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Omicidio Agostino-Castelluccio: sentenza Madonia, “Depistaggio istituzionale”

Palermo, 9 lug. – Depositate le motivazioni con le quali lo scorso 5 ottobre i giudici della Corte d’assise d’appello di Palermo, presieduta da Angelo Pellino, hanno confermato l’ergastolo al boss Nino Madonia per l’omicidio del poliziotto Nino Agostino, e della moglie incinta, Ida Castelluccio, uccisi a colpi di pistola il 5 agosto 1989. Un omicidio connesso alla sua attività di ‘cacciatore di latitanti’ e testimone scomodo, perché avrebbe visto il boss Madonia con l’ex numero tre del Sisde Bruno Contrada e il poliziotto Giovanni Aiello, ‘Faccia da mostro’. Una sentenza che diede parziale ristoro alla sete di verità al papà Vincenzo Agostino, morto lo scorso 21 aprile, a 87 anni, con la sua lunga barba bianca, reclamante giustizia piena.
Un capitolo delle 562 pagine delle motivazioni visionate da AGI, è dedicato al “Depistaggio istituzionale”. Diversi, afferma il dispositivo, “sono gli esponenti istituzionali cui può addebitarsi di avere scientemente o per negligenza ritardato o fuorviato lo sviluppo delle indagini, con silenzi, omissioni, reticenze o addirittura interventi di manipolazione o soppressione delle fonti di prova”. Basti rammentare, per i giudici, “le reticenze o le tardive — e parziali — ammissioni” di Elio Antinoro, del commissariato presso il quale Agostino prestava servizio, “il quale minimizza i compiti dell’agente  al punto di tacere mansioni che pure risultavano dai fogli di servizio, come il servizio di vigilanza al Reparto Detenuto dell’Ospedale Civico o quello di addetto all’ascolto delle intercettazioni; e nega che Agostino fosse motivato e propositivo sul lavoro e che avesse interesse per l’attività investigativa, salvo ammettere solo nel 2016 che un paio di volte gli aveva prospettato di avere la possibilità di raccogliere informazioni di interesse investigativo, affrettandosi però a dire che tale evenienza non si concretizzò mai”. Antinoro, inoltre, “ha taciuto, fino al 2016, sulla diffusione di elenchi nominativi di latitanti mafiosi, con annesse taglie, distribuite presso i commissariati di polizia, incluso quello di San Lorenzo, da funzionari del Sisde; come ha taciuto, fino al 2016, sul coinvolgimento dell’agente Agostino in un servizio delicato e assolutamente riservato come quello di scorta al sedicente collaboratore Alberto Volo“. Così come per anni, incalzano i giudici nelle motivazioni della sentenza d’appello, “ha taciuto sull’incontro con il giudice Falcone e sulla domanda da questi rivoltagli se ritenesse che l’omicidio Agostino avesse qualcosa a che vedere con l’indagine che stavano conducendo sulla base delle rivelazioni del predetto Volo: un interrogativo del quale Antinoro non sa dare alcuna spiegazione”.

