:
“Questa Corte ha acquisito il verbale di audizione dì Giovanni Falcone, dal resoconto stenografico della seduta del 3 novembre 1988 della Commissione Parlamentare Antimafia.
Disse Falcone in quell’occasione:
“Il problema di maggiore complessità per quanto riguarda l’omicidio Mattarella deriva dall’esistenza di indizi a carico anche di esponenti della destra eversiva quali Valerio Fioravanti. Posso dirlo con estrema chiarezza perché risulta anche da dichiarazioni dibattimentali da parte di Cristiano Fioravanti che ha accusato il fratello, di avergli detto di essere stato lui stesso, insieme con Gilberto Cavallini, l’esecutore materiale dell’omicidio di Piersanti Mattarella. E’ quindi un’indagine estremamente complessa perché sì tratta di capire se e in quale misura ‘la pista nera’ sia alternativa rispetto a quella mafiosa, oppure si compenetri con quella mafiosa. Il che potrebbe significare saldature e soprattutto la necessità di rifare la storia di certe vicende del nostro Paese, anche da tempi assai lontani.
Ci sono stati grossi problemi di prudenza in relazione a procedimenti in corso presso altre giurisdizioni, quale ad esempio il processo per la strage di Bologna in cui per parecchi punti la materia è coincidente. Ci sono collegamenti e coincidenze anche con il processo per la strage del treno Napoli- Firenze-Bologna che è attualmente al dibattimento, collegamenti che risalgono a certi passaggi del ‘golpe Borghese’, dì cui possiamo parlare perché se ne è già parlato nel dibattimento, in cui sicuramente era coinvolta la mafia siciliana. Ciò risulta dalle dichiarazioni convergenti, anche se inconsapevoli, di Buscetta, di Liggio, di Calderone. Ci sono inoltre collegamenti con la presenza di Sindona, sono tutti fatti noti. Questi elementi comportano per l’omicidio Mattarella, se non si vorrà gestire burocraticamente questo processo, la necessità dì una indagine molto approfondita che peraltro stiamo svolgendo e che prevediamo non si possa esaurire in tempi brevi”.
[….]
Quella sull’omicidio Mattarella fu l’ultima indagine di rilievo condotta da Giovanni Falcone. Poco dopo fu delegittimato. Poi venne ucciso”.
La rilevanza delle conclusioni di tal sentenza appare estremamente peculiare ove si considerino le confidenze del dott. Giovanni Falcone al prof. Pino Arlacchi sopra esposte e l’ingresso abusivo di ignoti nella stanza del dott. Falcone al Ministero della Giustizia per esaminare i files concernenti tale tema.
La Corte di Assise di Bologna con la successiva sentenza depositata il 5 aprile 2023 nel processo a carico di Paolo Bellini ha ritenuto accertato:
- che la strage di Bologna venne eseguita su mandato di Licio Gelli e fu organizzata da Umberto Federico D’Amato, Capo dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero degli Interni e referente della Cia in Italia;
- che Paolo Bellini fu uno degli esecutori materiali della strage;
- che il medesimo faceva parte di Avanguardia nazionale il cui Leader era Stefano Delle Chiaie, il quale aveva partecipato ad altre operazioni segrete con Umberto Federico D’ Amato;
- che il Bellini era un agente esterno dei servizi segreti, addestrato negli Stati Uniti alla guida degli elicotteri, utilizzato per operazioni da compiersi all’estero (Libia), coperto da anni con una falsa identità con la complicità di Ugo Sisti, già Procuratore della Repubblica di Bologna e poi Capo del DAP, anch’egli collegato con i servizi ed esponenti della destra eversiva tra cui il padre del Bellini;
- che il Bellini accompagnava in elicottero il Sisti a incontri con un Ministro e si era relazionato con Stefano Menicacci avvocato e socio di Stefano Delle Chiaie ;
- che il Bellini godeva di protezioni di livello così elevato che per evitare che venisse scoperta la sua reale identità celata sotto l’identità fittizia del cittadino brasiliano Roberto Da Silva, fu fatta sparire da un ufficiale dell’esercito, poi identificato, la scheda contenente le sue impronte digitali prelevate in occasione della prestazione del servizio di leva.
Ciò premesso alla luce di quanto sopra e del particolare interesse manifestato da Falcone per le connessioni tra il delitto Mattarella e la strage di Bologna, si chiede che la Commissione Parlamentare Antimafia svolga approfondimenti sul ruolo svolto dal Bellini nella strage di Capaci e nelle stragi del 1993 tenuto conto che risulta accertato:
- che il Bellini si recò ripetutamente in Sicilia nel corso del 1991 e nel 1992, in periodi analoghi a quelli in cui si recò in Sicilia Stefano delle Chiaie, leader di Avanguardia nazionale già in collegamento con Umberto Federico D’Amato, organizzatore della strage di Bologna.
- che il Bellini dialogò ripetutamente in quei mesi con Antonino Gioè, esecutore della strage di Capaci, a sua volta uomo cerniera tra la mafia e i servizi segreti, al quale, come ha dichiarato Giovanni Brusca, suggerì di alzare il livello dello scontro con lo Stato effettuando attentati contro i beni artistici nazionali, idea questa maturata già nel 1974 all’interno di Ordine Nuovo, formazione della destra eversiva i cui esponenti sono stati riconosciuti colpevoli delle stragi di Milano del 1969 e di Brescia del 1974 e che, come è stato accertato, hanno goduto di protezioni statali ad altissimo livello.
- che Antonino Gioè morto suicida in carcere in circostanze misteriose – poco prima che iniziasse a collaborare con la magistratura secondo quanto dichiarato dai collaboratori di giustizia Gioacchino La Barbera e Santo Di Matteo – fece espresso riferimento al Bellini come “infiltrato” nella missiva redatta prima di morire
Il Bellini è attualmente indagato per il seguente reato:
del reato di cui agli artt. 110 e 422 c, 1, 110, 112 n. 1, 416 bis e 270 bis. 1 c. p. poiché, in concorso con altri, istigava i vertici di cosa nostra, che accoglievano l’idea criminosa, realizzando attentati diretti a colpire il patrimonio storico, artistico e monumentale del Paese.
In particolare, instillava il proposito delittuoso illustrando, nel corso di interlocuzioni intercorse con Antonino Gioè (deceduto il 29 luglio 1993), i vantaggi per l’organizzazione mafiosa cosa nostra, derivanti dall’adozione di una strategia di attacco allo Stato incentrata sull’aggressione ai beni storico culturali, il quale lo veicolava a Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella e Salvatore Riina, che provvedevano a elaborarlo e ad attuarlo con l’ausilio di numerosi altri uomini d’onore e soggetti a loro vicini, nei cui confronti si è già proceduto, dapprima con l’azione dimostrativa realizzata con la collocazione di un proiettile di artiglieria nel giardino di Boboli annesso al palazzo Pitti sul finire di ottobre 1992 – inizi 1993 e, successivamente, con le stragi poste in essere nelle città di Firenze, Roma e Milano dal 27 maggio al 28 luglio 1993”
Con le aggravanti di aver agito al fine di agevolate gli interessi del l’associazione denominata cosa nostra e con finalità di terrorismo e di eversione, consistite nel ricattare lo Stato per condizionarne la politica legislativa, seminando il terrore e il panico. Commesso in Palermo, nel corso del 1992, in Firenze il 27 maggio 1993, in Milano il 27 luglio 1993 e in Roma il 28 luglio 1993”.
Stefano Delle Chiaie a sua volta – prima ancora che emergessero recentemente nuove risultanze probatorie a suo carico – era stato già indagato per i seguenti reati a Palermo unitamente a GELLI Licio, MENICACCI Stefano, RIINA Salvatore, GRAVIANO Giuseppe, SANTAPAOLA Benedetto, ROMEO Paolo; MANDALARI Giuseppe, DI STEFANO Giovanni ed altri:
- a) reato di cui all’art. 270 bis, commi 1 e 2, c.p., in particolare, per avere, con condotte causali diverse ma convergenti verso l’identico fine, promosso, costituito, organizzato, diretto e/o partecipato ad un’associazione, promossa e costituita in Palermo anche da esponenti di vertice di Cosa Nostra, ed avente ad oggetto il compimento di atti di violenza con fini di eversione dell’ordine costituzionale, allo scopo – tra l’altro – di determinare, mediante le predette attività, le condizioni per la secessione politica della Sicilia e di altre regioni meridionali dal resto d’Italia, anche al fine di agevolare l’attività dell’associazione mafiosa Cosa Nostra e di altre associazioni di tipo mafioso ad essa collegate sui territori delle regioni meridionali del paese.
Fatti commessi in Palermo (luogo di costituzione e centro operativo della associazione per delinquere denominata Cosa Nostra) ed altre località, in epoca anteriore e prossima al 1991 e successivamente.
Con l’aggravante di cui all’art. 7 D.L. n. 152/1991 dal maggio 1991.
- b) in ordine al reato di cui agli artt.110 e 416 bis commi 1, 4, e 6 c.p., per avere contribuito al rafforzamento della associazione di tipo mafioso denominata “Cosa Nostra”, nonché al perseguimento degli scopi della stessa, in particolare partecipando alla progettazione ed esecuzione di un programma di eversione dell’ordine costituzionale da attuare anche mediante il compimento di atti di violenza, allo scopo – tra l’altro – di determinare, mediante le predette attività, le condizioni per la secessione politica della Sicilia e di altre regioni meridionali dal resto d’Italia, così perseguendo il fine di determinare il rafforzamento ed il definitivo consolidamento del potere criminale di Cosa Nostra e di altre associazioni di tipo mafioso ad essa collegate sui territori delle regioni meridionali del paese.
Nel 2022 la Procura della Repubblica di Caltanissetta ha attivato una nuova indagine sulla presenza di Stefano Delle Chiaie in Sicilia nel 1992 unitamente a Domenico Romeo, palermitano e cofondatore insieme a Domenico Menicacci, socio di Delle Chiaie, di numerosi movimenti leghisti meridionali, nonché sui suoi rapporti con esponenti mafiosi.
Nell’ambito di tale procedimento penale Stefano Menicacci è stato incriminato per avere indotto Domenico Romeo a mentire alla magistratura sui viaggi in Sicilia di Delle Chiaie nel 1992.
A sua volta Domenico Romeo è stato incriminato per avere dichiarato falsamente di non avere mai incontrato Licio Gelli.
Si riportano qui di seguito i capi di imputazione addebitati a Stefano Menicacci e Domenico Romeo nel procedimento penale n. 1422/2022 R.G.N.R DDA Procura della Repubblica di Caltanissetta:
MENICACCI Stefano, ROMEO Domenico.
- d) del delitto p. e p. dagli articoli 371 bis c.p, in relazione all’art 384 ter c.p., 416 bis. 1 c.p. perché, a seguito di formale citazione di ROMEO Domenico per essere escusso a sommarie informazioni in data 25.05.22, nell’ambito del procedimento penale n, 830/22 r.g. mod 44 per il delitto di cui all’art. 422 c.p., in concorso materiale e morale tra loro, concordavano quanto ROMEO avrebbe dovuto falsamente riferire ai magistrati di Caltanissetta; a tal fine MEN1CÀCCI dettava in data 23.5.2022 a ROMEO Domenico quanto quest ’ultimo avrebbe dovuto riferire; ROMEO, pertanto, dichiarava falsamente quanto concordato con il MENICÀCCI in relazione a quanto segue:
- che egli non era mai stato in Sicilia in compagnia di Stefano DELLE CHIÀIE ed in particolare che non si era mai recato a Ragusa unitamente allo stesso;
- che sua sorella ROMEO Maria non fosse a conoscenza dei suoi rapporti di conoscenza con Stefano DELLE CHIAIE;
- di non aver avuto alcun ruolo nel progetto politico delle leghe essendosi limitato a firmare dei documenti su richiesta di Stefano Menicucci.
Lo stesso ROMEO, inoltre, dichiarava falsamente di sua iniziativa, ma secondo la prospettiva di negazione assoluta concordata con il MENICÀCCI dì non avere mai incontrato Licio GELLI.
Con l ‘aggravante dì aver commesso il fatto nell’ ambito di un procedimento per il delitto dì cui all’art. 422 c.p..
Con l’ulteriore aggravante dì aver commesso il fatto al fine di agevolare e rafforzare l’associazione mafioso cosa nostra impedendo il proficuo svolgimento dì attività di indagine in relazione ai rapporti tra la stessa ed esponenti della estrema destra eversiva nel periodo antecedente e coevo alle stragi del 1992.
Fatto commesso in Caltanissetta il 25.05.2022.
Nel medesimo procedimento penale, la Procura di Caltanissetta ha riscontrato vistose anomalie nella gestione delle indagini del 1992 sulla presenza di Delle Chiaie in Sicilia.
Anomalie consistenti nella contemporanea sparizione in più uffici di documenti, anche fotografici, che riguardavano Delle Chiaie, nonché nel mancato svolgimento di alcuna indagine da parte del dott. Giovani Tinebra, Procuratore della Repubblica di Caltanisetta, dopo che aveva assegnato a se stesso il fascicolo, sottraendolo ai sostituti procuratori della repubblica delegati alle indagini sulla strage di Capaci.
Tenuto conto di altre gravi anomalie gestionali del dott. Tinebra nella conduzione delle indagini sulle stragi, di cui si dirà nel prosieguo della presente memoria, si chiede che la Commissione acquisisca copia integrale di tutti gli atti già desecretati del procedimento penale n. 1422/2022 R.G.N.R DDA Procura della Repubblica di Caltanissetta, con riserva di indicare soggetti da audire.
Della diretta interlocuzione instaurata da Bellini con gli stragisti, il generale Mori fu informato in tempo reale dal maresciallo dei carabinieri Tempesta che gli consegnò un manoscritto che il Bellini aveva ricevuto dai mafiosi, ma inspiegabilmente Mori di tale vicenda non solo non informò nessuno, non solo distrusse il manoscritto, ma ordinò a Tempesta di non redigere alcuna relazione scritta.
La vicenda – di cui non è contestata da alcuno la verità storica – è ricostruita nella motivazione della sentenza dalla Corte di Appello di Palermo del 23 settembre 2021 nel processo nei confronti di Leoluca Bagarella + sei, della quale si riportano alcuni brani essenziali:
“Ed invero, fosse stato per MORI, nulla si sarebbe saputo della vicenda BELLINI e di alcuni retroscena di quella vicenda, tra cui proprio il particolare rivelato dal M.llo TEMPESTA di avere egli (personalmente) consegnato all’allora Col. MORI un foglietto — che lo stesso TEMPESTA aveva a sua volta ricevuto dal BELLINI – su cui erano scritti i nominativi di cinque boss mafiosi cui procurare la concessione degli arresti domiciliari o almeno ospedalieri;
[….]
Una vicenda che nonostante lo sforzo dello stesso MORI e della sua difesa di banalizzarne la portata [….] presenta aspetti oscuri, anche perché nei colloqui tra GIOE’ e BELLINI sarebbe germinata l’idea di riprendere e intensificare la campagna di attentati e delitti eclatanti, ma con un radicale mutamento di target; un’idea che avrebbe messo radici fino ad essere condivisa e poi varata concretamente dal GOTHA di Cosa Nostra, nel corso delle riunioni seguite alla cattura di RIINA.
Ed era un’idea che aveva radici molto profonde e risalenti agli ambienti dell’eversione neofascista, come è emerso dalla testimonianza del Col. GIRAUDO, che per quasi tutta la sua carriera (a parte la parentesi in cui è stato anche alle dirette dipendenze del Prefetto MORI al SISDE dal 2002 ed è rimasto nei ranghi del Servizio civile fino al 2007) ha svolto indagini sulle trame nere e le stragi di matrice neofascista (la strage di P.zza Fontana, la strage della Questura di Milano del 1973, la strage dell’Italicus, la strage di Bologna, oltre a collaborare all’inchiesta sulla massoneria deviata del Procuratore CORDOVA e all’inchiesta sulla strage di Ustica).
