di Francesca Mondin, Miriam Cuccu ed Aaron Pettinari
Dopo quattro giorni di camera di consiglio, in un’aula bunker affollata come poche volte durante il dibattimento, il presidente della Corte d’Assise di Palermo, Alfredo Montalto ha letto la sentenza del processo trattativa Stato-mafia. Condannato il boss corleonese Leoluca Bagarella insieme al medico di fiducia di Totò Riina, Antonino Cinà. Per i due mafiosi sono state disposte rispettivamente pene a 28 e 12 anni. Condannati a 12 anni anche gli esponenti delle istituzioni: gli ufficiali del Ros Antonio Subranni e Mario Mori insieme all’ex politico di Forza Italia Marcello Dell’Utri. 8 anni, invece, per l’ex uomo del Raggruppamento operativo speciale Giuseppe De Donno. Dichiarato colpevole anche Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino, condannato a otto anni per calunnia nei confronti dell’ex capo della Polizia Giovanni De Gennaro. Ciancimino jr è stato invece assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa “perché il fatto non sussiste”.
Assolto dall’accusa di falsa testimonianza l’ex Ministro Nicola Mancino perché “il fatto non sussiste”.
Mori, Subranni e De Donno sono stati assolti unicamente per le condotte contestate commesse dopo il 1993. Il cofondatore di Forza Italia invece è stato assolto solo per le condotte contestate nei confronti dei governi precedenti a quello di Silvio Berlusconi.
L’accusa del processo è rappresentata dai pubblici ministeri Nino Di Matteo, Vittorio Teresi, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.
MAFIA
Leoluca BAGARELLA
Per il boss Leoluca Bagarella la pubblica accusa aveva chiesto la pena più alta: 16 anni di reclusione per violenza e minaccia a corpo politico dello Stato. Il cognato di Totò Riina, assieme a Brusca ed i fratelli Graviano, è ritenuto il più fedele prosecutore della linea stragista del capo dei corleonesi Totò Riina dopo l’arresto del 15 gennaio 1993. C’è proprio Bagarella ai vertici di Cosa nostra quando bombe e stragi escono per la prima volta dalla Sicilia e colpiscono Roma, Firenze e Milano. E’ sempre lui che a un certo punto ispira la nascita di Sicilia Libera, il movimento politico che sarebbe dovuto essere diretta espressione dei clan mafiosi con le istituzioni. Ed è sempre il padrino corleonese che, così come raccontato da diversi collaboratori di giustizia, si allinea assieme a Graviano e Provenzano dirottando il sostegno politico verso il partito nascente Forza Italia.
Il cognato di Riina, dopo l’arresto avvenuto nel giugno 1995, è diventato noto alle cronache per quella lettera proclama in cui, annunciando uno sciopero della fame per protestare contro il 41 bis, accusava i politici di averli “umiliati”, “vessati”, “strumentalizzati” e “usati come merce di scambio”.
Giovanni BRUSCA
L’ex boss di San Giuseppe Jato, oggi collaboratore di giustizia, è stato il primo a parlare della “trattativa” nel ’96 (anche se risalgono a tre anni prima una nota del Sco della polizia e una della Dia che riferiscono di una “trattativa” in corso, ndr). L’accusa nei suoi confronti sarebbe di violenza e minaccia a corpo politico ma i pm avevano chiesto il “non doversi procedere per intervenuta prescrizione” data la circostanza attenuante prevista per i collaboratori di giustizia. Brusca, noto per aver premuto il pulsante del telecomando nella strage di Capaci, racconta come il dialogo aperto con Vito Ciancimino portò Riina a pensare che la strategia delle bombe pagasse: “Si sono fatti sotto, mi hanno chiesto cosa vogliamo per finirla e io gli ho consegnato un papello così” avrebbe detto il capo dei capi “circa 20 giorni dopo l’attentato a Giovanni Falcone” all’ex boss. Papello che Riina fece capire essere “andato a finire a Mancino”, aveva detto Brusca al processo.
E’ sempre l’ex boss di San Giuseppe Jato che più tardi si occupa di cercare il contatto con Dell’Utri attraverso Vittorio Mangano. Brusca, racconta di una riunione in cui, assieme a Bagarella aveva incaricato lo stalliere di Arcore di riprendere i contatti con Dell’Utri per arrivare a Berlusconi. Secondo l’accusa l’obiettivo era sempre quello di “svuotare il 41bis ed ottenere beneifici per detenuti per mafia. Un’interlocuzione che si prefiggeva di creare uno stabile rapporto per riavviare la trattativa per le esigenze di Cosa nostra. Brusca aveva detto a Mangano di esercitare forte pressione su Berlusconi, altrimenti avrebbero fatto altri attentati”.