Ma è certo che il giudice Falcone, si legge nelle motivazioni, “non poteva avere formulato una congettura di quel genere solo per avere notato Agostino tra i poliziotti occasionalmente di scorta a Volo. E non può escludersi che al medesimo filone d’indagine alludesse l’avvertimento rivolto dallo stesso Falcone al commissario Montalbano, quando si incontrarono alla camera ardente dell’agente Agostino allestita al commissariato San Lorenzo (“Occhio Montalbano, questa è una cosa diretta contro di me e contro di te”), poiché in epoca che approssimativamente colloca tra il 1988 e il 1989, Montalbano era stato ‘informalmente’ delegato dal giudice Falcone ad una serie di accertamenti per verificare se il terrorista nero Fioravanti, indicato da Volo come autore dell’omicidio del presidente della Regione Piersanti Mattarella, si fosse recato in Sicilia all’epoca del delitto e per ricostruirne gli spostamenti”.
A supporto della ‘pista istituzionale’, per i giudici, la distruzione da parte del poliziotto in pensione Guido Paolilli, che aveva provveduto a reclutare lo stesso Agostino, di “una freca di carte” rinvenute nell’armadio di Agostino, in occasione della perquisizione domiciliare cui prese parte nella notte tra il 7 e l’8 agosto 1989 “e il suo decisivo input a battere la (falsa) pista Aversa; e in anni successivi le pesanti pressioni — se non le velate minacce: ‘finiamo tutti in galera’ — rivolte ai familiari del poliziotto ucciso, affinché lo informassero e si attenessero ai suoi suggerimenti su cosa dire, nel caso in cui gli inquirenti avessero loro fatto domande su possibili collegamenti con i fatti dell’Addaura. E i suoi silenzi o le sue persistenti reticenze, sulla vera natura dei timori che Agostino gli aveva esternato negli ultimi tempi, con particolare riguardo alle preoccupazioni per parentele mafiose della moglie.
E ancora: il ruolo di Arnaldo La Barbera, “il più complesso da decifrare e sul quale si tornerà in prosieguo. Basti però qui ricordare che è lui ad assumere personalmente la direzione delle indagini e a sposare fin dall’inizio la tesi che riconduceva il movente alla relazione sentimentale che aveva legato la vittima a Lia Aversa, fino a firmare il rapporto giudiziario del 27 settembre, e a insistere su quella pista, almeno fino a quando alla I sezione della Squadra mobile non si insedierà il dottor Luigi Savina“. E in seguito, “avrebbe addirittura tentato di depistare ancora le indagini attraverso il falso pentito Vincenzo Scarantino, facendogli credere che le indagini sul duplice omicidio Agostino-Castelluccio portavano a lui, e così tentando di indurlo ad accollarsi anche questo delitto: ciò è quanto ha rivelato dallo stesso Scarantino all’udienza del 4 giugno 2015 del processo Borsellino quater. Il tentativo però sarebbe fallito, sempre a dire dello Scarantino, per non avere egli voluto falsamente auto accusarsi, in aggiunta all’essersi già falsamente autoaccusatosi di avere partecipato alla strage di via D’Amelio, anche di un’ulteriore mostruosità, quale quella di avere assassinato l’Agente Agostino e la giovane moglie”.

Riguardo al ruolo di Madonia, le motivazioni della sentenza a suo carico, ribadisocono che il boss avrebbe “pianificato e organizzato l’azione in forza del proprio ruolo di estremo rilievo di Cosa nostra”, ed in specie del mandamento mafioso palermitano di Resuttana di cui risultava reggente, con le seguenti modalità: acquisendo preventivamente informazioni sulle abitudini ed i movimenti delle vittime; individuando il luogo di esecuzione nei pressi della dimora estiva della famiglia Agostino a Villagrazia di Carini, luungomare Cristoforo Colombo; assicurandosi la disponibilità di un’arma da sparo clandestina, precisamente una pistola calibro 38; procurandosi la disponibilità di una motocicletta di grossa cilindrata rubata, una Honda Africa Twin, in grado garantire il rapido accesso nel luogo di esecuzione dell’omicidio, nonché la immediata fuga; individuando un luogo, nelle vicinanze al luogo di esecuzione, in cui procedere, successivamente all’omicidio, alla distruzione per incendio della moto.
Il poliziotto Paolilli avrebbe tentato di accreditare la pista sentimentale, ma già il giudice di primo grado l’aveva reputata infondata e del tutto inconsistente, rivelatasi, scrivono i giudici di secondo grado, “una pista forzata, e indotta dal Paolilli; facendo propria invece la tesi che attribuisce al duplice omicidio una sicura matrice mafiosa”, sottolineando che, dopo l’allontanamento di Paolilli e l’avvicendamento del suo dirigente, la stessa Squadra mobile di Palermo aveva abbandonato l’ipotesi del delitto per “motivi d’onore” (adombrata nel precedente rapporto del 27  settembre 1989), già nel successivo rapporto redatto il 10 gennaio 1990 aveva fatto espresso riferimento alla matrice mafiosa del delitto: matrice che, d’altra parte, “era stata già indicata nelle primissime segnalazioni inviate alla procura della Repubblica di Palermo (rapporto del 10 gennaio 1990: “Come peraltro è stato possibile evincere dalla prima segnalazione inviata a codesta Procura della Repubblica, è apparso sufficientemente verosimile che l’efferato duplice omicidio sia da ascrivere a sicura matrice mafiosa, considerati gli elementi obiettivi e soggettivi a disposizione. Non potendosi escludere che la causa del delitto possa essere attribuita ad una qualche attività investigativa svolta dall’agente al di fuori dei meri compiti di Istituto”.
Il movente ipotizzato in relazione alla scoperta da parte di Agostino di incontri e contatti di esponenti di vertice delle forze dell’ordine, legati agli ambienti dei Servizi con la cosca dei Galatolo e con lo stesso Nino Madonia, “tornerebbe a conferma non solo della matrice mafiosa del duplice omicidio, ma anche di un concreto e diretto interesse dei vertici del mandamento retto all’epoca proprio dall’imputato all’eliminazione di quel poliziotto che pericolosamente, per loro, si aggirava nel cuore del loro territorio (già teatro di incontri particolarmente riservati anche con esponenti delle forze dell’ordine e dei Servizi di sicurezza che nel tempo avevano rafforzato il potere di quella famiglia e dei loro alleati all’interno dell’organizzazione mafiosa)”.