E il Col. GIRAUDO nella sua lunga deposizione (in particolare v. udienza del 20.102016) ha riferito che a seguito dello scioglimento decretato dal Ministro dell’Interno TAVIANI nel novembre del 1973 (per violazione dei divieto di ricostituzione del partiti fascista) dell’organizzazione eversiva di destra “Ordine Nuovo”, tale organizzazione si era sostanzialmente ricostituita alcuni mesi dopo, accorpando gli elementi più duri e irriducibili, favorevoli ad una “spiralizzazione della lotta politica”. Si tenne a tal fine una riunione fondativa a Cattolica tra il 27 febbraio e l’i marzo 1974, riunione alla quale avrebbero partecipato o assistito anche elementi che lavoravano per l’allora SID, il Servizio segreto erede del SIFAR. Tra i quadri più importanti del ricostituito Ordine Nuovo v’era Umberto ZAMBONI (deceduto), del quale lo stesso GIRAUDO ha raccolto le s.i.t. rese il 9 luglio2015 (v. verbale acquisito come atto irripetibile già nel corso del giudizio di primo grado).
E lo ZAMBONI ha dichiarato che uno dei quadri della cellula veneta del ricostituito Ordine Nuovo, Massimiliano FACHINI, già imputato per la strage di Bologna e per la strage di P.zza Fontana, di cui sono stati accertati (grazie a un documento rinvenuto nel corso della perquisizione dell’abitazione del Capitano LA BRUNA) contatti con il SID, aveva esposto, nel quadro delle attività eversive di cui si discuteva all’interno d’ Ordine Nuovo, dei progetti di attentati a opere d’arte e beni culturali e infrastrutture. Orbene, MORI non ha potuto negare di avere ricevuto (dal M.llo TEMPESTA) quel foglietto (che a dire di BELLINI era stato redatto di proprio pugno dal GIOE’), ma non ha avuto alcuna remora a sbarazzarsene, senza neanche preoccuparsi di fare una relazione di servizio, di informare l’A.G. delle circostanze e delle ragioni per cui era entrato in possesso e senza neppure fame annotazione per lasciare memoria del fatto.
Anzi, fece di più, dissuadendo lo stesso TEMPESTA dal presentare lui una relazione di servizio (come poi il M.llo TEMPESTA si risolse a fare 4 anni dopo), ed omettendo di svolgere qualsiasi indagine volta ad individuare l’autore di quello scritto e i suoi sodali che ne supportavano l’iniziativa volta a favorire alcuni dei mafiosi di maggiore spessore all’epoca detenuti in carcere: indagini che avrebbero potuto puntare al cuore di un territorio e di una famiglia mafiosa, quella di Altofonte, che era stata protagonista della stagione stragista e stava “lavorando” ad altri progetti criminosi”.
[…] v’è la conferma, anche in questo caso, di una condotta non soltanto “opaca”, ma addirittura contra legem, del Col. Mori, il quale, infatti, pur promettendo o lasciando credere al M.lIo Tempesta che si sarebbe attivato per approfondire l’iniziativa del Bellini, ebbe ad evitare, come nel caso dei contatti con Vito Ciancimino, di lasciare qualsiasi traccia documentale, sia dissuadendo il M.llo Tempesta dal redigere una relazione di servizio, sia, soprattutto, trattenendo per sé un documento che certamente costituiva “corpo di reato”; e che, secondo Bellini, era stato redatto di proprio pugno da Gioé (ovvero il foglietto con i nomi dei detenuti mafiosi da scarcerare in cambio del recupero delle opere d’arte: anche se BELLINI a domanda specifica ha poi precisato che era già scritto) e che il M.llo Tempesta ha riferito di avere consegnato al Col. Mori.
Eppure, il Col. Mori, pur trattenendo a sé quel biglietto manoscritto o, comunque, non conservandolo senza neppure farne copia, ha omesso, oltre che di sequestrare un documento costituente corpo del reato, sia di informare l’Autorità Giudiziaria, sia, comunque, di svolgere qualsiasi indagine, certamente doverosa, diretta a individuare l’autore di quello scritto e, quindi, i soggetti (Gioé e coloro che lo supportavano in quell’iniziativa) partecipi dell’associazione mafiosa Cosa Nostra nel cui interesse quel medesimo biglietto era stato redatto e consegnato al Bellini.”
Si chiede che la Commissione:
- approfondisca le motivazioni di tali anomali comportamenti, soprattutto tenuto conto che la Corte di Assise di Bologna nel dispositivo finale della sentenza di condanna all’ergastolo di Gilberto cavallini ha denunciato il medesimo Generale Mori per il reato di testimonianza falsa e reticente di cui all’art 372 c.p. ritenendo false e reticenti le dichiarazioni rese dal medesimo in quel processo.
- acquisisca copia delle sentenze della Corte di Assise di Bologna citate e presso la Procura Generale di Bologna copia di tutta la documentazione processuale (peraltro già informatizzata) concernente il processo a carico di Paolo Bellini;
- acquisisca copia della sentenza depositata il 5 agosto 2022 dalla Sezione Seconda della Corte di Assise di Appello di Palermo nel processo nei confronti di Bagarella Leoluca Biagio + altri;
- acquisisca presso la Procura della Repubblica di Roma copia di tutto il procedimento penale (anche questo già informatizzato) concernente le indagini sul suicidio di Antonino Gioè;
- acquisisca presso la Procura Generale di Palermo le dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Pietro Riggio al dibattimento di appello del processo nei confronti di Bagarella Leoluca Biagio + altri, circa quanto da lui appreso in ordine alla simulazione del suicidio del Gioè.
Parte Seconda
Nell’incipit della presente memoria si è rilevato come la scelta della S.V. di limitare i lavori della Commissione solo alla ricostruzione storica della strage di Via D’Amelio appaia incomprensibile ed ingiustificata sia nel merito che nel metodo.
Le ragioni di merito sono state esposte nella parte che precede.
Quanto all’ incongruenza del metodo di lavoro prescelto, appare evidente che il filo conduttore che inanella le plurime e concordanti risultanze sulla compartecipazione di soggetti esterni a tutto il disegno stragista dall’incipit della strage di Capaci sino al fallito attentato allo stadio Olimpico, può essere individuato e ricostruito solo se si ricostruisce il quadro globale della sequenza stragista di quegli anni.
Di contro la disarticolazione del quadro probatorio prospettato dalla Presidenza della Commissione con l’intenzione di limitare i lavori solo alla strage di Via D’Amelio, scioglie pregiudizialmente e artificiosamente i nessi che collegano quella strage a quella di Capaci e a quelle successive, pregiudicando così il buon esito dei lavori della Commissione e tradendone inoltre la mission istituzionale.
A differenza delle Corti si Assise la cui competenza è per legge rigorosamente circoscritta alla ricostruzione di un singolo evento criminoso al limitato scopo di accertare la responsabilità penale degli imputati di quell’evento, la Commissione non ha infatti tali limiti di competenza e, quindi, ha la possibilità, preclusa invece alle Corti di Assise, di operare ricostruzioni storiche di più ampio respiro portando alla luce i nessi comuni e unificanti che collegano tra loro eventi stragisti e omicidiari di competenza di autorità giudiziarie differenti.
Molteplici e rilevanti risultanze processuali – molte delle quali acquisite successivamente al 20-4-2017, data dell’ultima sentenza Corte di Assise di Caltanissetta sulla strage di Via D’Amelio – attestano infatti che i soggetti coinvolti con ruoli di depistaggio e di partecipazione occulta alla strage di via D’Amelio appartengono ai medesimi apparati e ai medesimi ambienti criminali operativi nella strage di Capaci del 23 maggio 1992 e in quelle del 1993.
Si consideri per anticipare solo alcuni degli esempi ai ruoli svolti:
- da Paolo Bellini, esponente di Avanguardia Nazionale, uomo collegato ai servizi segreti, condannato in primo grado come esecutore della strage di Bologna del 2 agosto 1980, presente in Sicilia nel periodo della strage di Capaci, di Via D Amelio e suggeritore degli obiettivi da colpire con le stragi del 1993;
- da Arnaldo La Barbera, ritenuto responsabile del depistaggio Scarantino e indicato dal collaboratore Francesco D Carlo come uno degli esponenti dei servizi segreti che avevano chiesto in precedenza di entrare i contatto con i vertici di Cosa Nostra per neutralizzare il dottor Giovanni Falcone[17];
- dai componenti della Falange Armata che rivendicarono non solo la strage di via D’Amelio ma anche la strage di Capaci e quelle del 1993;
- dagli uomini dei servizi segreti che prima e dopo la strage di Capaci proposero al capo mafia Vincenzo Milazzo di unirsi alla strategia stragista, assassinandolo a causa del suo rifiuto il 14 luglio 1992 cinque giorni prima che altri esponenti dei servizi segreti (a tutt’oggi non identificati) il successivo 19 luglio intervenissero sulla scena della strage di via D’Amelio per impossessarsi abusivamente dell’agenda rossa di Paolo Borsellino per sottrarla alle indagini della magistratura.
Si consideri ancora che – come risulta dalle indagini svolte – il dott. Paolo Borsellino si apprestava a formalizzare dinanzi alla Procura della Repubblica di Caltanissetta quanto da lui appurato in ordine alle causali e agli autori della strage di Capaci a seguito delle confidenze ricevute da Giovanni Falcone e delle rivelazioni a lui anticipate, ma non ancora verbalizzate, da parte di alcuni collaboratori ed altre fonti a tutt’oggi non individuate.
Circostanza questa che ancor più evidenzia la inscindibile connessione della strage di Via D Amelio non solo con quella di Capaci, ma anche con quelle del 1993, atteso che il perfetto sincronismo operativo dell’azione omicidiaria del dott. Borsellino eseguita da appartenenti a Cosa Nostra con il repentino intervento sul luogo della strage di individui appartenenti ad apparati istituzionali per sottrarre l’agenda rossa nella quale il dott. Borsellino aveva annotato quanto aveva intenzione di riferire alla Procura di Caltanissetta, appare inequivocabilmente finalizzato a occultare indizi suscettibili di coinvolgere personaggi esterni a Cosa Nostra coinvolti nella strage di Capaci e suggeritori delle stragi successive eseguite nel 1993.
Ed ancora il nesso tra la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio emerge dal fatto che ignoti appartenenti al circuito istituzionale dopo avere effettuato la cancellazione di files delle agende elettroniche di Giovanni Falcone, fecero sparire anche i tabulati telefonici delle telefonate in entrata sull’utenza mobile di Paolo Borsellino.
Si riporta qui di seguito il paragrafo 16.7 della sentenza del Tribunale di Caltanissetta del 12 luglio 2022 nel processo a cari ci Mario Bo + 2:
16.7 II traffico in entrata sull’utenza mobile del Dott. Paolo Borsellino
Il teste Gioacchino Genchi ha riferito anche nel corso della sua escussione nell’odierno dibattimento una anomalia di significativo rilievo afferente alla mancata acquisizione del traffico in entrata sull’utenza mobile nella disponibilità del Dott. Borsellino:
TESTIMONE GENCHI – Altro punto di contrasto con il Servizio Centrale Operativo, tutti i tabulati acquisiti, dico tutti i tabulati acquisiti, lei li trova agli atti, quelli di Falcone, quelli degli indagati, quelli di Scotto, quelli di Contrada, si distinguevano in due parti: il traffico in entrata e il traffico in uscita… Venivano dati due tabulati cartacei all’epoca, non c’erano ancora i file. Traffico in entrata e traffico in uscita. Ora il sistema di documentazione del traffico telefonico di allora rendeva indispensabile il traffico in entrata, perché sapere il traffico in uscita senza il traffico in entrata si perdeva più della metà delle chiamate. Il traffico telefonico del cellulare del dottor Paolo Borsellino in entrata è stato fatto scomparire. Non è mai stato conferito al gruppo di indagine Falcone e Borsellino, non è mai stato depositato agli atti dei processi e lei non lo troverà da nessuna parte. Al punto tale che poi si è pure a momenti tacciato di falsità un suo collaboratore, mi ricordo il maresciallo Canale, che diceva “Ma io l ’ho chiamato. ”, ma queste chiamate non risultano. Ma non potevano mai risultare le chiamate di Canale nei tabulati di Borsellino se il traffico in entrata è stato tolto. E uno dei punti di scontro, a proposito di quei tabulati, oltre a quelli corrosi dall’umidità… io non ho mai sentito parlare che i file vengono corrosi dall ’umidità. Dico insomma qualche file bene o male nella mia vita penso di averlo maneggiato. Il traffico telefonico in entrata di Borsellino è un dato obiettivo, documentale. “Voi l’avete acquisito con delega della Procura di Caltanissetta. La Procura di Caltanissetta ha disposto che ce lo dovete mandare. Signori miei mi dite dove è questo traffico?”, non si è mai avuto il traffico telefonico in entrata di Borsellino. Perché ritengo che probabilmente il traffico telefonico in entrata di Borsellino fosse quello più importante. Perché se c ’erano state anche chiamate a Borsellino da parte di qualcuno, che bisognava non far comparire,l’unico sistema a quel punto – visto che Borsellino era stato tacitato per sempre – era quello di far scomparire il traffico in entrata che era il referto documentale più importante che non è mai stato acquisito e che lei non trova in nessun processo. Almeno fino al materiale che ho trattato io. Peraltro, poi i dati sono stati cancellati e quindi non vedo come si sia potuto acquisire ex post. Questo tanto per dirgliene una. (v. pag. 33 udienza del 11.01.2019 nonché pag. 74 ).
E quanto affermato dal Dott. Genchi parrebbe avere conferma nella richiesta dello Sco della Polizia di Stato (Dott. A. Pansa) datata 20.07.1992 – ritualmente autorizzata dal Dott. Petralia in pari data – volta ad acquisire il solo traffico in uscita dell’utenza in uso al Dott. Borsellino (v. all. 15 della prod. acquisita il 14.09.2020).
Epperò, dalla lettura del decreto di archiviazione del 21.06.2012669 (prod. Avvocatura dello Stato del 23.03.2022), sembrerebbe (implicitamente) evincersi che il traffico in entrata del Dott. Borsellino sia stato sviluppato, facendosi riferimento sul punto ad una nota del Gruppo Investigativo “Falcone- Borsellino” datata 19.04.94:
Tuttavia, della conversazione telefonica in argomento, si fa espressa menzione nell ’informativa del Gruppo Investigativo “Falcone – Borsellino’’ datata 19/04/94: «…intorno alle ore 12.00 – 12.30, espletata una seconda sessione di lavoro dedicata alle propalazioni del MUTOLO, (n.d.r. Paolo BORSELLINO) decise di fare rientro a Palermo, prenotando il volo delle ore 14.25. Durante il percorso, che dalla sede della D.l.A. conduce all’aeroporto “Leonardo da Vinci”, il giudice telefonò dal suo radiomobile al Procuratore Capo di codesta Procura, dott. Giovanni TINEBRA, dovendogli probabilmente comunicare il delicato esito di quanto informalmente appreso dal MUTOLO. Infatti, analizzando il traffico telefonico in entrata ed in uscita del cellulare in uso al dott. Paolo BORSELLINO, è stato rilevato che effettivamente in data n/07/92 alle ore 12.42 e 12.44, risultano telefonate, per la durata rispettivamente di 1 minuto circa e di 40 secondi, dirette al dott. Giovanni TINEBRA (trattasi della telefonata effettuata lungo il percorso Roma – Fiumicino)…» (pag. 24 decreto di archiviazione).
Ove il dato riferito dalla nota del Gruppo Falcone – Borsellino non corrispondesse alla realtà con conseguente veridicità di quanto affermato da Genchi non vi è dubbio che si tratterebbe dell’ennesima sottrazione di elementi utili alla ricostruzione della strage di Via D’Amelio.
Invero, il non avere a disposizione le chiamate in entrata sul telefono del Dott. Borsellino ha indubbiamente sottratto importanti piste investigative che se percorse subitaneamente avrebbero consentito di ricostruire più agevolmente gli ultimi giorni di vita del Dott. Borsellino senza dover ricorrere, a distanza di molti anni, ad assunzioni testimoniali che per loro natura – a prescindere dalla buona o malafede del dichiarante – si prestano a maggiori imprecisioni.
Risulta altresì che il dott. Paolo Borsellino per ricostruire le causali ed individuare gli autori della strage di Capaci si avvalse delle confidenze e delle informazioni ricevute in precedenza dal dott. Falcone e di quanto aveva annotato nel suo diario, come ebbe a dichiarare pubblicamente in occasione del suo intervento del 25 giugno 1992 alla Biblioteca Comunale di Palermo.