Antonino CINÀ
I pm avevano chiesto per il medico di fiducia di Totò Riina, Antonino Cinà, 12 anni di reclusione per il reato di violenza o minaccia a corpo politico. Secondo l’impianto accusatorio, così come scritto nella memoria della Procura di Palermo, depositata a novembre 2012 nell’ambito dell’inchiesta sulla trattativa, i boss mafiosi Riina, Provenzano, Brusca, Bagarella e proprio il “postino” del papello Antonino Cinà, sono “gli autori immediati del delitto principale, in quanto hanno commesso, in tempi diversi, la condotta tipica di minaccia ad un Corpo Politico dello Stato, in questo caso il Governo, con condotte diverse ma avvinte dal medesimo disegno criminoso, a cominciare dal delitto Lima”.
Il papello, secondo la ricostruzione della pubblica accusa, è stato consegnato da Cinà al figlio di Vito Cincimino, il sindaco mafioso di Palermo con cui gli uomini del Ros si interfacciavano. Ma del papello e di Cinà avevano parlato, pur offrendo indicazioni diverse, anche Pino Lipari, Totò Cancemi, Giovanni Brusca e Nino Giuffré. Ed anche lo stesso Vito Ciancimino, nei primi interrogatori ai pm nel 1993, lo definì come interlocutore a cui avrebbe raccontato del colloquio con i carabinieri.
I boss deceduti Salvatore RIINA e Bernardo PROVENZANO
Non sono stati giudicati dalla Corte d’Assise i boss corleonesi Totò Riina e Bernardo Provenzano, entrambi accusati di essere i terminali della trattativa sul versante di Cosa nostra e deceduti al 41 bis, in quanto già condannati agli ergastoli per altri reati. Per Provenzano la posizione era già stata stralciata dal gup di Palermo, Piergiorgio Morosini, a causa delle gravi condizioni di salute di “Binnu”, deceduto il 13 aprile 2016, che non gli consentivano di seguire le udienze. Non si era perso nemmeno una “puntata” del processo, invece, Totò Riina, morto il 16 novembre 2017 presso il reparto detenuti del carcere di Parma, dove era stato ricoverato per essere sottoposto a due delicati interventi chirurgici. Il nome del Capo dei capi è venuto fuori più volte in corso di dibattimento: dagli strali contro il pm Nino Di Matteo (“ti farei diventare il primo tonno, il tonno buono”) alle parole sibilline di fronte agli agenti di polizia penitenziaria (“erano loro che cercavano me per trattare”), entrambi acquisiti al trattativa Stato-mafia. “Riina ha dimostrato di avere grande interesse per questo processo” ha ribadito Di Matteo durante la requisitoria. Tanto da aver inizialmente spinto il capomafia, in un inedito “cambio di rotta”, a dichiararsi disponibile a rispondere alle domande dei pm, salvo poi fare marcia indietro a causa delle condizioni di salute. Secondo i pm Riina “è stato il principale ideatore e artefice ed esecutore di quel vero e proprio ricatto allo Stato condotto a suon di bombe ed omicidi eccellenti. Successivamente c’è stata una evoluzione della trattativa con la individuazione, sotto l’aspetto del terminale mafioso, di Provenzano, a partire da una certa data in poi, quale soggetto mafioso più affidabile per trattare”. Le memorie dei due boss corleonesi, però, rimarranno sepolte insieme ai molti segreti di cui sono stati protagonisti quando scrivevano la storia di Cosa nostra e, inevitabilmente, anche della nostra Repubblica.
ISTITUZIONI
Mario MORI
Per Mario Mori, all’epoca dei fatti colonnello del Ros la pubblica accusa aveva chiesto 15 anni di reclusione per concorso nella minaccia al Governo. Secondo l’accusa l’ex colonnello sarebbe stato il principale promotore degli incontri con l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino per “capire come fermare le stragi”. Un’ iniziativa di cui però non riferisce alle autorità giudiziarie ma decide invece di cercare una copertura da alcuni politici.
