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La vergogna di Stato: “Questo dovrebbe spingere i partiti a fare pulizia al loro interno”

Nel luglio dello scorso anno, il processo di revisione sulla strage di via D’Amelio portò all’assoluzione di sette condannati a seguito delle false dichiarazioni del pentito Vincenzo Scarantino. Sei giorni fa, il Gip di Caltanissetta ha confermato, con sentenza di rinvio a giudizio per tre poliziotti, che il più grande depistaggio di Stato ebbe inizio dal 19 luglio 1992, proprio il giorno dell’esplosione dove persero la vita Paolo Borsellino, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina, Agostino Catalano e Walter Cosina.

I rinviati a giudizio sono, nello specifico, il funzionario Mario Bo’ e gli ispettori Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, accusati di calunnia in concorso con i falsi pentiti, quindi depistaggio con l’aggravante di favorire Cosa Nostra. Il processo inizierà giorno 5 novembre 2018. Le accuse sono gravissime ancor di più perché rivolte a tre componenti del pool “Falcone-Borsellino” istituito proprio per far luce sulle stragi, coordinato da un’altra figura abbastanza ambigua quale l’ormai defunto dott. Arnaldo La Barbera. Figura e pool ambigui, intanto per il trattamento di un reperto di strage quale la borsa del dott. Borsellino, lasciata su un divanetto della stanza di La Barbera e aperta, secondo il verbale di apertura, tre mesi e mezzo dopo la strage.

Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, si chiede: “…perché, sulla borsa di mio padre, gli investigatori non hanno mai ritenuto, nelle immediate ore successive alla strage, di effettuare un esame del dna, allorchè mia sorella, già nel novembre del ’92, comunica al sig. La Barbera che dalla borsa era sparita l’agenda rossa, allorchè La Barbera ce la viene a riconsegnare”.
Ma La Barbera dirà, attraverso un comunicato Ansa, che non c’era alcuna agenda rossa nella borsa e che, se ci fosse stata, sicuramente era andata bruciata durante l’incendio. Certo, a rigor di scienza è sicuramente plausibile che la borsa resti illesa mentre il suo contenuto venga bruciato.

Altro episodio strano avviene nel 1995, quando Scarantino telefona a Studio Aperto e rilascia un’intervista nella quale smentisce tutte le sue dichiarazioni, ammettendo così di essere un falso pentito. La Barbera ed i suoi uomini sequestrano quella registrazione, ma c’è un piccolo particolare da far notare: quel sequestro non era stato mai autorizzato. Scarantino tornerà sui suoi passi davanti ai pm Palma e Petralia che diffonderanno la notizia prima di produrla in aula. Tanta superficialità anche della stessa magistratura che, dapprima non ascoltò ciò che aveva da dire Paolo Borsellino sulla morte di Falcone, poi non assunse mai come testimone il procuratore Pietro Giammanco, diretto superiore di Borsellino. Anche Giammanco peccò di, per così dire, superficialità, non comunicando a Borsellino che fosse arrivato il tritolo per lui e, alla richiesta sconvolta del giudice del motivo per il quale non gliene avesse parlato, Giammanco replicò che aveva mandato le carte alla Procura di Caltanissetta. Come a dire, “ti uccido ma vengo al tuo funerale”. La burocrazia non ha mai salvato nessuno. Non solo. Giammanco non voleva affidare le indagini relative a Palermo al giudice Borsellino, nonostante l’insistenza di quest’ultimo durata mesi. Domenica 19 luglio 1992 Giammanco telefonò Borsellino alle 7 di mattina comunicandogli di avere accettato la sua proposta di occuparsi delle indagini di Palermo, congedandosi dice: “Così la partita è chiusa”. Paolo Borsellino salterà in aria nel pomeriggio dello stesso giorno. Soprattutto la politica si rivelò inadatta a proteggere i servitori dello Stato, firmando quella deplorevole c.d. trattativa con la mafia.

Paolo Borsellino, d’altronde, lo aveva detto: “Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri”.

Federica Giovinco

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