Si riporta qui di seguito il brano di interesse del suo intervento:
In questo momento inoltre, oltre che magistrato, io sono testimone. Sono testimone perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto, non voglio dire più di ogni altro, perché non voglio imbarcarmi in questa gara che purtroppo vedo fare in questi giorni per ristabilire chi era più amico di Giovanni Falcone, ma avendo raccolto comunque più o meno di altri, come amico di Giovanni Falcone, tante sue confidenze, prima di parlare in pubblico anche delle opinioni, anche delle convinzioni che io mi sono fatte raccogliendo tali confidenze, questi elementi che io porto dentro di me, debbo per prima cosa assemblarli e riferirli all’autorità giudiziaria, che è l’unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell’evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone, e che soprattutto, nell’immediatezza di questa tragedia, ha fatto pensare a me, e non soltanto a me, che era finita una parte della mia e della nostra vita.
Quindi io questa sera debbo astenermi rigidamente – e mi dispiace, se deluderò qualcuno di voi – dal riferire circostanze che probabilmente molti di voi si aspettano che io riferisca, a cominciare da quelle che in questi giorni sono arrivate sui giornali e che riguardano i cosiddetti diari di Giovanni Falcone. Per prima cosa ne parlerò all’autorità giudiziaria, poi – se è il caso – ne parlerò in pubblico. Posso dire soltanto, e qui mi fermo affrontando l’argomento, e per evitare che si possano anche su questo punto innestare speculazioni fuorvianti, che questi appunti che sono stati pubblicati dalla stampa, sul “Sole 24 Ore” dalla giornalista – in questo momento non mi ricordo come si chiama… – Milella, li avevo letti in vita di Giovanni Falcone. Sono proprio appunti di Giovanni Falcone, perché non vorrei che su questo un giorno potessero essere avanzati dei dubbi.
Le confidenze ricevute dal dott. Paolo Borsellino da Giovanni Falcone e da Gaspare Mutolo sui rapporti tra vertici dei servizi segreti e mafia.
Tra le confidenze ricevute dal dott. Falcone particolare rilievo assumono quelle riguardanti il dott. Bruno Contrada, numero tre del Sisde, e le sua collusione con le organizzazioni mafiose.
Al riguardo il maresciallo dei carabinieri Carmelo Canale, uomo di fiducia di Borsellino, ha dichiarato alla Procura della Repubblica di Caltanissetta in data 26 novembre 1992 di avere assistito ad un incontro nel corso del quale il dott. Falcone aveva anticipato a Borsellino che se fosse stato nominato procuratore nazionale antimafia avrebbe svolto indagini per pervenire all’arresto di Bruno Contrada e che era sicuro che dell’attentato all’Addaura era responsabile il Dr. Bruno CONTRADA.
Si riporta qui di seguito lo stralcio del verbale nelle parti di interesse:
“ Come sanno le SS.VV. il Giudice BORSELLINO aveva fatto domanda per la nomina a Procuratore Aggiunto presso la Procura di Palermo liberatosi a seguito della nomina del Dr. FALCONE a direttore generale presso il Ministero di Grazia e Giustizia. Il Dr. BORSELLINO era convinto che Giovanni FALCONE si era dovuto allontanare da Palermo perche’ gli impedivano di lavorare seriamente sulle indagini di mafia. Ad onta del fatto che ufficialmente quest’ultimo sembrava l’unico detentore delle indagini di mafia in corso a Palermo in realtà in alcuni casi neanche sapeva su quali tracce investigative gli altri sostituti del pool antimafia stessero lavorando. Comunque, in quel periodo il Procuratore si sentiva spesso telefonicamente con l’amico FALCONE il quale gli confidava i suoi disagi e le sue amarezze per quanto accadeva alla Procura di Palermo. Dopo l’andata di FALCONE al Ministero di Grazia e Giustizia, il Procuratore fece la domanda per Aggiunto a Palermo ma anche stavolta non fu facile perche’ alcuni ambienti giudiziari siciliani non gradivano tale nomina tanto e’ vero che fecero presente un altro candidato piu’ anziano.
[…]
Il Giudice BORSELLINO mi disse infatti di aver appreso da FALCONE della possibilita’ del pentimento di MUTOLO e mi raccomando’ di tener la cosa per me in quanto si trattava di un grosso personaggio vicino a Toto’ RIINA per avergli fatto per anni da autista. Sempre BORSELLINO mi disse che il Giudice FALCONE voleva che a gestire il pentito fosse il Procuratore BORSELLINO e non altri magistrati.
[…]
…il Dr. BORSELLINO prendeva in considerazione tutte le ipotesi che potevano in qualche modo spiegare l’omicidio del Dr. FALCONE e, tra queste, anche quella che Cosa Nostra avesse inteso fargli pagare il buon esito del c.d. “maxi processo” ed in particolare della decisione della Cassazione che aveva dato avvallo giuridico al c.d. “Teorema BUSCETTA”. Ne’ escludeva il Dr. BORSELLINO che Cosa Nostra avesse deciso di colpire FALCONE, temendone l’azione qualora fosse riuscito a diventare Procuratore Nazionale Antimafia, cosa che negli ultimi tempi si andava delineando. Tra le piste che venivano prese in considerazione dal Dr. BORSELLINO vi era anche la seguente che cerchero’ di illuminare riferendo un episodio del quale sono stato testimone oculare. FALCONE e BORSELLINO si tenevano spesso in contatto, quantomeno telefonico; comunque quando ne avevano la possibilita’ si incontravano anche di persona. Una volta accompagnai il Dr. BORSELLINO al Ministero ove doveva incontrare l’amico FALCONE; BORSELLINO entro’ nello studio di FALCONE ed io mi trattenni nell’anticamera scambiando qualche parola con la segretaria. Ad un certo punto mi fu detto di entrare; forse il Dr. BORSELLINO voleva prendere qualcosa dalla borsa che aveva lasciato nelle mie mani. Entrato nello studio i due che stavano parlando continuarono a farlo senza alcun imbarazzo per la mia presenza e sentii cosi’ distintamente il Dr. FALCONE dire all’amico che era sicuro che dell’attentato all’Addaura era responsabile il Dr. Bruno CONTRADA e subito dopo aggiungere che se ce l’avesse fatta a diventare Procuratore Nazionale gli avrebbe messo i ferri. Successivamente chiesi al Dr. BORSELLINO chi era quel Bruno CONTRADA e il Dr. BORSELLINO mi disse soltanto che era uno dei servizi segreti e che lavorava all’Alto Commissariato e che, in passato, aveva pure prestato servizio alla Questura di Palermo; il Dr. BORSELLINO lascio’ subito dopo cadere l’argomento ne’ io gli chiesi altro. Di questo episodio tornammo a parlare con il Procuratore dopo la morte del Dr. FALCONE; il Dr. BORSELLINO si rendeva ben conto, e me lo fece presente, della delicatezza e della pericolosita’ di questa ipotesi tanto e’ vero che mi ordino’ di non riferire a chicchessia le parole di FALCONE; anzi preciso’ che neanche il Dr. INGROIA, di cui pure si fidava tantissimo, doveva essere messo al corrente della confidenza. Dopo la morte di Paolo BORSELLINO ho deciso che non potevo piu’ tenere per me tale segreto e ne ho parlato con il Dr. INGROIA e alcuni ufficiali dell’Arma dei Carabinieri che ho menzionato prima. Faccio presente che il Dr. BORSELLINO, dopo la morte di FALCONE, aveva collegato la confidenza ricevuta sull’Addaura alla possibilita’ che i due fatti erano stati commessi, dopo la decisione della Cupola, dalle stesse famiglie mafiose essendo il territorio dell’Addaura sotto il mandamento di S. Maria del Gesu’. Ricordo che fece il collegamento con le stesse persone che emergevano nei due rapporti di cui prima ho parlato; questo ovviamente per l’apporto di manovalanza e per il supporto logistico necessario per i due attentati dell’Addaura e di Capaci”.
La circostanza riferita dal maresciallo canale assume un rilievo significativo anche avuto riguardo ad un episodio che Borsellino visse come un messaggio intimidatorio nei suoi confronti riguardante proprio il dott. Contrada, tanto da confidare la propria preoccupazione ad alcuni colleghi.
Il collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo ha dichiarato di avere incontrato in carcere nel dicembre del 1991 il dott. Falcone anticipandogli la sua intenzione di collaborare, alla presenza di un altro magistrato in servizio al Ministero della Giustizia. In tale occasione aveva pure confidato al dott. Falcone che avrebbe rivelato la collusione del dott. Contrada con la mafia. Il medesimo Mutolo ha dichiarato di avere rivelato tale notizia anche al dott. Borsellino nel corso del suo primo interrogatorio in data 1 luglio 1992 riservandosi di formalizzare tale dichiarazione a verbale nel prosieguo.
Quel giorno avviata la verbalizzazione, Borsellino aveva ricevuto una telefonata, alla conclusione della quale gli aveva detto che egli si sarebbe dovuto allontanare e che pertanto l’interrogatorio doveva essere sospeso. Usciti tutti dalla stanza, Mutolo era rimasto solo in stanza con Borsellino che gli aveva detto con soddisfazione che doveva andare a parlare con il “Ministro”, senza null’altro precisare.
Trascorsa circa un’ora e mezzo, Borsellino era rientrato e era turbato perché , come gli aveva spiegato, non aveva incontrato il Ministro, ma a sorpresa il capo della Polizia Parisi gli aveva fatto incontrare Contrada il quale gli aveva detto di essere a conoscenza dell’avvio della collaborazione di Mutolo e si era messo a disposizione per ogni attività.
Borsellino aveva quindi insistito perché Mutolo verbalizzasse subito le dichiarazioni su Contrada, ripetendo tale invito nel corso degli altri due interrogatori del 16 e del 17 luglio 1992, gli ultimi prima della strage di Via D’Amelio.
La circostanza dell’incontro inatteso con Contrada nell’ufficio del capo della Polizia e il turbamento provocato da tale episodio in Borsellino sono stati confermati da due magistrati:
Il dott. Pietro Maria Vaccara applicato dalla Procura di Caltanissetta alla Procura di Palermo come magistrato di collegamento per le indagini sulla strage di Capaci (verb. 16/2/1998) ed il dott. Gioacchino Natoli componente del pool antimafia della Procura della Repubblica di Palermo che procedette agli interrogatori di Mutolo nel luglio del 1992 (Udienza 17 o 18 marzo 2017 del processo c.d. Trattativa).
Tenuto conto che l’episodio alla luce delle dichiarazioni concordanti sopra citate appare indiscutibilmente provato, appaiono inquietanti e meritevoli di approfondimenti da parte della Commissione i motivi che indussero sia Contrada che Parisi a negare di avere mai incontrato insieme Borsellino in quella circostanza.
Al riguardo si tenga conto che dopo la strage di via D Amelio sortì un tale effetto intimidatorio nei confronti del Mutolo, da indurlo a tacere su quanto aveva confidato a Paolo Borsellino su Contrada nei successivi interrogatori dei giorni 18,28,29,30 luglio 1992, 4,5,6,7,25,26,27,28 agosto 1992, 1,2,3,8,14,15,24,30 settembre 1992, 2,3,14,16, 22 ottobre 1992.
Soltanto il data 23 ottobre 1992 Mutolo si decise a parlare del dott. Contrada.
Si riporta qui l’incipit del verbale attestante lo stato di timore del Mutolo:
Il MUTOLO dichiara: ieri ho chiesto alle SS.LL. di interrompere le dichiarazioni che stavo rendendo per potere adeguatamente riflettere su una scelta che ho sempre saputo essere estremamente difficile, ed anche perchè ritenevo opportuna la presenza del mio difensore di fiducia, che aveva dovuto allontanarsi per altri impegni di lavoro.
Le SS.LL. mi hanno più di una volta chiesto di riferire, con assoluta completezza, tutto quanto fosse a mia conoscenza su eventuali rapporti tra Cosa Nostra e rappresentanti delle Istituzioni.
Ho meditato a lungo su questo problema, poichè la soluzione di esso comporta la necessità che io parli di fatti che potrebbero rimanere, malgrado ogni impegno investigativo, privi di adeguati riscontri.
Ciò potrebbe creare difficoltà e critiche, e nuocere ad un’azione giudiziaria che complessivamente si sta svolgendo contro Cosa Nostra sulla base di fatti oggettivamente riscontrabili e riscontrati.
Tuttavia, dopo una lunga e difficile riflessione, ho acquisito la definitiva certezza che questo è il momento di sciogliere ogni riserva e di manifestare completamente la mia fiducia nello Stato, la cui capacità di affrontare con determinazione, e senza riguardi per alcuno, la criminalità mafiosa è dimostrata dalle iniziative giudiziarie di questi ultimi giorni.
Ritengo, quindi, ormai indispensabile rivelare quale sia stato e sia il grado di infiltrazione di Cosa Nostra nelle Istituzioni, in maniera che sia possibile individuare e recidere le ramificazioni dell’organizzazione della quale ho fatto parte e tentare di distruggerla, così, definitivamente”.
Il dott. Natoli sentito come testimone nel processo penale n. r.g. 01/13 – r.g.n.r. 11719/12 a carico di: Bagarella Leoluca Biagio+altri, ha dichiarato alle udienze del 10 e del 17 marzo 2017 che fu lui a sollecitare Mutolo a rendere quel giorno quelle dichiarazioni dopo avere appreso da alcuni magistrati della Procura di Palermo la circostanza da lui prima ignorata e ai medesimi magistrati confidata riservatamente da Paolo Borsellino, che il Mutolo aveva manifestato a Paolo Borsellino l’intenzione di rivelare quanto a sua conoscenza su Contrada.
In assenza di tale sollecitazione derivante dalle confidenze di Paolo Borsellino, Mutolo quindi avrebbe taciuto per timore quanto sapeva sui rapporti tra servizi segreti e Cosa Nostra.
Si chiede che la Commissione acquisisca:
- presso la Procura della Repubblica di Caltanisetta le dichiarazioni citate rese dal maresciallo Carmelo Canale, dai magistrati Pietro Maria Vaccara, dal dott. Gioacchino Natoli, dal capo della Polizia Parisi, dal dott. Contrada;
- presso la Procura della Repubblica di Palermo copia di tutti i verbali delle dichiarazioni di Mutolo dal 1 luglio al 23 ottobre 1992;
- presso la Procura della Repubblica di Palermo copia delle dichiarazioni rese all’udienza del 10 e del 17 marzo 2017 dal dott. Gioacchino Natoli nel dibattimento di primo grado del processo penale n. r.g. 01/13 – r.g.n.r. 11719/12 a carico di Bagarella Leoluca Biagio+altri
Le confidenze di Leonardo Messina a Paolo Borsellino sulle riunioni di Enna nel giugno 1992 prima di diventare collaboratore di giustizia.
Si sono sopra riportate le dichiarazioni di Leonardo Messina sulle riunioni di Enna riservate ad una ristretta elite di capi regionali di Cosa Nostra nel corso delle quali fu approvato di dare corso al piano stragista seguendo le indicazioni provenienti da ambienti criminali esterni a Cosa Nostra.
All’udienza del 4.12. 2013 del processo penale n. r.g. 01/13 – r.g.n.r. 11719/12 a carico di Bagarella Leoluca Biagio+altri, il Messina ha dichiarato di avere rivelato fuori verbale a Paolo Borsellino, stante la particolare caratura del personaggio, tutti i contenuti delle riunioni di Enna, prima ancora di assumere la veste formale di collaboratore di giustizia e di verbalizzare tempo dopo quanto sapeva su tale tema.
Si riportano qui di seguito i passi salienti del verbale di udienza al riguardo:
“G/T Su determinati argomenti, prendiamo per esempio anche questa riunione del febbraio – marzo 92 di cui ha parlato, in cui si decide di uccidere Falcone, lei ne ha parlato al dottor Borsellino? Per quello che è il suo ricordo. Se non lo ricordo è un altro… Ma ricorda di aver detto per esempio…
DICH. MESSINA : – Abbiamo parlato di tutto.
G / T: – Di tutto, e le rifaccio ancora la domanda, anche di questo argomento in particolare per esempio?
DICH. MESSINA : – Anche di questo argomento.
G / T: – Quindi lo ha riferito.