La Procura di Palermo ha individuato due canali di contatto tra Mori e Cosa nostra, oltre a quello con Don Vito, ci sarebbe quello con l’ex esponente di Avanguardia nazionale, Paolo Bellini in contatto con il boss Antonino Gioè per lo scambio di opere d’arte rubate. Una sorta di ‘Seconda trattativa’ o ‘trattativa delle opere d’arte’ parallela a quella aperta con il sindaco mafioso.
Trattativa che poi sarebbe stata stroncata attorno alla fine del ’92 secondo la ricostruzione dei pm perché “c’era un’altra trattativa in corso che arrivava ai piani più alti del governo” così come avrebbe detto Gioè a Bellini.
Il “modus operandi” di Mori secondo l’accusa va “oltre” o “contro” le leggi e le “regole” e sembra abbia caratterizzato la sua carriera stando a quanto raccontato in aula dal colonnello Giraudo. Fin dal suo operato al Sid (ex Sismi e attuale Aisi), da cui poi viene allontanato nel ’75. Allontanamento che i pm hanno ipotizzato poter essere legato ad un suo possibile coinvolgimento nella Rosa dei Venti, tesi mai provata anche perché le indagini che stava conducendo il giudice istruttore Tamburino vennero accorpate a quelle sul golpe Borghese e tolte allo stesso Tamburino.
Più tardi, una volta al Ros, Mori è protagonista di controverse vicende investigative, dalla mancata perquisizione del covo di Riina alla mancata cattura di Provenzano. In entrambi i casi è stato processato ed assolto.
Antonio SUBRANNI e Giuseppe DE DONNO
Anche ad Antonio Subranni, generale ed ex comandante del Ros e Giuseppe De Donno, ex ufficiale del Ros i pm avevano contestato il reato di violenza o minaccia a corpo politico dello Stato chiedendo una condanna a 12 anni di reclusione. Entrambi, secondo l’accusa, avrebbero fatto da “anelli di collegamento fra mafia e Stato” assieme a Mario Mori. Secondo l’accusa dopo la morte di Lima, Subranni era in contatto con l’ex ministro della Dc, Calogero Mannino, che temeva per la propria vita.
“Intermediario” nel rapporto tra il politico ed il capo del Ros sarebbe stato il maresciallo Guazzelli, che verrà poi ucciso il 4 aprile del 1992. Secondo i pm quell’assassinio rappresenta un segnale anche per Mannino ed il Ros che poi “attiverà l’interlocuzione occulta con i vertici di Cosa Nostra che infatti, di lì a pochissimo, gli uomini di Subranni, Mori e De Donno, avvieranno con Vito Ciancimino”.
Subranni difronte ai magistrati ha sostenuto di non essere stato informato della trattativa nonostante in Antimafia abbia detto di aver saputo, a posteriori, che Mori dopo Capaci andava in Sicilia per incontrare il sindaco mafioso Don Vito.
Del capo del Ros ha anche parlato la moglie di Paolo Borsellino che raccontò come il marito, poco prima della strage di Via d’Amelio, gli confidò sconvolto che aveva saputo che Subranni era “punciuto”. Proprio a partire dal racconto di Agnese Piraino Leto, Subranni è stato indagato a Caltanissetta per concorso esterno in associazione mafiosa ma poi archiviato. Il nome dell’ex capo del Ros è stato tirato in ballo anche nell’inchiesta sul depistaggio delle indagini sulla morte di Peppino Impastato, secondo il pentito Francesco Di Carlo furono Nino e Ignazio Salvo, imprenditori mafiosi di Salemi (Trapani), a rivolgersi a Subranni per fare chiudere l’indagine sulla morte del giovane attivista.
L’allora capitano De Donno, invece, secondo l’accusa avrebbe eseguito le direttive di Mori, facendosi in questo modo anche lui tramite del dialogo con la mafia. E’ lui che avvicina il figlio di Don Vito, Massimo Ciancimino, per dare il via agli incontri con il sindaco mafioso di Palermo. Lilliana Ferraro, all’epoca del contatto Ros-Ciancimino reggente dell’ufficio affari penali, ha racconto a processo che, dopo la strage di Capaci, De Donno le aveva detto dei contatti intrapresi con Vito Ciancimino “e che volevano un sostegno politico, una condivisione politica perché Vito Ciancimino era un personaggio di prim’ordine”.
De Donno, fedelissimo di Mori, era presente nel giorno in cui si verificò il controverso episodio della mancata cattura del latitante Nitto Santapaola nel ’93, fuggito in seguito ad una sparatoria a Terme Vigliatore aperta dal Ros contro il figlio dell’imprenditore Imbesi scambiato per il latitante Aglieri. Sparatoria avviata poco dopo che il maresciallo Giuseppe Scibilia aveva scoperto la voce del latitante Nitto Santapaola in una pescheria a Barcellona Pozzo di Gotto.
