di Paolo De Chiara
INTERVISTA/Prima parte.
L’INCONTRO CON ILARDO.
Parla Michele Riccio, già colonnello dei carabinieri. Abbiamo diviso l’intervista in più parti per affrontare nel modo migliore i vari argomenti trattati. Tutto ruota intorno alla figura del collaboratore di giustizia Luigi Ilardo, ucciso a Catania il 10 maggio del 1996, con otto colpi di pistola. Un omicidio eccellente? Un omicidio di Stato? I due si erano messi in testa di arrestare Provenzano, all’epoca la mente criminale di Cosa nostra. Ed era tutto pronto per il blitz. Binnu u tratturi verrà arrestato undici anni dopo. Chi non ha voluto mettere le mani sul Capo della mafia siciliana?
Una storia sbagliata. Per chi reggeva, e regge ancora, certi fili (mortali) in un Paese, da secoli, impregnato dalle schifose mafie. Questa è la storia di due uomini apparentemente diversi tra di loro: un uomo di Stato e un uomo di mafia. Uniti dallo stesso obiettivo: catturare latitanti e stanare un boss scomparso nel nulla. L’uomo di Stato si chiama Michele Riccio ed è un colonnello dei carabinieri di stanza alla Dia di Genova, proveniente dai Ros (Raggruppamento operazioni speciali). Nella sua attività professionale ha incontrato il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, con il quale ha collaborato nel nucleo antiterrorismo. Si è occupato di massoneria, di strategia della tensione. L’uomo di mafia, invece, si chiama Luigi Ilardo, cugino di Giuseppe Madonia, detto Piddu. Detenuto presso il carcere di Lecce.
«Mi chiamo Ilardo Luigi, sono nato a Catania il 13 marzo del ‘51. Attualmente ricopro l’incarico di Vice rappresentante provinciale di Caltanissetta, coprendo anche l’incarico di Provinciale in quanto il Provinciale Vaccaro Domenico, attualmente si trova detenuto. Ho deciso formalmente di collaborare con la giustizia dopo essermi reso conto di quello che effettivamente ho perduto durante questi anni passati lontano dai miei familiari e dai miei figli, nella speranza che il mio esempio possa essere di monito e d’aiuto a ragazzi, che come me, si sentono di raggiungere l’apice della loro vita entrando in determinate organizzazioni».
Ilardo decide di “saltare il fosso” perché quella Cosa nostra non gli piace più. Non si riconosce in quella organizzazione composta da animali assetati di sangue. E inizia a fidarsi di un uomo in particolare. Insieme si trovano a combattere una “guerra” che lo Stato, composto dai vari Tinebra (massoni e pericolosi traditori), non vuole vincere. Che fa solo finta di combattere, per carrierismo dei collusi. E la storia di questo Paese ne è piena.
La collaborazione tra Riccio e Ilardo sembra procedere bene. Arrestano diversi latitanti. Ma l’obiettivo principale, Bernardo Provenzano, sfumerà all’ultimo secondo. Inspiegabilmente. Per il volere di pezzi deviati dello Stato, per una Trattativa Stato-mafie (iniziata con l’arrogante e violenta imposizione dell’Unità d’Italia) mai terminata.
Ilardo, poco dopo, verrà ammazzato, a colpi di pistola, a Catania. Senza alcuna protezione. Per una soffiata massonica degli apparati deviati dello Stato.
Riccio, nel 1997, verrà arrestato dai Ros. Per il suo impegno sul fronte antimafia? È la storia che si ripete ciclicamente, è la tecnica utilizzata in molte occasioni: delegittimare e infangare il “nemico” per renderlo inoffensivo.
Provenzano, il vecchio boss malato, diventato inutile per il “sistema”, verrà arrestato nel 2006, undici anni dopo. Dopo 43 anni di beata latitanza, dopo tre anni dalla cattura di Totò Riina, detto u curtu.
Benvenuti nel Paese degli annunci, degli slogan, delle commemorazioni, degli show e della memoria corta. La lotta alle mafie è diventata una vetrina per fare carriera. Perché chi tocca realmente, consapevolmente ed inconsapevolmente, certi fili (dove passa una corrente ad alta tensione politico-massonica-affaristica) “muore”. Ed esistono tanti tipi di morte.
Abbiamo raccolto la testimonianza del colonnello Riccio (ora in pensione con il grado di generale, «mi sento colonnello, questo grado l’ho conquistato sul campo»), per comprendere il suo punto di vista.