DICH. MESSINA : – Poi le verbalizzazioni…
G / T: – Sì, sì, prego, continui
DICH. MESSINA : – Anche dell’argomento della riunione, ok, ne avevo parlato anche che nella riunione non c’era il suo nome, ok? Questo era quello che avevo parlato con il dottore Borsellino, perché gli interrogatori sono una fase, poi c’è una fase che è la trascrizione, che a volte passano mezz’ora, quaranta minuti, un’ora, si piglia un caffè, io non ho mai fumato e si parla di tutto.
G / T: – Gli altri argomenti per i quali lei ha fatto la domanda il Pubblico Ministero, cioè le riunioni della fine del 91 e dei progetti politici, per così dire, tra virgolette, anche di questi ne ha parlato?
DICH. MESSINA : – Certo.
G / T: – E allora, possiamo procedere con l’esame.
- M. DI MATTEO: – E allora anche il terzo argomento, riunioni… Dell’aspetto dell’interessamento massonico all’appoggio a questo progetto di Cosa Nostra, ne ha parlato pure? Per quello che è il suo ricordo. Quindi delle prime riunioni…
DICH. MESSINA : – Io ho parlato delle cose… Dato il personaggio che avevo davanti, io ho parlato delle cose più forti che potevo parlare, di quello che sapevo delle riunioni, della strategia, della politica, quello che avevo di parlare ho parlato al dottore Borsellino, anche così, fuori di interrogatorio.
Le confidenze ricevute da Paolo Borsellino sulle collusioni di pezzi di apparato dello stato con la mafia.
Nella motivazione della sentenza del 20.4.2017 della sentenza della Corte di Assise di Caltanissetta nel processo a carico di Madonia Salvotore + 4 per la strage di via D’Amelio sono riportate le dichiarazioni di Agnese Piraino vedova di Borsellino su quanto il marito aveva appreso sui rapporti di contiguità della mafia con pezzi di apparato dello Stato, sui timori nei confronti dei servizi segreti una cui postazione era ubicata a Castello Utvegio, sulla collusione con la mafia del generale dei Carabinieri Subranni.
Si riporta qui di seguito la motivazione nelle parti di interesse:
Al riguardo, sono estremamente significative le dichiarazioni rese da Agnese Piraino, vedova di Paolo Borsellino, che ha riferito con grande precisione quanto confidatogli dal marito nell’ultimo periodo della sua vita, quando il Magistrato «era perfettamente consapevole (…) che il suo destino era segnato», tanto da dirle «in più circostanze che il suo tempo stava per scadere», e da confessarsi e fare la comunione pochi giorni prima di essere ucciso.
[….]
Nel successivo verbale di sommarie informazioni del 27 gennaio 2010, Agnese Piraino Borsellino ha ricostruito una serie di vicende di speciale rilevanza, verificatesi anch’esse nell’ultimo periodo di vita del marito. Il contenuto del verbale è di seguito trascritto:
Ricordo, invece, che mio marito mi disse testualmente che “c’era un colloquio tra la
mafia e parti infedeli dello stato”. Ciò mi disse intorno alla metà di giugno del 1992.
[…]
In quello stesso periodo mi disse che aveva visto la mafia in diretta”, parlandomi
anche in quel caso di contiguità tra la mafia e pezzi di apparati dello Stato italiano.
In quello stesso periodo chiudeva sempre le serrande della stanza da letto di questa
casa, temendo di essere visto da Castello Utveggio. Mi diceva: “ci possono vedere a
casa”.
A.d.r. Paolo mi disse dell’incontro con MORI a Roma presso il R.O.S.
In quella occasione so che dopo doveva andare insieme ai carabinieri che incontrò a
battezzare il bambino di un giovane magistrato da lui conosciuto, il dott.
CAVALIERO.
Devo specificare a questo punto che mio marito non mi diceva tutto perché non
voleva mettermi in pericolo.
Confermo che mi disse che il gen. SUBRANNI era “panciuto”. Mi ricordo che quando
me lo disse era sbalordito, ma aggiungo che me lo disse con tono assolutamente certo. Non mi disse chi glielo aveva detto. Mi disse, comunque, che quando glielo avevano detto era stato tanto male da aver avuto conati di vomito. Per lui, infatti, l’Arma dei Carabinieri era intoccabile.
Dalle dichiarazioni della vedova di Borsellino si traggono tre conseguenze:
In primo luogo Borsellino aveva ricevuto le informazioni sopra specificate da fonti da lui ritenute pienamente attendibili e che a tutt’oggi non sono state identificate.
In secondo luogo che la strage di Via D’Amelio ha sortito un tale effetto intimidatorio nei confronti di tali fonti da ridurle al silenzio.
In terzo luogo che tali fonti non sono individuabili proprio grazie alla sottrazione dell’agenda rossa.
Dalle dichiarazioni congiunte di Mutolo, di Leonardo Messina e di Agnese Borsellino nonché dalle stesse anticipazioni fatte da Borsellino nella serata del 25 giugno 1992 risulta che Paolo Borsellino era venuto a conoscenza di notizie riservatissime e di portata dirompente non solo per i destini individuali di alcuni vertici dei servizi segreti e delle forze di Polizia, ma anche per i complici eccellenti della strage di Capaci ed i suggeritori della strategia stagista la cui area di appartenenza gli era stata rivelata da Leonardo Messina.
Borsellino sapeva quindi che dietro la strage di Capaci non c’era solo la mafia, ma altre forze potenti che egli aveva individuato.
La sua intenzione di rivelare ai magistrati della Procura di Caltanisetta il patrimonio delle conoscenze che aveva acquisito e di trasfondere a sua volta in verbali di sua competenza quanto gli era stato confidato ed aveva annotato nella sua agenda rossa, lo rendeva una mina vagante che doveva essere eliminata urgentemente.
Da qui l’accelerazione improvvisa della strage e la richiesta a Riina di eseguire la strage con estrema urgenza.
Accelerazione che come risulta dalle intercettazioni dei colloqui in carcere di Riina, fu richiesta al medesimo da terzi i quali gli evidenziarono che erano sopravvenuti motivi di estrema urgenza.
Da qui l’impossibilità di Riina di fornire agli altri componenti della Commissione una giustificazione plausibile di una accelerazione che appariva irrazionale alla luce degli interessi dell’organizzazione mafiosa ed anzi sacrificava tali interessi sull’altare di interessi superiori che Riina non poteva rivelare agli altri complici.
Dopo la strage di Capaci era stato approvato il decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (cosiddetto Decreto antimafia Martelli-Scotti), convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356. che aveva introdotto il 41 bis e l’ergastolo ostativo. In Parlamento si era scatenata una dialettica molto forte ed era prevalente, come risulta dalle testimonianze rese in vari processi, una maggioranza garantista che era contraria a convertire in legge quel decreto che scadeva il 7 agosto.
Era sufficiente attendere il 7 agosto per raccogliere il risultato importantissimo per Cosa Nostra della mancata conversione in legge di quel decreto.
Invece era scontato che eseguire una ulteriore strage eclatante prima di quella data avrebbe sollevato una ondata di indignazione nella pubblica opinione inducendo la maggioranza del Parlamento a superare ogni resistenza convertendo in legge il decreto, così come infatti avvenne.
Ma non era possibile attendere la manciata di giorni dal 19 luglio al 7 agosto, perché proprio in quei giorni Borsellino – per i motivi esposti – avrebbe compromesso gli interessi dei complici eccellenti nelle stragi e la stessa riuscita del piano di destabilizzazione politica sotteso al disegno stragista.
Come ha rivelato il collaboratore di giustizia Salvatore Cancemi in dibattimento, il prestigioso capo mandamento Raffaele Ganci resosi conto dell’’irrazionalità della decisione di Riina tentò di dissuaderlo ma questi tagliò corto dicendo “mi assumo la responsabilità”. Uscito dall’incontro con Riina, Ganci disse a Cancemi “questo è pazzo, porterà alla rovina l’organizzazione”. Cancemi ha dichiarato che a quel punto lui e Ganci capirono che Riina aveva preso un impegno con soggetti esterni e che stava sacrificando gli interessi di cosa nostra.
E’ evidente tuttavia che non era sufficiente la soppressione fisica di Borsellino. Se l’agenda rossa nella quale egli aveva annotato tutte le informazioni che si apprestava a riferire alla Procura di Caltanissetta e a verbalizzare in proprio per quanto di sua competenza, fosse finita nelle mani dei magistrati, lo scopo dell’accelerazione della strage sarebbe stato frustato. I mafiosi dopo avere fatto esplodere l’autobomba non potevano attardarsi a cercare e prelevare l’agenda rossa, perché potevano essere visti da qualcuno dalle numerose finestre degli appartamenti degli stabili circostanti. Tale compito doveva essere assolto da insospettabili che grazie alle loro credenziali pubbliche potevano subentrare sulla scena della strage senza destare sospetti.
Da qui il perfetto sincronismo operativo tra mafiosi esecutori della strage e la discesa in campo di uomini dei servizi segreti completamente disinteressati alla vittime e ai feriti, e interessati esclusivamente alla borsa di Paolo Borsellino da cui venne prelevata solo l’agenda rossa, lasciando al suo posto un’altra agenda non ritenuta di interesse.
Si riporta qui di seguito la parte della motivazione della sentenza del 20.4.2017 della Corte di Assise di Caltanissetta nel processo a carico di Madonia Salvatore + 4 per la strage di via D’Amelio della sentenza, nella parte concernente l’intervento degli uomini dei servizi segreti
“Tutt’altro che rassicuranti, ad esempio (come si vedrà, in maniera più approfondita, nella parte dedicata alla vicenda della scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino), sono le emergenze istruttorie relative alla presenza, in via D’Amelio, nell’immediatezza della strage, di appartenenti ai servizi di sicurezza, intenti a ricercare la borsa del Magistrato. Infatti, uno dei primissimi poliziotti che arrivava in via D’Amelio, dopo la deflagrazione delle ore 16:58 del 19 luglio 1992, era il Sovrintendente Francesco Paolo Maggi, in servizio alla Squadra Mobile di Palermo. Il poliziotto arrivava sul posto circa una decina di minuti dopo la deflagrazione, mentre Antonio Vullo, l’unico superstite fra gli appartenenti alla scorta di Paolo Borsellino, in evidente stato di shock emotivo e psicologico, era seduto sul marciapiede, con la testa fra le mani. Il Sovrintendente Maggi, dunque, confidando di poter trovare qualche altra persona ancora in vita, si faceva strada fra i rottami, entrando nella densa colonna di fumo che avvolgeva i relitti. Purtroppo, era subito evidente che non c’era più nulla da fare, né per il Magistrato, né per gli altri colleghi della scorta, poiché i loro corpi erano tutti carbonizzati ed orrendamente mutilati25. In questo contesto, mentre le ambulanze prestavano i soccorsi ai feriti ed i Vigili del Fuoco spegnevano i focolai d’incendio, anche sulla Croma blindata del Magistrato, il poliziotto della Squadra Mobile notava quattro o cinque persone, vestite tutte uguali, in giacca e cravatta, che si aggiravano nello scenario della strage, anche nei pressi della predetta blindata: “uscii da… da ‘sta nebbia che… e subito vedevo che arrivavano tutti ‘sti… tutti chissi giacca e cravatta, tutti cu’ ‘u stesso abito, una cosa meravigliosa”, “proprio senza una goccia di sudore”. Si trattava di “gente di Roma”, appartenente ai Servizi Segreti; infatti, alcuni erano conosciuti di vista (anche se non davano alcuna confidenza) ed, inoltre, venivano notati a Palermo, presso gli uffici del Dirigente della Squadra Mobile, Arnaldo La Barbera, anche in occasione delle indagini sulla strage di Capaci26. La circostanza (mai riferita prima dal teste, nonostante le sue diverse audizioni) veniva confermata da un altro appartenente alla Polizia di Stato, vale a dire il Vice Sovrintendente Giuseppe Garofalo, in servizio alla Sezione Volanti della Questura di Palermo. Anche quest’ultimo, che arrivava sul posto ad appena cinque minuti dalla deflagrazione, dopo aver constatato che non c’era più nulla da fare per il Magistrato ed i colleghi della Polizia di Stato che gli facevano da scorta, aiutava i residenti nello stabile di via D’Amelio, soccorrendo forse anche la madre del Magistrato. Quando riscendeva in strada, il poliziotto notava, nei pressi della Croma blindata di Paolo Borsellino, un uomo in borghese, con indosso la giacca (nonostante il torrido clima estivo) e pochi capelli in testa. Alla richiesta di chiarimenti sulla sua presenza lì, l’uomo si qualificava come appartenente ai “Servizi”, mostrando anche un tesserino di riconoscimento: sebbene il ricordo del teste, sul punto specifico, non sia affatto nitido, vi era persino un veloce scambio di battute fra i due sulla borsa di Paolo Borsellino. Infatti, l’agente dei Servizi Segreti chiedeva se c’era la borsa del Magistrato dentro l’auto blindata, oppure (addirittura) si giustificava per il fatto che aveva detta borsa in mano: “Ho un contatto con una persona, ma questo contatto è immediato, velocissimo, dura pochissimo, perché evidentemente (…) il nostro intento era quello di mantenere le persone al di fuori (…) della zona e quindi non fare avvicinare a nessuno (…). E incontro (…) un soggetto, una persona, al quale… ecco, e questo è il momento, non riesco a ricordare se questo soggetto mi chiede (…) della valigia, della borsetta del dottore o se lui era in possesso della valigia. (…) Con questa persona, al quale io chiedo, evidentemente, il motivo perché si trovava su (…) quel luogo. Questo soggetto mi dice di essere… di appartenere ai Servizi” .
”
E’ veramente inspiegabile che a distanza di 31 anni dalla strage di Via D’Amelio, la magistratura non sia riuscita ad identificare gli uomini dei servizi che intervennero in via D’Amelio quel giorno e che i vertici dei servizi di sicurezza non abbiano fornito tutta la collaborazione necessaria per tale identificazione.
Si chiede pertanto che la Commissione:
- acquisisca presso la Procura della Repubblica di Caltanissetta tutta la documentazione processuale concernente l’identificazione dei suddetti agenti;
- proceda alla audizione dei vertici attuali dei Servizi e di quelli in carica nel 1992 per conoscere le ragioni per cui non sono state fornite le generalità dei predetti.
L’intervento degli uomini dei Servizi finalizzato a fare sparire un documento essenziale per le indagini (missione questa condivisa con altri esponenti delle Forze di Polizia pure alla frenetica caccia dell’agenda rossa, come risulta dalla motivazione della sentenza citata), è pressoché contemporaneo alla decisione del Procuratore della Repubblica di Caltanissetta, dott. Giovanni Tinebra, di affidare le prime indagini, in violazione di tutte le regole di legge[18], al dott. Bruno Contrada del Sisde, lo stesso soggetto che Paolo Borsellino aveva individuato come colluso con la mafia.
Decisione questa non solo in violazione delle regole, ma sconcertante alla luce di quanto è stato rivelato dal dott. Antonio Ingroia all’ epoca sostituto procuratore della Repubblica a Palermo nella audizione del 25.5.2021 dinanzi alla Commissione Parlamentare di inchiesta e vigilanza sul fenomeno della mafia e della corruzione in Sicilia.
Il dott. Ingroia ha dichiarato infatti di avere informato il dott. Tinebra il 20 o 21 luglio 1992 che Mutolo aveva confidato a Paolo Borsellino che Bruno Contrada era colluso con la mafia.
INGROIA: […] Allora, c’è questo, La Barbera che si occupa della sicurezza, che era poi nel libro paga dei Servizi segreti, che ha depistato poi le indagini su Borsellino, che era collegato a Contrada, che era stato officiato dal dottore Tinebra di svolgere le indagini, nonostante io avessi detto a Tinebra che Borsellino aveva raccontato le cose che fuori verbale Mutola aveva detto sul conto di Contrada, questo lo dissi credo o l’indomani, o il 20 o il 21 luglio, perché Tinebra chiese alla Procura generale di Palermo di mettergli, al Procuratore generale Siclari, di mettergli a disposizione un ufficio, dentro il Palazzo di Giustizia, per le indagini immediate.
Me lo ricordo ancora, questo lo ricordo molto, Tinebra in quell’accaldato mese di luglio, informale, in maniche di camicia, con perfino le maniche arrotolate, che mi accolse e mi disse “eh, so che tu sei….”
FAVA, presidente della Commissione. A Palermo?