AGI

 

 

Agostino: sentenza Madonia, “Temuta sua caccia a latitanti”

Palermo, 9 lug. – Le motivazioni depositate oggi dai giudici della Corte d’assise d’appello di Palermo che il 5 ottobre hanno confermato l’ergastolo a Nino Madonia, per l’omicidio dell’agente Nino Agostino e della moglie incinta, mettono a fuoco il ruolo che il boss ricopriva all’epoca dei fatti in Cosa nostra e nell’ambito del mandamento di Resuttana, sulla base di risultanze sulla figura di Giovanni Aiello, ‘Faccia da mostro’, e i suoi rapporti con l’ex 007 del Sisde Bruno Contrada. Si fa riferimento diretto alla “collusioni mafiose di alti funzionari di polizia e appartenenti ai Servizi”; ai rapporti del clan Galatolo-Madonia con appartenenti agli apparati di polizia o gravitanti nell’ambito dei Servizi; sulla vicenda dei “cacciatori di taglie” e la relativa catena di delitti; alla carriera criminale di Antonino Madonia; ai “depistaggi ascrivibili ad alcuni degli inquirenti dell’epoca” ma, “in primo luogo, all’attività investigativa segretamente svolta dall’agente Agostino”. Uno dei punti nevralgici individuato dall’Agostino era costituito da quel vicolo Pipitone che costituiva allora il centro catalizzatore del “mandamento” di Resuttana, luogo di summit e affari, ma anche il luogo in cui i  Madonia “intrattenevano rapporti con esponenti dei Servizi di sicurezza (da Contrada a La Barbera sino a Giovanni Aiello”. L’attività svolta da Agostino nei mesi antecedenti il suo omicidio “era divenuta altamente pericolosa proprio per l’ordinario svolgimento delle attività mafiose del territorio del mandamento di Resuttana”, soprattutto per l’attivismo che la caratterizzava e che conduceva 1’Agostino persino ad impegnarsi in quella direzione anche al di fuori del suo orario di lavoro e senza disposizioni di servizio in tal senso, fatto che, peraltro, contrastava con gli “equilibri” che in quel territorio “era stato possibile trovare con le forze dell’ordine (emblematica appare in proposito la condotta del Comandante della Stazione dei carabinieri lì di stanza di cui hanno riferito concordemente Vito e Giovanna Galatolo, oltre che Angelo Fontana e Vito Lo Forte).

AGI

 

 

 

 

 

 

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