Questa è una storia sbagliata, come tante altre, realmente accadute in un Paese orribilmente sporco. «Ho ricevuto l’incarico – esordisce il colonnello – dal dottor De Gennaro di incontrare in carcere Ilardo, se non ricordo male era a Lecce, in quanto gli aveva scritto, mandando alcune indicazioni dalle quali si comprendeva che era disposto ad offrire una collaborazione informale in merito ai mandanti esterni delle stragi.»
Perché De Gennaro si affida a lei?
«Già in passato avevo gestito collaboratori di livello come Patrizio Peci, tanto per fare un nome. Ed altri collaboratori importanti. Ero specializzato anche in operazioni sotto copertura con indagini in Sud America. Il dott. De Gennaro già mi conosceva. Mi dice: ‘sei l’elemento giusto per andare a parlare con Ilardo’. E così vado a Lecce e incontro Ilardo nel carcere e comincia ad imbastirsi, piano piano, una collaborazione con Ilardo».
Quando incontra Ilardo che sensazione prova, chi si trova davanti?
«Sono abituato a trattare con le persone e parlo sempre all’uomo e, diciamo, a ciò che rappresenta. Una prassi che ho sempre condotto, in cui credo, che mi ha sempre portato ad avere una collaborazione forte, umana e seria. Per cui mi trovo di fronte una persona che vedo ormai distante dalle connotazioni di Cosa nostra. Era fortemente critico, lo vedo molto legato ai rapporti e alla famiglia e ciò nonostante che gli mancasse poco alla sua scarcerazione. Questo è un dato che comincia a convincermi. La convinzione avviene nel prosieguo del rapporto. Mi fa pensare che Ilardo realmente voglia staccarsi da quel mondo verso cui è critico e mi fa degli esempi che vanno da come è stata trattata la sua famiglia, da Cosa nostra che non era più quella di un tempo. Mi porta degli esempi, anche dal punto di vista umano, per far comprendere che Cosa nostra era mutata. Parla degli attentati stragisti. Diciamo questa è la parte umana. Vedo un uomo colpito nel profondo dell’anima, che vuole recuperare quel po’ di umanità e di famiglia che gli è rimasta.»
Ilardo, catanese e cugino di Piddu Madonia, era vicino ai Corleonesi, la fazione vincente.
«Già sapevo chi avrei incontrato e sapevo anche il suo ruolo. Anche perché, poi, Ilardo, sempre nel primo incontro, che per me è illuminante, perché avevo già lavorato con il generale Dalla Chiesa e con il colonnello Bozzo (diventato generale dei carabinieri, già braccio destro del generale ucciso da Cosa nostra e comandante della divisione Pastrengo, nda) su quella frangia di potere deviato, con i suoi collegamenti con la massoneria e l’estremismo di destra con il supporto dei servizi segreti per quella che verrà chiamata la strategia della tensione.
Fa il nome di un massone torinese, ma di origini siciliane, Savona Luigi, che era già emerso nelle indagini su Ordine Nuovo. Finalmente una conferma per fare chiarezza sui mandanti esterni. Di questo fatto ne do notizia a De Gennaro e al colonnello Bozzo. Quando mi fa quel nome, a me personalmente, mi da la conferma che eravamo messi sulla strada giusta per fare luce. E lui mi dice che se fosse stato mostrato qualche elemento del detonatore delle bombe delle stragi avrebbe potuto, eventualmente, dare indicazione sull’artificiere. Perché lui l’aveva già utilizzato in passato, con un suo amico a cui era molto legato – avevano frequentato insieme l’università a Messina-, quel famoso Rampulla.»
Diciamo, questo è il primo impatto.
«Poi da anche altri riferimenti sulla massoneria, indica un ristorante dove si tenevano incontri istituzionali, massonici e servizi segreti a Roma. Quindi inizia questa collaborazione».
E questa collaborazione prosegue anche all’esterno del carcere.
«Esatto. Una volta che lui esce mettiamo in atto un dispositivo per comunicare in maniera riservata e tranquilla. E con Ilardo cominciamo a vederci in Sicilia e io, di ogni incontro, redigo relazioni di servizio che invio alla Dia».
Ilardo aveva un nome in codice “Oriente”. Perché questa scelta?