INGROIA, già magistrato. A Palermo, il Procuratore generale di Palermo mi ha detto: “tu, so che sei uno dei più stretti collaboratori di Borsellino, avremo tempo per raccogliere a verbale le tue dichiarazioni, ma vorrei sapere intanto se ci puoi fornire elementi che possono essere utili per le prime indagini”. Mi colpì un po’ che un Procuratore della Repubblica….
FAVA, presidente della Commissione. La modalità?
INGROIA, già magistrato. Esatto, che un Procuratore di Repubblica decidesse di sentirmi a braccio, però vabbè io avevo trent’anni, quindi non è che mi impuntai col Procuratore di Caltanissetta che, apparentemente, apparentemente, era in buoni rapporti con Paolo Borsellino, almeno così Paolo mi diceva, era addirittura quasi soddisfatto quando era stato nominato Tinebra Procuratore.
FAVA, presidente della Commissione. Erano della stessa corrente?
INGROIA, già magistrato. Erano della stessa corrente, Magistratura Indipendente, esatto, per cui non avevo motivo di diffidare e per cui raccontai subito quello che mi era stato raccontato, io non l’avevo appreso, ma mi era stato raccontato da Teresa Principato e Ignazio De Franscisci, due Sostituti che erano sabato in ufficio, sabato 18 luglio, io quel giorno non ero in ufficio, al quale Paolo aveva raccontato questo incontro con Mutolo, in cui gli aveva parlato di Signorino, del dottore Signorino e del dottore Contrada, che lui aveva capito che c’erano delle pesanti collusioni.
Ne consegue che il dott. Tinebra affidò consapevolmente le indagini a un personaggio ritenuto da Borsellino inaffidabile e direttamente interessato non solo a che non venisse mai verbalizzato quanto Mutolo aveva dichiarato su di lui, ma altresì interessato che nelle indagini sulla strage non emergesse la pista che riguardava i rapporti tra la mafia ed i servizi.
Si chiede che la Commissione proceda alla audizione del dott. Antonio Ingroia su tale vicenda.
Come è noto fu proprio il Sisde a fornire le prime indicazioni sulla pista che portava a Vincenzo Scarantino, pista poi sviluppata nel 1994 dal dott. Arnaldo La Barbera, altro uomo collegato al Sisde, e, come già esposto, indicato dal collaboratore Francesco Di Carlo come uno degli uomini dei servizi segreti che in precedenza gli aveva chiesto l’appoggio di Cosa Nostra per eliminare Falcone[19].
A tutto ciò si aggiungano le ulteriori risultanze processuali sulla partecipazione alla strage di Via D’Amelio di soggetti esterni appartenenti ad apparati istituzionali.
Il 23 novembre 1993 venne rapito Giuseppe Di Matteo figlio dodicenne del collaboratore Mario Santo Di Matteo che aveva fornito alla magistratura informazioni importanti per individuare gli esecutori della strage di Capaci, e aveva dichiarato a verbale che avrebbe riferito altre importanti informazioni sulla strage di Via D’Amelio.
Il 14 dicembre ’93 Mario Santo Di Matteo ebbe una conversazione – che fu intercettata – con la moglie Franca Castellese. Nel corso di quella conversazione la Castellese tra i singhiozzi disperati ricordò al marito che avevano un altro figlio e lo implorò di non parlare ai magistrati degli infiltrati della polizia nella strage di via D’Amelio. In effetti Di Matteo non parlerà mai più di questo tema.
E’ altresì noto che il collaboratore Gaspare Spatuzza ha riferito che alle operazioni di caricamento dell’esplosivo sull’auto utilizzata per la strage del 19 luglio 1992 era presente un soggetto esterno all’organizzazione mafiosa.
I tentativi di depistaggio si sono ripetuti negli anni sino ad epoca recente.
Un tale dispiegamento di forze prima, durante, e dopo la strage (agenti dei servizi segreti, poliziotti infiltrati, poliziotti depistatori) protratto per anni ( si consideri che il depistaggio di Vincenzo Scarantino ha inizio nel 1994 due anni dopo la strage e si protrae nel tempo) implica necessariamente in via logica che gli interessi coinvolti nella strage di via D’Amelio, così come quelli coinvolto nella strage di Capace e nelle stragi del 1993, chiamavano in causa soggetti appartenenti ai ranghi elevati di apparati pubblici.
Alla luce di quanto sin qui sinteticamente esposto e con riserva di ulteriori integrazioni, si chiede:
- Che la presente memoria sia trasmessa in copia a tutti i componenti della Commissione Parlamentare affinché ne prendano cognizione prima della votazione sulla programmazione dei lavori della Commissione. E’ evidente che la complessità delle motivazioni addotte non può essere riassunta nella brevità di un intervento orale.
- Che la Commissione includa nei propri lavori non solo la ricostruzione della strage di via D’Amelio, ma anche della strage di Capaci del 23 maggio 1992, delle stragi di via Georgofili a Firenze del 27 maggio 1992, della strage di via Palestro a Milano del 27 luglio 1993, dell’autobomba in via Sabini a Roma il 2 giugno 1993, delle autobombe a San Giovanni Laterano e a San Giorgio al Velabro a Roma il 28 luglio 1993, del fallito attentato allo Stadio Olimpico a Roma il 23 gennaio 1994. Ciò sia per la estrema rilevanza dei nodi ancora irrisolti di tali stragi, sia per la loro inscindibile connessione con la strage di Via D’Amelio.
- Che la Commissione disponga le audizioni urgenti e le acquisizioni documentali sopra specificati necessari per fare luce sui gravissimi nodi a tutt’oggi irrisolti della strage di Capaci del 23 maggio 1992 e delle altre indicate nel punto precedente., che sono stati analizzati, oltre quelle pure specificate per la strage di Via D’Amelio.
Il rigetto della presente richiesta oltre che tradire i compiti e la missione istituzionale di questa Commissione Parlamentare, sarebbe un grave e inammissibile vulnus alle aspettative e al diritto alla verità storica dei familiari delle vittime delle stragi di Capaci del 23 maggio 1992, delle stragi di via Georgofili a Firenze del 27 maggio 1992, della strage di via Palestro a Milano del 27 luglio 1993, dell’autobomba in via Sabini a Roma il 2 giugno 1993, delle autobombe a San Giovanni Laterano e a San Giorgio al Velabro a Roma il 28 luglio 1993, nonché una scelta che per il suo carattere ingiustificato incrinerebbe la stessa credibilità istituzionale della Commissione, avallando l’interpretazione che per motivi politici di parte non si siano voluti svolgere approfondimenti concernenti il coinvolgimento nelle stragi sopra indicate di apparati statali e di soggetti appartenenti o comunque collegati al mondo politico.
[1] Cfr. Sentenza della Corte di Assise di Trapani depositata il 25 luglio 2015 nel processo per l’omicidio di Mauro Rostagno e, in particolare, le pagine 1204-1282 del capitolo 5.5.1.intitolato “ Le vicende del Centro Scorpione, le incongruenze emerse dall’inchiesta della Procura di Trapani e gli interrogativi della relazione BRUTTI sulla presenza di GLADIO in Sicilia. In tale capitolo la Corte evidenzia le reticenze e le incongruenze dei dirigenti di Gladio in merito all’attività del centro Scorpione di Trapani, articolazione locale di Gladio nazionale.
[2] Trascrizione integrale dell’intervista registrata da Lo Bianco Giuseppe e Rizza Sandra denominata “9) Di Carlo (trasporto di armi) e acquisita dalla Procura Generale di Palermo”
DI CARLO: c’era un’amicizia sia con Nino Salvo sia con col… colonnello che io conoscevo che erano amico di Salvo, perché i cugini Salvo erano intimi con il generale che poi è diventato politico di … di Trapani, Miceli …
LO BIANCO: Vito Miceli
DI CARLO: … e avevano tanti rapporti e tanti … un giorno mi chiamano, visto che io avevo automezzi che viaggiavano e cose, se potevo fare un favore, dice “ti rivolgiamo a te perché sappiamo che tu quando ti impegni non dici niente ai tuoi capi né niente, è una cosa extra, vicino Udine c’è da caricare casse, te lo diciamo, munizioni e tutto, che si dovrebbe scendere a Trapani, però devono essere sicuri messi e cose”, va bene ho detto, questo è un viaggio che devo fare io per forza non affidavo autista né niente ci vado io, di solito con l’autotreno ci mandavo due autisti, quello me l’ho fatto tutto io, puntamento dove dovevo chiamare, ho chiamato un numero arrivato nel Veneto, ci ho detto dove mi potevo fermare, sono venuti con un furgone e hanno portato tutto questo bene di Dio, c’era di tutto, nei cassi me l’hanno detto perché ero io non portavo … infatti ci ho detto: ma non credo ci sono detonatori che io posso saltare in aria … va beh …
LO BIANCO: ma erano armi, fucili … che cosa c’era
DI CARLO: armi, fucili e una come si chiama … di polvere …
LO BIANCO: una cassa di polvere …
DI CARLO: … cassa …
LO BIANCO: cassa di polvere
DI CARLO: ah c’era una parte di camion …
LO BIANCO: tutta piena di …
DI CARLO: va bene, ci ho detto: ci mettevo io sopra che…, siccome andavo a Santo Vito a Tagliamento, Santo Vito a Tagliamento, che è vicino Udine …
LO BIANCO: che è … in Friuli … sopra …
DI CARLO: sì sì Santo Vito a Tagliamento, ci ho detto: poi ci faccio mettere carico di mangime che era normale che (inc.) mancime, ferri perché non ce ne potevo mettere, (inc.) mancime non sapevano …
LO BIANCO: copre …
DI CARLO: … sì, non sapevano cosa c’era nelle casse …
RIZZA: mangime?
LO BIANCO: mangime per …
RIZZA: sopra?
LO BIANCO: sì
DI CARLO: sì, mangime, sacchi da cinquanta chili di mangime, ma infino a una certa altezza perciò non è ca si poteva vedere, e così è stato, c’era tanta dinamite, tanto per cosa era e fucili, mi sembra che c’erano pure bombe a mano e cose
RIZZA: un arsenale
LO BIANCO: un arsenale vero e proprio
DI CARLO: un arsenale, militari erano, perciò, che poi ho capito che mi li portava non era uno qualsiasi, va bene …
LO BIANCO: erano militari
DI CARLO: militari, erano … furgone ehh …, dove si devono portare? “quando arrivi ehhh … che scarichi il mangime verrà un furgone a prenderseli” e così è stato, perché si preparavano … perché avevano intenzione di fare il colpo di stato tutti i generali che erano nella … con … (inc.)
LO BIANCO: che periodo siamo?
DI CARLO: siamo a fine … fine anni settanta
LO BIANCO: fine anni settanta
RIZZA: TORA TORA? No, settantanove no? il golpe Borghese
LO BIANCO: noooo golpe Borghese e TORA TORA settanta
RIZZA: settantanove qual è l’altro?
LO BIANCO: settantanove
DI CARLO: fine settantanove, ma se …
LO BIANCO: fine settantanove / ottanta
[3] ONORATO FRANCESCO 28 GENNAIO 2014
A.D.R : Ho iniziato a collaborare con la giustizia nel 1996 fino a quel momento ero componente del Mandamento di San Lorenzo guidato da Salvatore Biondino. Ero reggente della famiglia di Partanna- Mondello. Ero reggente dal 1987 e lo sono stato lino al 1993, epoca in cui sono stato arrestato per l’omicidio Lima, come mandante.
[….]
ADR : I Madonia avevano rapporti con i Servizi. In Cosa Nostra il fatto era notorio. Non mi riferisco solo ai rapporti con Contrada. Negli anni 70′ Ciccio Madonia aveva messo le bombe per conto dei servizi. Questo si diceva e questo vi dico. In particolare erano Biondino, Saro Riccobono e Micalizi. Circa i rapporti tra Cosa Nostra e ambienti della destra eversiva, posso dirvi che – come ho già dichiarato – Salvatore Biondino, mi chiese intorno al 1990, di uccidere un certo Volo che aveva una Villa a Mondello. Mi spiegò che Volo aveva fatto degli sgarbi, aveva avuto a che dire con il noto estremista Concutelli. Mi chiedete perché mai Biondino doveva prendere le parti di Concutelli fino al punto di uccidere uno con cui Concutelli ce l’aveva. Non so darvi una risposta.
Il 28 aprile 2015, poi, nel processo c.d. CAPACI BIS, ONORATO ha riferito:
Che VOLO doveva essere eliminato perché come gli disse BIONDINO che lo aveva “incaricato”, “era un cornuto estremista” ed “aveva le mani in pasta in alcune situazioni” (pag. 206).
[4] Si trascrivono qui di seguito i principali capi di imputazione:
Filippone Rocco Santo e Graviano Giuseppe
- A) del delitto di cui agli artt.81, comma 2, 110, 56, 575, 577, comma 1, 3, c.p., 7 L. 12 luglio 1991, n. 203 e 1 L. 6 febbraio 1980, n. 15 per avere, quali mandanti ed istigatori dell’altrui volontà criminosa, in concorso fra loro e con Calabrò Giuseppe, Villani Consolato (entrambi già condannati in via definitiva quali materiali esecutori di tali fatti) e Lo Giudice Demetrio detto Mimmo, deceduto, compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco a cagionare la morte dei militari dell’Arma Pasqua Vincenzo e Ricciardo Silvio, nei cui confronti esplodevano almeno due raffiche di colpi d’arma da fuoco utilizzando un mitra M12, attingendo i predetti e l’autovettura a loro in uso, senza che l’evento morte si compisse per cause indipendenti dalla loro volontà, ovvero anche per la reazione del Ricciardo che rispondeva al fuoco esplodendo con la propria arma di ordinanza alcuni colpi d’arma da fuoco.
Fatto aggravato:
1) dalla premeditazione ravvisabile nella ferma risoluzione criminosa dei predetti consistita nell’aver pianificato le predette azioni delittuose nell’ambito di un più ampio disegno criminoso di matrice stragista ideato, voluto ed attuato dai soggetti di vertice delle organizzazioni di tipo mafioso denominate Cosa Nostra e ‘‘Ndrangheta;
2) dalla finalità di terrorismo e di eversione dell’ordinamento democratico;
3) dalla finalità di agevolare le attività delle organizzazioni di tipo mafioso denominate Cosa Nostra e ‘‘Ndrangheta che intendevano costringere lo Stato Italiano, tra gli ulteriori scopi in corso di compiuta individuazione, a rendere meno rigorose sia la legislazione che, più in generale, le misure antimafia.
Fatti commessi in Reggio Calabria, loc. Saracinello nella notte tra il giorno 1 ed il giorno 2 dicembre 1993.
[…]
FILIPPONE Rocco Santo e GRAVIANO Giuseppe
- E) del delitto di cui agli artt. 81, comma 2, 110, 575, 577, comma 1, 3, c.p., 7 L. 12 luglio 1991, n. 203 e 1 L. 6 febbraio 1980, n. 15 per avere, quali mandati ed istigatori dell’altrui volontà criminosa, in concorso fra loro e con Calabrò Giuseppe, Villani Consolato (entrambi già condannati in via definitiva quali materiali esecutori di tali fatti) e Lo Giudice Demetrio detto Mimmo, deceduto, cagionato la morte dei militari dell’Arma dei Carabinieri Fava Antonino e Garofalo Giuseppe, nei cui confronti esplodevano almeno tre raffiche di colpi d’arma da fuoco utilizzando un mitra M12, raffiche che attingevano i predetti militari in parti vitali e danneggiavano l’autovettura a loro in uso.
Fatto aggravato:
1) dalla premeditazione ravvisabile nella ferma risoluzione criminosa dei predetti consistita nell’aver pianificato le predette azioni delittuose nell’ambito di un più ampio disegno criminoso di matrice stragista ideato, voluto ed attuato dai soggetti di vertice delle organizzazioni di tipo mafioso denominate Cosa Nostra e ‘‘Ndrangheta;
2) dalla finalità di terrorismo e di eversione dell’ordinamento democratico;
3) dalla finalità di agevolare le attività delle organizzazioni di tipo mafioso denominate Cosa Nostra e ‘‘Ndrangheta che intendevano costringere lo Stato Italiano, tra gli ulteriori scopi in corso di compiuta individuazione, a rendere meno rigorose sia la legislazione che, più in generale, le misure antimafia.
Fatti commessi sull’autostrada SA-RC, all’altezza di Scilla, il 18.1.1994.
[…]
FILIPPONE Rocco Santo e GRAVIANO Giuseppe
- L) del delitto di cui agli artt.81, comma 2, 110, 56, 575, 577, comma 1, 3, c.p., 7 L. 12 luglio 1991, n. 203 e 1 L. 6 febbraio 1980, n. 15 per avere, quali mandati ed istigatori dell’altrui volontà criminosa, in concorso fra loro e con Calabrò Giuseppe, Villani Consolato (entrambi già condannati in via definitiva quali materiali esecutori di tali fatti) e Lo Giudice Demetrio detto Mimmo, deceduto, compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco a cagionare la morte dei militari dell’Arma dei Carabinieri Bartolomeo Musicò e Salvatore Serra, nei cui confronti esplodevano numerosi colpi utilizzando un mitra M12 ed un fucile cal. 12, che attingevano tanto il Serra che il Musicò in parti vitali senza che l’evento morte si compisse per cause indipendenti dalla loro volontà, ovvero anche per la reazione del Serra che si sottraeva ai colpi rispondendo al fuoco con la propria arma di ordinanza.
Fatto aggravato:
1) dalla premeditazione ravvisabile nella ferma risoluzione criminosa dei predetti consistita nell’aver pianificato le predette azioni delittuose nell’ambito di un più ampio disegno criminoso di matrice stragista ideato, voluto ed attuato dai soggetti di vertice delle organizzazioni di tipo mafioso denominate Cosa Nostra e ‘‘Ndrangheta;
2) dalla finalità di terrorismo e di eversione dell’ordinamento democratico;
3) dalla finalità di agevolare le attività delle organizzazioni di tipo mafioso denominate Cosa Nostra e ‘‘Ndrangheta che intendevano costringere lo Stato Italiano, tra gli ulteriori scopi in corso di compiuta individuazione, a rendere meno rigorose sia la legislazione che, più in generale, le misure antimafia.
Fatti commessi in Reggio Calabria, loc. Saracinello il 1.2.1994.
[…]
FILIPPONE Rocco Santo
- O) del delitto p. e p. dall’art. 416bis, comma 1, 2, 3, 4, 5 ed 8, c.p. perché, rivestendo i ruoli di seguito meglio specificati, fanno stabilmente parte, unitamente ad ulteriori soggetti in corso di compiuta identificazione, della struttura organizzativa visibile dell’associazione di tipo mafioso ed armata – per avere la immediata disponibilità, per il conseguimento delle finalità dell’associazione, di armi e materie esplodenti anche occultate, tenute in luogo di deposito o legalmente detenute – denominata ‘‘Ndrangheta, presente ed operante sul territorio della provincia di Reggio Calabria, sul territorio nazionale ed all’estero, costituita da numerosi locali, articolata in tre mandamenti, con organo di vertice collegiale denominato “Provincia”, ed in particolare delle sue apicali articolazioni territoriali denominate cosca FILIPPONE, direttamente collegata alla più ampia cosca PIROMALLI, operante in prevalenza nel locale di Melicucco (RC), della cui forza di intimidazione, derivante dal vincolo associativo, e della rilevante condizione di assoggettamento e di omertà che deriva dall’esistenza ed operatività della organizzazione criminale prima indicata si avvalgono per:
commettere una serie indeterminata di delitti, tra i quali numerosi posti in essere contro la persona e l’amministrazione della giustizia;
realizzare profitti o vantaggi ingiusti per i sodali, per i concorrenti esterni, per i contigui o per altri;
all’interno della predetta articolazione territoriale si individuano i seguenti ruoli qualificati:
FILIPPONE Rocco Santo
che risponde dell’ipotesi delittuosa di cui all’art. 416bis, comma 2, c.p., quale dirigente della articolazione territoriale dell’associazione di tipo mafioso ed armata indicata in premessa, svolge compiti di particolare rilievo tra i quali:
- quello di gestire la struttura associativa riferibile al locale di Melicucco (RC), in ossequio delle direttive riferibili al più ampio contesto mandamentale e provinciale;
- incontrare i capi delle altre famiglie di ‘‘Ndrangheta per dare esecuzione alle decisioni di maggior rilievo criminale, deliberate dalla componente riservata della predetta organizzazione di tipo mafioso, tra le quali quelle di aderire alla strategia stragista di attacco alle istituzioni dello Stato, attuata in Calabria in sinergia con Cosa Nostra mediante la consumazione degli omicidi e tentati omicidi già indicati, materialmente eseguiti da CALABRO’ Giuseppe e VILLANI Consolato;
- affrontare e risolvere le varie problematiche operative e gestionali che riguardano la più ampia organizzazione di appartenenza;
[5] “In questo capitolo verranno analizzate alcune risultanze istruttorie, la cui acquisizione ha impegnato numerose udienze di questo dibattimento, riguardanti la c.d. “ Falange Armata”, sigla “da sempre collegata ad una formazione militare con una valenza ideologica di destra” con cui si sono rivendicate stragi, delitti ed altri gravi attentati commessi fra il 1990 ed il 1994 organizzati e materialmente eseguiti probabilmente da più gruppi di soggetti di diversa estrazione che la utilizzavano per raggiungere proprie finalità di natura politica e di destabilizzazione.
Saranno esaminati sinteticamente i principali fatti criminosi in relazione ai quali vi sono state rivendicazioni ad opera della Falange Armata (omicidio Umberto Mormile, omicidio Antonino Scopelliti, e stragi continentali), tra cui anche quelli oggetto del presente processo.
Di seguito, si riassumeranno le dichiarazioni di quei collaboratori di giustizia che hanno fatto riferimento espresso all’utilizzo di tale sigla da parte dalle organizzazioni criminali, che non sono solite abitualmente rivendicare i loro delitti, e sulle ragioni quindi che hanno portato a tale scelta, dagli stessi collaboratori indicata nel rafforzamento della minaccia contro lo Stato.
Si darà, quindi, spazio alle testimonianze dell’ambasciatore italiano all’ O.N.U Francesco Paolo Fulci, Segretario del C.E.S.I.S. tra il 1991 ed il 1993, le cui dichiarazioni in ordine ai collegamenti tra la Falange Armata con la struttura GLADIO sono state esaminate anche nella sentenza ordinanza n.18/2001 di rinvio a giudizio della Corte d’assise di Bologna emessa nel c.d. processo Italicus bis, acquisita in atti.
Si tratta di un documento giudiziario di grande valore in quanto contiene una lucida ricostruzione dei lineamenti essenziali della “strategia delle stragi o stragismo” che ha preso avvio con la strage di Piazza Fontana a Milano (12 dicembre 1969), di Gioia Tauro (1970), di Piazza della Loggia a Brescia e del Treno Italicus (1974) e infine la strage della stazione di Bologna del 1980.
In particolare, dall’indagine Italicus Bis sono emersi significativi elementi di continuità nello stragismo, in primis la comune ed accertata origine in ambienti in cui convivono Servizi Segreti, logge massoniche e organizzazioni criminali al loro servizio: un clichè che –come emerge da questo processo- si è riproposto nei primi anni ’90, quando prese avvio la strategia stragista di Cosa Nostra. “
[6] Con riferimento al luogo in cui era avvenuto l’ultimo incontro il teste Zannino sentito all’udienza del 22 ottobre 2018 ha affermato che il senatore Ludovico Corrao viveva effettivamente in una villa che si trova sulla strada che portava da Alcamo sul monte Bonifacio e che il predetto viveva assistito da un badante filippino che lo aveva ucciso in data 7 agosto 2011. Inoltre ha affermato che in prossimità di tale villa vi sono delle stradine da cui sarebbe stato possibile effettuare l’appostamento.
[7] V. Informativa della D.I.A del 4 marzo 1994 prodotta dal Pubblico Ministero
[8] Tra gli altri in quel processo è stato sentito come testimone Giuliano di Bernardo Luigi Di Bernardo gran maestro del Grande Oriente d’Italia dal marzo del 1990 fino all’aprile del 1993.
Il predetto, sentito all’udienza dell’11-1-2019 del processo ndrangheta stragista ha dichiarato di avere appreso dell’esistenza di infiltrazioni della ‘‘Ndrangheta nella massoneria dall’allora Procuratore della Repubblica di Palmi Agostino Cordova il quale aveva richiesto gli elenchi di tutti i massoni d’Italia del Grande Oriente poiché sospettava che tale organizzazione stesse occupando le regioni del nord attraverso il canale della massoneria.
Il teste ha riferito di avere collaborato all’indagine fornendo documenti importanti ma in seguito l’inchiesta, che si era avviata nella direzione giusta, era stata trasferita a Roma e il Procuratore era stato trasferito ad altro ufficio giudiziario.
Egli si era rivolto quindi a uno dei suoi due vice, Ettore Loizzo di Cosenza, che era il più importante rappresentante della massoneria calabrese e gli aveva chiesto la verità al riguardo (“DICH. DI BERNARDO-Ettore, tu adesso mi devi dire la verità. Se mi dici la verità, io posso cercare, ecco, di parare i colpi; ma se li ignoro, ecco, io mi muovo al buio”). Il Loizzo gli aveva risposto “La verità è che ventotto delle trentadue logge calabresi sono controllate dalla ‘‘Ndrangheta” e che, pur sapendo tutto ciò, non aveva potuto fare niente in quanto avrebbe messo in pericolo la propria vita e quella della propria famiglia. Poiché quindi il Loizzo aveva detto che non era sua intenzione fare alcunchè, Di Bernardo aveva deciso di lasciare il posto di Gran Maestro nella primavera del 1993, ma prima aveva chiesto la convocazione straordinaria della giunta, organo di governo del Grande Oriente d’Italia, e la partecipazione dei vertici calabresi.
Nel momento in cui aveva deciso di lasciare il Grande Oriente, egli si era recato a Londra per informare i vertici della massoneria inglese che avevano comunicato di essere già a conoscenza del problema.
Su loro consiglio in soli sei mesi dopo e cioè l’8 settembre del 1993 la Gran Loggia Unita di Inghilterra aveva ritirato il riconoscimento al Grande Oriente d’Italia, ottenuto nel 1972, e il successivo 8 dicembre era stato conferito alla Gran Loggia Regolare d’Italia. In sostanza, il Grande Oriente era rimasto nella massoneria ma aveva perso la sua base internazionale di regolarità.
Indizi di infiltrazione analoghi a quelli accertati in Calabria erano stati riscontrati anche in Sicilia ed un segnale preciso vi era stato con l’arresto del sindaco di Castelvetrano per suoi coinvolgimenti con la mafia. In quel periodo l’elemento di spicco della massoneria in Sicilia era l’avvocato Massimo Maggiore di Palermo, che era ai vertici del Grande Oriente siciliano.
Il teste ha riferito che il Maggiore lo aveva informato, nel corso di una sua visita in Sicilia, che sarebbe stato opportuno rifiutare l’invito a visitare le logge che era stato a lui rivolto da un noto avvocato del trapanese, che rivestiva il ruolo di presidente del Collegio circoscrizionale, perché in quella zona tutte le logge del GOI erano state occupate da mafia (<<DICH. DI BERNARDO-Se il presidente circoscrizionale della Sicilia ti invita a visitare le logge, rifiuta”…Mi diceva Maggiore. E io dissi: “Ma per quale motivo dovrei rifiutare l’invito poi del numero uno in Sicilia?”. E mi disse: “Perché quella zona, tutte le nostre logge lì sono state occupate dalla mafia”. Questo è Campobello di Mazara”>>). Egli gli aveva chiesto come fosse accaduto tutto ciò e il Maggiore gli aveva risposto che non era stato possibile evitarlo (“DICH. DI BERNARDO-E io gli dissi: “Ma Massimo”, cioè, lo stesso discorso che io avevo fatto a Loizzo, “ma, tu che sei il numero uno, come hai potuto permettere, ecco, addirittura che venisse eletto presidente del collegio circoscrizionale della Sicilia, una persona, che non è detto che sia della mafia, però è espressione di quella zona, che tu dichiari essere completamente sotto il controllo della mafia?”. E lui fece più o meno lo stesso discorso: “Non l’abbiamo potuto evitare”).
Tutto ciò lo aveva indotto a pensare che le regole che dovevano sovraintendere la massoneria erano state disapplicate per lasciare il posto a logiche di potere (“DICH. DI BERNARDO-Io, in questo modo, cominciavo a capire che i vertici che avrebbero dovuto applicare i princìpi e le regole della massoneria nei loro territori, in realtà erano state subordinate ad altro potere”).
Ha ribadito che la situazione calabrese era molto più preoccupante di quella siciliana “in quanto la massoneria calabrese era ben più ramificata e potente di quella siciliana” mentre nella massoneria siciliana non vi era “ un punto di vista unitario” ed “era frastagliata e ogni parte aveva il suo centro di potere”.
In Calabria invece vi era una “una mente che regolava” a prescindere da tutti i contrasti che esistevano tra le obbedienze massoniche di quel territorio, come se esistesse “un filo conduttore”.
Riguardo ai movimenti politici separatisti che si stavano diffondendo in quegli anni in tutto il territorio nazionale, ha riferito di avere appreso dal suo segretario personale Luigi Savina che i massoni calabresi sostenevano tali movimenti e cercavano di coinvolgere anche il Grande Oriente.
Reggio Calabria era “il centro propulsore” di tali movimenti separatisti e tutto ciò che riguardava le massonerie si concentrava su tale città.
Di Bernardo aveva avversato tali richieste di coinvolgimento, che venivano filtrate da Savina, rispondendo negativamente alle stesse.
Riguardo al collegamento tra la massoneria, il crimine organizzato e i movimenti separatisti ha riferito di essersi fatto l’idea che vi fosse un’unica regia (“DICH. DI BERNARDO-….l’idea che io mi ero fatto è che tutto sommato fosse tutto all’interno dello stesso contesto, sia pure con separazioni interne. Però io ritengo… l’idea che mi ero fatto era proprio questo, cioè che lì c’era “qualcuno che tirava le file all’interno di contesti diversi insieme”) e che quindi tale stagione fosse maturata anche a contatto con ambienti massonici. Di tutto ciò era stato informato anche il Duca di Kent al quale era stato esposto un quadro complessivo della situazione che riguardava anche la stagione delle stragi.
Tra i soggetti appartenenti ad organizzazioni mafiose che facevano parte anche della massoneria ha indicato il sindaco di Castelvetrano ed ha riferito di avere sentito parlare di Gioacchino Pennino di Palermo “personaggio massone che avrebbe potuto fare il bene della massoneria”, poi divenuto collaboratore di giustizia e di tale Mandalari che era un personaggio importante.
Ha spiegato che ciò che accomuna l’appartenenza massonica e quella mafiosa consiste nel rituale, pur con terminologie differenti (“DICH. DI BERNARDO-Ecco, cioè, io penso che il punto di giuntura sia nel rituale. Cioè, il rituale usato in massoneria, e il rituale usato nella ‘‘Ndrangheta, hanno, anche sia pure con terminologie completamente diverse, una base in comune. Cioè, entrare in massoneria si usa un rituale; entrare nella ‘‘Ndrangheta si usa un rituale, eh, che però hanno lo stesso significato, quello di vincolarti al segreto una volta che tu sei dentro, ecco”) e che si tratta di strutture molto simili dal punto di vista del rituale, cosa che in Calabria aveva facilitato la “compenetrazione tra la ‘‘Ndrangheta e la massoneria”.
Ha aggiunto che dopo la seconda guerra mondiale in Italia la massoneria è rinata “su una base completamente diversa” e in questa trasformazione era nato il contatto con le organizzazioni.
Con riferimento ai contatti tra la massoneria, la loggia P2 e Licio Gelli ha riferito che quest’ultimo era stato “inventato dalla CIA, dagli americani….perché il governo americano aveva perso fiducia in Moro e Andreotti, e quindi cominciava a temere che in Italia ci potesse essere il sorpasso comunista”.
Per evitare l’ascesa del comunismo in Italia gli americani erano intervenuti tramite Gigliotti, che aveva rifondato la massoneria in Italia ed aveva favorito lo sbarco degli americani in Sicilia chiedendo aiuto alla mafia. Gigliotti aveva indicato Gelli come il “salvatore dell’Italia”.