«Lo chiamo “Oriente” ed è anche strumentale. Non solo perché proviene dalla Sicilia orientale, ma anche in riferimento al mondo massonico. Una componente importantissima di quel contesto di cui Ilardo si appresta a parlare. Lui mi dice: ‘Colonnello, lei per comprendere gli ambienti a cui dovremmo apporre la nostra attenzione e che sono ispiratori di quella strategia stragista’…, proprio quegli ambienti istituzionali deviati, che già nei primi anni Settanta avevano posto la strategia: destabilizzare per stabilizzare. In passato questi avevano utilizzato i militari per i Golpe, poi erano passati ai terroristi e poi, in una modificazione sempre di strategia operativa, avevano messo in campo i loro rapporti con la criminalità organizzata. E la fanno entrare per la spartizione degli affari. Ilardo mi dice che questo tramite, per far entrare Cosa nostra in massoneria, fu questo Savona Luigi che era molto amico del Chisena. Entrambi erano massoni e anche collegati ai servizi segreti. Savona Luigi viene ospitato a Catania e vengono organizzati con il Chisena degli incontri a Palermo, dove andò anche Di Cristina e soci. L’attività del Savona Luigi fu anche attenzionata da Falcone. L’attività era sempre quella, contattare i soliti magistrati per favorire le posizioni dei vari affiliati».
E Ilardo cosa aggiunge?
«Che lo stesso ambiente del ’74 è lo stesso che ha posto in essere gli attentati degli anni Novanta, ovviamente alcuni soggetti sono mutati, ma sono cloni di quelli del passato. Ma il contesto politico e massonico è sempre lo stesso, quello che fa riferimento ad Andreotti, ai socialisti di Craxi, ai loro uomini. E mi fa un esempio: l’attentato al giudice Carlo Palermo fu fatto da Cosa nostra in ossequio alla collaborazione che nasce con il partito socialista. Come primo rapporto viene chiesta la commissione di questo attentato.»
Il giudice Palermo stava indagando sui traffici di droga e di armi.
«Sì e anche sulle parentele. Ilardo mi parla di Salvo Andò e mi dice che era organico alla organizzazione, lo avevano votato, frequentava ambienti catanesi – come ho scritto anche nel rapporto – di Cosa nostra. Mi fa tutti questi esempi e mi racconta tutti questi aspetti.»
Il giudice Palermo aveva individuato una società di intermediazione di armi, la Kintex.
«Me ne sono occupato anche io. È una ditta di armi Bulgara. Gli ho sequestrato un carico di armi a Savona. La Kintex, come l’ho investigata io, operava tramite rappresentanti di armi, i quali danno partite di armi a qualsiasi ambiente. Hanno sempre spaziato: dal terrorista islamico, al terrorista mediorientale, sudamericano. A loro non interessa dove vanno a finire le armi, ovviamente non in uno Stato che è in guerra con l’allora Patto di Varsavia o Stato consorella. Un po’ come facciamo tutti quanti, anche noi lo facciamo. La Kintex, negli anni Ottanta, fu molto attenzionata. Sia da noi, come carabinieri, e anche dagli americani».
Ritorniamo ad Ilardo. Nel vostro rapporto di collaborazione quando subentra la latitanza dell’allora capo dei capi Provenzano. In quale occasione esce fuori questo nome?
«Lui (Ilardo, nda) viene reinserito subito nella famiglia. Allora il rappresentante sul territorio era Vaccaro Domenico, operava alle dirette dipendenze di Piddu Madonia che era in carcere. Ilardo, che era superiore a Vaccaro, faceva parte della famiglia, era organico alla famiglia, comincia ad operarci insieme. Mi spiega Ilardo che così si sente libero di sentire, di partecipare alle riunioni, senza nessun particolare vincolo, e mi dice: ‘lasciamo che siano gli altri a contattarmi’, ovviamente per ragioni di sicurezza. Fare domande in quegli ambienti è molto pericoloso. Nel frattempo lui si accredita, cosa molto importante per noi, con dei primi risultati operativi: come, ad esempio, il ritrovamento del materiale per l’apertura delle cassette di sicurezza delle banche. Ci fa arrestare dei primi latitanti. Questo lo accredita nei confronti della magistratura di Palermo che lo segue da lontano nella sua attività di collaboratore informale e, ovviamente, nella Dia di De Gennaro. È un collaboratore credibile che porta risultati tangibili.»
E cosa c’entra Provenzano?
«La famiglia di Piddu Madonia è quella che ha da sempre supportato le attività di Provenzano. Se Provenzano si è sempre reso invisibile al resto dell’organizzazione perché ha sempre contato sugli appoggi, anche in Palermo, della famiglia di Caltanissetta. Anche per la parte avversaria, ai suoi nemici nell’organizzazione, risultava invisibile. ‘Le sorelle di Piddu, quindi le mie zie lo vanno a trovare perché malato, soffre di prostata’, mi comincia a raccontare. ‘Soffre di prostata. Gli portano le medicine, gli portano i cibi che lui può mangiare e che gli piacciono’. E lui dispensa consigli.
E che cosa succede?
…
Fine prima parte/continua
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Tratto da: www.wordnews.it
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