Da quel momento Gelli era diventato il referente unico ed esclusivo del governo americano, per evitare che in Italia avvenisse il sorpasso dei comunisti. Per tale motivo Gelli aveva ricevuto “montagne di dollari…ma soprattutto il governo americano la CIA, l’FBI, questi… hanno messo all’obbedienza di Gelli i vertici italiani: i vertici economici, i vertici militari e i vertici della magistratura…”. Da ciò era derivato il fatto che Gelli l’improvviso, si era ritrovato “un potere come penso nessun altro abbia mai avuto in Italia”.
Una conferma di quanto riferito dal Di Bernardo si trae dalle dichiarazioni rese da Gioacchino Pennino, soggetto legato alla massoneria e uomo d’onore della famiglia di Brancaccio, il quale nel verbale del 25-2-2014 acquisito agli atti ai sensi dell’art. 512 c.p.p. ha dichiarato che il Di Bernardo aveva deciso di abbandonare il vertice del Grande Oriente d’Italia in quanto aveva compreso che all’interno vi erano soggetti appartenenti ad organizzazioni criminali:
ADR. In effetti il De Bernardo, che era stato al vertice del Grande Oriente d’Italia, a seguito delle sue dimissioni – cui seguì la creazione della Grande Loggia Regolare d’Italia – come appresi da Lisotta, Giuseppe Ciaccio ( uomo d’onore e massone) e Schifaudo, disse che non poteva capeggiare una organizzazione al cui interno vi erano soggetti che organizzavano – con le organizzazioni criminali – attentati contro lo Stato. Cosa che aveva compreso svolgendo il suo ruolo. Ciò avvenne nel 1993. Sempre i predetti e forse anche altri, mi dissero che il De Bernardo disse tali circostanze anche al vertice della Grande Loggia d’Inghilterra a cui era affiliato il Grande Oriente d’Italia. All’epoca era il Duca di Kent il vertice inglese della Grande Loggia d’Inghilterra. Proprio per questo la Grande Loggia d’Inghilterra non riconobbe più il Grande Oriente d’Italia….omissis”).
Sia De Bernardo che Pennino hanno quindi riferito in maniera sostanzialmente convergente in ordine ai rapporti fra massoneria e le organizzazioni criminali ed in special modo la ‘‘Ndrangheta, sul sospetto che insieme avessero partecipato ai progetti stragisti e sul ruolo avuto dal Duca di Kent, elemento di vertice della Massoneria inglese.
[9] Cfr. nota D.I.A. n. 7545 dell’1/10/1996 e relativi allegati (vol. 25).
[10] Nell’informativa D.I.A. n. 3815/98 del 31/1/1998, sul conto di Menicacci, si riportano le dichiarazioni del collaboratore di giustizia messinese Costa Gaetano che chiamano in causa lo studio dell’avv. Menicacci in un tentativo di “aggiustamento” di un processo per il quale si era interessato il mafioso calabrese Giuseppe Piromalli. E si riferisce di contatti fra il mafioso Luigi Sparacio, durante la sua latitanza, e utenze telefoniche di personaggi vicini a Menicacci e Stefano Delle Chiaie. Nella stessa informativa D.I.A. si fa riferimento anche ai rapporti fra l’avv. Menicacci e Paolo Bellini, personaggio proveniente dalla destra eversiva, coinvolto nelle indagini sulla strage di Bologna e nel ’92 in contatto con il mafioso Nino Gioè nell’ambito di una delle c.d. “trattative” che Cosa Nostra avviò durante la stagione stragista, in questo caso utilizzando cercando di utilizzare i contatti che Bellini aveva con i Carabinieri (cfr., in merito, la ricostruzione della vicenda contenuta nella sentenza della Corte d’Assise di Firenze sulle stragi del ’93).
[11] Della Lega Lombarda, accusata di razzismo nei confronti dei meridionali, venne chiesto lo scioglimento.
Cfr. informativa D.I.A. n. 3815/98 del 31/1/1998.
[13] Si noti che Elio Ciolini, nel suo interrogatorio al P.M. di Palermo del 10.4.1992, attribuì un ruolo importante a Catania nella strategia della tensione del ’92, addirittura dichiarando che in quella città si poteva individuare la matrice dell’omicidio Lima.
[14] La circostanza è stata confermata anche da Angelo Siino che partecipò ad un pranzo con Licio Gelli in Sicilia nel corso del quale Gelli espresse tali opinioni contrarie al progetto di Sindona (cfr. deposizione di Siino al processo Andreotti in data 17/12/1997).
[15] In argomento cfr., in atti, la relazione di consulenza tecnica della dott.ssa Amendola, anche per una ricognizione degli atti delle varie Commissioni parlamentari d’inchiesta che si sono occupate di Licio Gelli e dei suoi rapporti con ambienti siciliani e della criminalità organizzata.
[16] Cfr. nota D.I.A. del 4/5/1998. Le camere erano, per di più, sullo stesso piano.
[17] Al riguardo DI CARLO Francesco ha reso dichiarazioni particolareggiate all’udienza 30 gennaio 2014 del procedimento penale N. 01/13 R.G. a carico di BAGARELLA LEOLUCA BIAGIO+ALTRI.
Nel 1988 egli si trovava detenuto in un carcere inglese per espiare una condanna per traffico di stupefacenti. Verso la fine del 1988 erano andato ad interrogarlo in quel carcere Giovanni FALCONE, accompagnato dai dotti NATOLI e GIAMMANCO.
Poco tempo dopo si erano recati da lui i dottori AYALA e DI LELLO. In questa seconda occasione AYALA gli aveva detto che insieme a loro era venuto un importante funzionario di Polizia, che però egli non aveva visto. Aveva chiesto notizie su questa persona ad altri due detenuti DI PRIMA e LUCIANI, i quali erano stati pure interrogati dai predetti magistrati e che gli avevano confermato di avere visto questo funzionario di Polizia. Nei primi mesi del 1989, comunque prima dell’attentato all’ADDAURA, erano andati a trovarlo nel carcere inglese tre persone. Una di queste di nome Giovanni si era presentato come amico di Mario FERRARO, uomo del generale Giuseppe SANTOVITO, capo del SISMI che egli aveva frequentato negli anni precedenti in Italia. Giovanni gli aveva presentato gli altri due. Uno era italiano, ed egli non ne percepì il cognome. Gli disse che faceva il suo stesso lavoro, cioè era un uomo dei servizi segreti, anche se non gli specificò se dei servizi segreti miliari come il FERRARO e il SANTOVITO, oppure se dei servizi segreti civili.
Il terzo di nome “Nigel” era dei servizi segreti inglesi. Giovanni gli spiegò che avevano bisogno di stabilire un contatto con i corleonesi per attuare un piano consistente nel delegittimare Giovanni FALCONE, per costringerlo ad andare via da Palermo (L’intenzione era solo perché parlando politicamente, parlando di quello che stava succedendo, di mandare via Falcone da Palermo, annullarlo proprio).
Il motivo era che FALCONE voleva mettere tutti sotto processo, lavorava con un gruppo ristretto e sembrava che voleva fare Mussolini. Politici e uomini dello Stato erano preoccupati (Stava per la Procura Nazionale, erano politici, uomini dello Stato che erano tutti preoccupati che cosa poteva succedere. Ne dicevano di tutti i colori, sembrava che doveva fare Mussolini niente, Hitler, che poteva indagare su tutti e mettere tutti sotto processo, erano preoccupati. Non sapevano più niente, perché aveva un gruppo ristretto che lavorava per Giovanni Falcone, il dottore Giovanni Falcone. E queste, queste erano le lamentele che parlava con me. Era solo cercare di mandarlo fuori).
DI CARLO spiega che gli uomini dei servizi erano consapevoli che per pianificare un attentato contro FALCONE a Palermo, dovevano avere le spalle coperte con Cosa Nostra, su cui sarebbero ricadute le conseguenze e che non poteva tollerare che azioni di quel genere venissero eseguite nel territorio, a sua insaputa (E se noi altri dobbiamo fare qualche cosa in Sicilia, dobbiamo avere le spalle coperte. Ricordiamoci che in Sicilia, fino a me non arrestavano tutti e finché non succedeva… Centimetro per centimetro era controllato, qualsiasi cosa avveniva o se mettevano una bomba, dico, glielo dico quando ci sono state le bombe del 70, dovevamo saperlo tutto, e se lo faceva un poliziotto o lo faceva chiunque sia, si indagava fino a che si sapeva e moriva).
Lui aveva quindi indirizzato gli uomini dei servizi da IGNAZIO SALVO e da Salvo LIMA, i quali entrambi avevano studi in Roma.
Tempo dopo aveva visto in un giornale, una foto di Arnaldo LA BARBERA e lo aveva riconosciuto come l’altro italiano dei servizi segreti che nei primi mesi del 1989 era andato a trovarlo nel carcere inglese insieme a Giovanni e a Nigel.
Aveva chiesto al detenuto DI PRIMA se era LA BARBERA la persona che nei mesi precedenti aveva accompagnato AYALA e DI LELLO quando essi lo avevano interrogato, ricevendo conferma.
Dichiarazioni di Francesco DI CARLO su Arnaldo LA BARBERA all’udienza 30 gennaio 2014 del procedimento penale N. 01/13 R.G. a carico di: BAGARELLA LEOLUCA BIAGIO+ALTRI ( c.d. Trattativa):
DICH. DI CARLO : – Allora, io ho avuto prima, per cominciare dall’inizio, un interrogatorio del dottore Falcone, Natoli e il Procuratore si chiamava Giammanco, sì, Giammanco. Sono venuti, non so se era fine di ottobre 88. Se sbaglio mese, non mi richiamate perché sono tanti anni.
[..]
C’è stato l’interrogatorio, un buon rapporto perché… Ho offerto il caffè italiano. Prima aveva detto no, dice no, qua fanno… Ci ho detto: io gli do quello italiano proprio. Avevo la caffettiera, ci ho fatto il caffè, qualche battuta di scherzo, ci siamo salutati con il dottor Falcone, mi ha detto che era a disposizione quando io avevo intenzione di ritornare in Italia. Ha avuto parole buone, perché mi ha detto lei ci entra marginalmente in tutta questa cosa dei container che erano indirizzati in Canadà e cose.
[..]
Per un condannato, quando arriva un Magistrato e dice queste buone cose, uno apprezza veramente. Poi chi l’ha conosciuto il dottore Falcone, era così, diretto. Ma dopo che sono partiti loro, non so se sono passati un po’ di mesi, viene il dottore Di Lello con il dottore Aiala per un interrogatorio, non so, di altre cose avevo… Siamo stati… Naturalmente a quei tempi io non rispondevo, nel senso… Però dovevano fare il verbale che erano venuti, però un caffè passa l’altro e sempre qualche ora passa. Il dottore Aiala, che io lo conoscevo sia perché veniva al Castello, era giovane, veniva a ballare. Ancora forse non era a Palermo come Magistrato, non so se era Pretore. E anche quando a parte tutto lo conoscevo pure bene perché era sposato con una nobile che era un po’ parente del mio amico Sanvincenzo. Parlando così, erano stati due giorni prima, perché erano venuti per tre giorni, in due coimputati, in due carceri differenti, due imputati che erano incensurati. Di origine italiana, ma non avevano… Non li conosceva nessuno. E poi vengono da me. Aiala, non so come ci scappa la parola, mi dice: ci aveva accompagnato… Non so se ha detto il nome, perché io a quei tempi non conoscevo nemmeno il nome, m’ha accompagnato, dice, un grosso funzionario della Polizia, dice è rimasto fuori, non so perché. Ci dissi: poteva entrare, qua me ne vengono a trovare tanti, anche quelli che indagavano sul caso Calvi, là. Così è finita là. Io mi scrivevo sempre con i miei coimputati da un carcere all’altro, è qua che chiamo carcere, perché chiamavo università, da una università all’altra. E quello mi scrive: sì, sono venuti, così, così, c’era uno (PAROLA INCOMPRENSIBILE) di Polizia. Perché parlano un po’ di siciliano dei genitori, ma di più inglese. Sì, dice, sono venuti, così, così, e c’era pure uno (PAROLA INCOMPRENSIBILE) di Polizia.
- M. DI MATTEO : – Si ricorda il nome di questi due
codetenuti? Poi lo ha saputo, lo ha ricordato, lo ha appreso?
DICH. DI CARLO : – Sì, uno si chiama Di Prima mi sembra, e uno Luciano.
- M. DI MATTEO : – Erano detenuti in Inghilterra o nello stesso carcere?
DICH. DI CARLO : – No, no, in differenti carceri in Inghilterra.
- M. DI MATTEO : – Differente carcere. Di Prima e l’altro, mi scusi?
DICH. DI CARLO : – Luciani.
- M. DI MATTEO : – Luciani, grazie. Continui il racconto.
DICH. DI CARLO : – È finito là e mi dicono che c’era questo (PAROLA INCOMPRENSIBILE) di Polizia. Nemmeno passano non so quanti giorni o mesi o settimane, signor Presidente mi dicono, mi avvisano: Francè, ci sono tre amici tuoi. Era normale tre amici miei, perché là si può entrare, non devono essere i familiari, mi venivano a trovare tanta gente che conoscevo. Attraverso il corridoio e vado nelle stanze dove uno riceveva visite, le chiamano visite, colloqui, come li vogliamo chiamare. E trovo tre persone. Saluto con allegria, buongiorno, buongiorno, good morning, good morning, non sapendo se erano italiani o erano inglesi. E ho detto: mi hanno detto che avevo tre amici, ma non ho il piacere di conoscere. Dice: sì, veramente non ci conosciamo e ci conosciamo. Uno di questi, che poi mi dice che si chiama Giovanni, che abbiamo avuto più rapporti, mi chiama a parte e mi dice: io ti porto i saluti di Mario. Chi era Mario? Mario era uno dell’esercito, quando l’ho conosciuto io mi sembra che era Capitano o Maggiore, cosa era, era intimo con Peppino Santovito.
G / T: – Ma è il Mario di cui lei ha già parlato stamattina o un altro personaggio? A chi si riferisce?
DICH. DI CARLO : – Ma Mario, stamattina è stato di Mario…
G / T: – Quindi non era quello…
DICH. DI CARLO : – Sì, sì, sì, quello, forse l’ho
accennato.
- M. DI MATTEO : – Ferraro o Ferrara?
G / T: – Dica il cognome, a lei ha detto anche il cognome.
DICH. DI CARLO : – Sì, Mario. A quei tempi io so Mario, va bene?
G / T: – Comunque lei si riferisce a quello che poi ha indicato come Ferraro o Ferrara, in sostanza.
DICH. DI CARLO : – Sì. Mi tira da parte e mi dice: ti saluta Mario, perché ti vedo che non ti vuoi sbottonare: Dice: guarda che… Va bè, come sta Mario? Ci chiedo io. Dice: lui è sempre in giro per il mondo, visto il lavoro che faceva. E allora avvicinava a quelli, mi presenta… Non arrivo a capire il nome, se me l’ha detto non lo so, l’altro era inglese, (PAROLA INCOMPRENSIBILE), l’ho capito che era inglese. L’altro non l’avevo capito bene. Comunque siamo là, non parlava quasi mai, ascoltava. E lui mi presenta il discorso che aveva. Ci ho detto: dimmi. Non siamo venuti per sapere qualcosa di dove tu puoi appartenere, perché già Cosa Nostra è nelle orecchie, perché c’erano collaborazioni di tanti gente.
- M. DI MATTEO : – Mi scusi, chi parla? Mario o l’altra persona?
G / T: – Mario non c’era, da quello che abbiamo capito…
DICH. DI CARLO : – No, i saluti mi porta.
G / T: – Semmai lei…
- M. DI MATTEO : – L’emissario di Mario o l’altra persona?
Chi parla? Lui ha detto, lui, lui mi dice…
DICH. DI CARLO : – Giovanni.
G / T: – Questo Giovanni, lei sa il cognome?
DICH. DI CARLO : – No.
G / T: – Lo ha saputo anche dopo? No.
DICH. DI CARLO : – No, Giovanni.
G / T: – Quindi ci fermiamo al Giovanni, per il momento.
DICH. DI CARLO : – Giovanni. E mi dice: non pensare che è per tu collaborare, perché lo so che tu… A noi non ci interessano queste cose e nemmeno di fare arrestare qualcuno. E allora ditemi in che cosa posso essere… Mi devi fare avere un contatto… Perché a Palermo di gente che comanda veramente… Con i corleonesi. Io ci ho detto: i contatti? Perché a noi ci interessa il ramo politico e certe situazioni, e di là abbiamo cominciato a parlare. Parlare, ci ho detto: io non so, ci ho detto, a chi per adesso. Ho detto: lasciatemi qualche settimana e poi ci vediamo. Perché noi, dipende cosa dobbiamo fare, non vogliamo conseguenze, prima l’avevamo e adesso non ce l’abbiamo più la persona che apparteneva… Mai parlavano che io appartenessi a Cosa Nostra, che appartenevo a te.
G / T: – Ma in che periodo siamo? Perché mi è sfuggito se l’ha detto.
DICH. DI CARLO : – Siamo nei primi di 89 penso, un mese più…
G / T: – Sempre 89.
DICH. DI CARLO : – Un mese più… All’inizio, un mese più, un mese meno può essere.
G / T: – Proceda allora, prego.
- M. DI MATTEO : – Senta, per intenderci, rispetto a quando poi si seppe dell’attentato all’Addaura, siamo prima o dopo?
DICH. DI CARLO : – Prima.
- M. DI MATTEO : – Prima, ecco, così abbiamo… Quindi siamo nei primi sei mesi dell’89, per il suo ricordo.
DICH. DI CARLO : – Ci ho promesso, ci ho detto: prima che viene, ci ho detto, prendete una risposta, telefona. Mi telefoni e io ti dico se vuoi salire, sali e ti dico di presenza. Contenti se ne vanno, ma nemmeno passano quattro giorni e mi chiama l’inglese, Niger, quello poteva fare quello che voleva. Ah, quando mi presenta, mi dice: questi fanno lo stesso lavoro mio. Ma io sapevo cosa faceva Giovanni, perché mi dice che è collega di Mario, teniamo questo punto. Perciò capisco che quelli sono pure uguali. A Niger ci faccio: ah, tu pure sei militare? No, dice, io lavoro dentro il Ministero degli Interni, una succursale degli Interni, non mi specifica. Dice: stesso lavoro di loro.
- M. DI MATTEO : – E cioè?
DICH. DI CARLO : – I Servizi, quello che conoscevo, Giovanni, che era l’amico, il tramite di Mario, erano militari.
- M. DI MATTEO : – Bene, continui.
DICH. DI CARLO : – Se ne vanno, dopo tre – quattro giorni mi telefona già, ci ho detto: troppo presto è. Allora richiamo. Comunque, in quei giorni, in quei quindici giorni, sono passate due settimane, cerco di farci avere un contatto con Ignazio Salvo. A Ignazio Salvo dico: siccome Totuccio mi ha chiesto tante volte aiuto per sti processi e cose, ci ho detto vedi di darci una mano con questi… Perché poi con Giovanni avevo parlato, che loro potevano fare, potevano intervenire nei processi, di fare… L’intenzione era solo perché parlando politicamente, parlando di quello che stava succedendo, di mandare via Falcone da Palermo, annullarlo proprio, perché Falcone stava facendo la Dia, queste erano parole che mi ricordo.
G / T: – Parole dette da chi?
DICH. DI CARLO : – Da Giovanni.
G / T: – Sempre questo Giovanni.
DICH. DI CARLO : – Stava per la Procura Nazionale, erano politici, uomini dello Stato che erano tutti preoccupati che cosa poteva succedere. Ne dicevano di tutti i colori, sembrava che doveva fare Mussolini niente, Hitler, che poteva indagare su tutti e mettere tutti sotto processo, erano preoccupati. Non sapevano più niente, perché aveva un gruppo ristretto che lavorava per Giovanni Falcone, il dottore Giovanni Falcone. E queste, queste erano le lamentele che parlava con me. Era solo cercare di mandarlo fuori. E se noi altri dobbiamo fare qualche cosa in Sicilia, dobbiamo avere le spalle coperte. Ricordiamoci che in Sicilia, fino a me non arrestavano tutti e finché non succedeva… Centimetro per centimetro era controllato, qualsiasi cosa avveniva o se mettevano una bomba, dico, glielo dico quando ci sono state le bombe del 70, dovevamo saperlo tutto, e se lo faceva un poliziotto o lo faceva chiunque sia, si indagava fino a che si sapeva e moriva. Perciò se questi dovevano fare qualcosa, voleva le spalle coperte. Una parentesi la posso fare, signor Pubblico Ministero? Quando è sceso il Prefetto De Francesco nell’82, dopo la morte di Dalla Chiesa, prima che scendesse, Contrada è andato da Saro Riccobono, dice: possiamo stare tranquilli? Non sapendo… Questo verso settembre – ottobre, quando è stato, non sapendo che poi due mesi dopo scompare Saro Riccobono. Mi ha garantito, per dire, chiunque sia in quel minuto, in quel periodo toccava Palermo, si voleva garantire la vita. Questa è parentesi. Perciò questi erano preoccupati, avevano prima Saro Riccobono che poteva garantire, adesso cercavano… Mi sono interessato, visto che non c’era niente di male, anche perché c’erano tutti i condannati, tutti amici miei che erano morti e tanti padri di famiglia condannati che io conoscevo tutti. Avevo detto che non mi interessava più nessuno, però capivo, compreso i miei fratelli, capivo le famiglie che cosa stavano soffrendo, ho detto se posso dare una mano, glielo do. E così mando da Ignazio Salvo. Ci ho detto che Ignazio…
- M. DI MATTEO : – Come l’ha contattato Ignazio Salvo?
DICH. DI CARLO : – Ignazio Salvo l’ho contattato, ci ho detto dove potevano chi sa contattarlo, nello studio di Roma a… Vicino Viale Campania, vicino Via Sicilia, che c’aveva un ufficio là vicino, traversa Via Veneto, parallela, va bene? Che io ci andavo spesso, sia da lui e sia conoscevo pure il padre, il vecchio Vizzini, in quella zona. E ho saputo che poi… Quando è venuto la
seconda volta, che Giovanni ci do questa possibilità, era felicissimo, contento. Con Ciancimino non ci ha voluto parlare, non ci avevano molta stima perché poi dice che già era con i Carabinieri che cercava di fare qualche passo, non so a che cosa si riferisse. Vito Ciancimino sto parlando.
- M. DI MATTEO : – Questo chi glielo ha detto?
DICH. DI CARLO : – Loro, Giovanni proprio.
- M. DI MATTEO : – In quella circostanza?
DICH. DI CARLO : – In quella circostanza.
- M. DI MATTEO : – Quando le chiesero un aiuto per cercare di
allontanare Falcone da Palermo?
DICH. DI CARLO : – Sì. E così… Poi mi telefona, tutto apposto, avevano avuto il contatto e hanno cominciato i fatti suoi. Con Niger mi sono continuato a sentirmi. Quando scopro chi era il terzo uomo? Che era La Barbera. Quando questo non so che cosa ha fatto a Palermo, è spuntato nei giornali, ho visto la foto, ho detto: ma questo è venuto qua. È la prima volta che scoprivo La Barbera, che si chiamasse La Barbera, perché quando era con il Magistrato non era entrato, si vede che pensava di rientrare, che cosa aveva in testa. Poi quando è venuto non lo sapevo che era lui, e poi lo vedo nelle foto. Ma non essendo sicuro che era questo che era andato negli altri coimputati, chiamiamoli coimputati, ci ho chiesto: era questo? Dice: sì, sì, era questo.
Ecco perché so che era La Barbera.
- M. DI MATTEO : – Quindi lo ha riconosciuto in foto e poi ne
ha chiesto conferma a Di Prima.
DICH. DI CARLO : – Sì.
- M. DI MATTEO : – E l’altro chi era?
DICH. DI CARLO : – Luciani.
- M. DI MATTEO : – Luciani.
DICH. DI CARLO : – Cognome.
- M. DI MATTEO : – Ma era questo il soggetto che aveva detto che lavorava in una struttura parallela del Ministero dell’Interno?
DICH. DI CARLO : – Giovanni mi diceva che erano colleghi, fanno lo stesso lavoro. Di Giovanni sapevo che lavoro faceva, che era militare. Io non so se quello era pure militare.
G / T: – Un minuto, perché… Stesso collega di Mario o anche di questo, di La Barbera? Quello che poi lei ha saputo essere La Barbera?
DICH. DI CARLO : – Mario, quando me li ha presentati, dice: i colleghi fanno lo stesso mestiere mio.
G / T: – Quindi si riferiva sia all’inglese.
DICH. DI CARLO : – Sia all’inglese e quello.
G / T: – Che a La Barbera.
DICH. DI CARLO : – Sì.
G / T: – Ma La Barbera ha interloquito, ha parlato, le ha detto qualche cosa?
DICH. DI CARLO : – Ma se ha detto qualche due parole, erano tante.
- M. DI MATTEO : – Senta…
DICH. DI CARLO : – Naturalmente, quando si è stabilito, ci sono promesse, contro promesse anche per me, anche per la gente e tutto. Poi…
- M. DI MATTEO : – Qualche domanda di approfondimento. Bè, intanto cosa le avevano promesso in quel colloquio, nel caso in cui lei li avesse aiutati ad avere il contatto giusto a Palermo? Anzi, con i corleonesi mi pare che ha detto, no?
DICH. DI CARLO : – Sì. Che se tutto andava bene, io potevo, rientrando in Italia, subito mi facevano uscire e tutto questo. Ma se non ti possiamo uscire, ti veniamo a liberare, tu sai i buoni rapporti che ci sono, di qua, di là, insomma… Giovanni era un buon parlatore, una persona molto fine, un cinquantenne ai tempi, cinquantenne, cinquanta due, non ho idea, va bene? Elegante vestito, dei tre era il più elegante. Gli inglesi non si sanno vestire, ma pure incravattato, elegante, e La Barbera… Oggi che so che è La
Barbera…
G / T: – Dopo questi due incontri, lei non lo ha più rivisto?
DICH. DI CARLO : – A La Barbera?
G / T: – No, a questo Giovanni.
DICH. DI CARLO : – No, l’ho sentito una volta per telefono, ringraziandomi, tutto qua e là. Poi teneva i contatti con (PAROLA INCOMPRENSIBILE).
- M. DI MATTEO : – Senta, lei individua, lo ha già detto, Ignazio Salvo come contatto utile eventualmente per questi tre signori.
DICH. DI CARLO : – Sì, perché…
G / T: – Sì, sì, aspetti, aspetti, mi lasci completare la domanda, poi risponderà. Ma lei poc’anzi ha detto: faccio sapere che a Ignazio Salvo lo potevano andare a
trovare in quell’ufficio a Roma, eccetera, eccetera.
DICH. DI CARLO : – O a Roma… Ci ho dato pure l’indirizzo…
- M. DI MATTEO : – Aspetti, aspetti, ma ad Ignazio Salvo lei in qualche modo lo preavvisa della possibilità del contatto di questi tre signori e lo preavvisa quale era la loro richiesta finale? Cioè quella di ottenere in qualche modo l’allontanamento di Falcone, del dottor Falcone?
DICH. DI CARLO : – No, io di questo non ci parlo, ci dico: vedi che cosa ti devono dire, che forse sì, ci dà una mano di aiuto a tutti.
- M. DI MATTEO : – Ma come ci parla? Telefonicamente, direttamente?
DICH. DI CARLO : – No, nel biglietto che ci scrivo.
- M. DI MATTEO : – Dei biglietti che gli fa pervenire tramite chi? Perché lei i biglietti a chi li consegna, diciamo?
DICH. DI CARLO : – A Giovanni stesso, va bene? Sia a Giovanni stesso, quando viene la seconda volta. La prima volta lo mando un biglietto direttamente a Lima, di portarcelo, che si vedevamo con Ignazio Salvo, perché in quel periodo non so se si fosse a Palermo, ancora se si era trasferito a Roma, però siccome sapevo che loro usavano l’ufficio dei Lima come il suo ufficio, ce lo faccio avere io a Lima là, ci metto nella busta per l’Onorevole Lima, da consegnare. E ce l’hanno portato. Uno che non sa, va bene, se la tiene conservata fino a che si incontrano. Ci ho messo pure il numero di telefono dove mi poteva chiamare, chi sa, naturalmente di qualche telefono pubblico.
- M. DI MATTEO : – Senta, stava dicendo, poi l’ho interrotta per ribadire la domanda che le avevo fatto, a proposito della possibilità di contattare Ignazio Salvo, lei aveva indicato un ufficio a Roma. E poi stava dicendo: poi ho indicato anche?
DICH. DI CARLO : – Palermo, dove abitava Ignazio Salvo, in fondo alla Via Libertà.
- M. DI MATTEO : – Ma le spiegarono… Se la richiesta era quella solo di fare in modo che il dottor Falcone venisse in qualche modo allontanato da Palermo, le spiegarono perché avevano bisogno di un contatto con i corleonesi?
DICH. DI CARLO : – Sia per fare cessare certe posizioni, e sia per… Di fare sicuramente qualche attentato di provocazione, ma non ucciderlo, perché se mi avrebbero detto che avevano questa intenzione… Non hanno parlato mai di uccisione o meno, ma promettevano che sarebbero andati bene i processi. Ci ho raccomandato pure: vedete, non premettete cose che non potete fare, perché rispondono in un’altra maniera sola. Conoscendo Riina, non promettete cose che non…
- M. DI MATTEO : – Ma non ho capito bene, questa cosa dell’attentato di provocazione, è una sua deduzione o ne parlarono anche in quella sede, in quegli incontri?
DICH. DI CARLO : – Avevano intenzione di… Io capisco, provocazione, cercarlo di screditarlo nell’opinione pubblica, di fare… Qualsiasi mezzo usare perché tutti volevano questo, di quello che… Tutti, nessuno escluso, in qualsiasi settore. Delle Istituzioni, intendiamoci.
- M. DI MATTEO : – Come nasce il riferimento a Ciancimino e al fatto che in quel momento Ciancimino già aveva contatti con i Carabinieri?
DICH. DI CARLO : – Perché io ci faccio, ci ho detto, quando è stato: se volete, vedete che Ciancimino è molto intimo con Bino Provenzano e può arrivare… No, no, dice, perché sappiamo che qualche cosa, dice… Non ci avevano fiducia.
- M. DI MATTEO : – Chi è che fece riferimento ai contatti di Ciancimino con i Carabinieri?
DICH. DI CARLO : – Io con Giovanni sempre parlavo di questo.
- M. DI MATTEO : – Con Giovanni Ferraro quindi?
DICH. DI CARLO : – Non è Giovanni Ferraro, dottore.
- M. DI MATTEO : – No, è Giovanni l’emissario di…
G / T: – L’amico, Giovanni il collega – amico.
[..]
- M. DI MATTEO : – Non so se già l’ha detto, Presidente, però
io ho necessità di chiarezza. Poi lei ha saputo, ed eventualmente da chi e in che termini, se il contatto con Ignazio Salvo fosse stato realizzato?
DICH. DI CARLO : – Ma me lo dice Giovanni stesso, che poi mi ringraziava e ti ringraziano pure altri, sapete come… Altri, non so alle spalle chi aveva questo Giovanni.
G / T: – Quanto tempo dopo c’è stata questa telefonata, questo contatto telefonico?
DICH. DI CARLO : – Dopo un paio di settimane. Ma poi mi è venuto a trovare Niger, a Niger poi c’ho raccontato, vedi che mi… In secondo tempo, era passato qualche anno e cose, quando erano venuti, perché queste sono dopo che vengono questi, i tre che mi hanno minacciato e cose, ed erano quelli arabi. Dico: sai che, così, così. Dice: ma sicuramente erano per questo. Ce l’ho raccontato a lui, non sono venuti più questa gente. Dice: stai tranquillo, per questo ci penso io.
[18] La Legge n. 801 del 24.8.1977 vietava in modo categorico alla magistratura di dare incarico ai servizi di svolgere indagini che erano riservate alla esclusiva competenza della Polizia giudiziaria.
[19] Il SISDE dopo essere stato incaricato dal Procuratore capo di Caltanissetta comincia a indirizzare delle note alla Procura di Caltanissetta tra cui una di particolare rilievo quella del centro Sisde di Palermo, protocollo 2929/Z3068 del 10 ottobre 1992, nella quale si focalizza l’attenzione su Vincenzo SCARANTINO, qualificandolo come personaggio di spessore per asserite parentele con Salvatore PROFETA, braccio di Pietro AGLIERI capo del mandamento della GUADAGNA.
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