De Donno poi, negli anni a seguire, ha raggiunto Mori al Sisde. Va infine ricordata la telefonata con cui il capitano, il 9 marzo 2012, si congratula con Dell’Utri per l’annullamento con rinvio del suo processo deciso dalla Cassazione: “Pronto, senatore come sta?’’. “Caro colonnello, ogni tanto qualche persona perbene si trova… mi fa piacere la sua telefonata’’. La chiamata poi si chiude con la decisione di cenare assieme, un dato che, come evidenziato dall’accusa durante la requisitoria, “dimostra un collegamento politico tra segmenti diversi della stessa trattativa”.
Marcello DELL’UTRI
La Corte, accogliendo la richiesta della pubblica accusa, ha condannato a 12 anni l’ex senatore Marcello Dell’Utri che sta già scontando la condanna a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo la ricostruzione dei pm il cofondatore di Forza Italia era l’uomo cerniera nella seconda parte della trattativa tra Cosa nostra ed i nuovi referenti politici, che trovavano espressione nel partito di Berlusconi insediatosi con l’appena nata Seconda Repubblica. Il braccio destro di Berlusconi in contatto con Vittorio Mangano e Giuseppe Graviano, sarebbe stato il canale utilizzato da Brusca e Bagarella per veicolare il messaggio intimidatorio all’uomo di Arcore. Il dialogo avrebbe portato al patto di “non belligeranza” con la sospensione delle bombe in cambio di norme per l’attenuazione del regime carcerario duro. Norme, come ad esempio il decreto Biondi, che il governo Berlusconi avrebbe provato a far approvare durante il proprio mandato.
Nicola MANCINO
Per l’ex senatore Nicola Mancino i pm avevano chiesto 6 anni di reclusione per falsa testimonianza.
Nel ’92 Mancino sostituisce Vincenzo Scotti al Ministero dell’Interno secondo l’accusa perchè “ritenuto più facilmente influenzabile da politici della sua corrente ed artefici della trattativa”.
L’ex senatore ha sempre affermato di non aver mai saputo nulla su una possibile trattativa e al processo sulla mancata perquisizione del covo di Provenzano, che vedeva imputati Mario Mori e Mauro Obinu ha negato di aver saputo dei contatti tra il Ros e Vito Ciancimino. Mentre l’ex guardasigilli Claudio Martelli afferma di averlo informato nel ’92 lamentandosi dell’operato di Mori e De Donno.
Tra il 2011 e il 2012 Mancino inizia un insistente serie di telefonate all’allora consigliere del capo dello stato Giorgio Napolitano, Loris D’Ambrosio, secondo i magistrati nel “tentativo di influire e condizionare l’attività giudiziaria degli uffici del pm e addirittura le scelte di un collegio di giudici” e “evitare il confronto con Martelli”. Tra quelle registrazioni, ritenute comunque non rilevanti dalla stessa Procura, vi erano anche alcune conversazioni con l’allora Capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Il contenuto di quelle intercettazioni non verrà mai reso noto con lo stesso Napolitano che chiese ed ottenne la distruzione delle stesse dopo aver sollevato un conflitto di attribuzione senza precedenti.
CAPITOLO Calogero MANNINO
Resta al di fuori di questa sentenza il capitolo riguardante l’ex ministro Calogero Mannino, giudicato con il rito abbreviato e assolto in primo grado dal gup di Palermo Marina Petruzzella, a novembre 2015, per non aver commesso il fatto.
L’ex senatore era accusato di violenza o minaccia ad un corpo politico dello Stato in quanto, secondo i pm, all’indomani dell’omicidio del democristiano Salvo Lima sarebbe stato lui a dare il primo input al dialogo che, tramite i carabinieri del Ros, ha visto protagonisti pezzi delle istituzioni e mafiosi. Mannino, sempre secondo l’accusa, si sarebbe prodigato per garantire un’attenuazione della normativa del carcere duro. L’ex ministro democristiano si è sempre difeso negando ogni coinvolgimento nelle vicende che gli sono state contestate, anche se sullo sfondo restano degli enormi punti interrogativi su certe condotte tenute.
IL TESTE IMPUTATO
Massimo CIANCIMINO
Otto anni sono stati dati a Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo e già in carcere per una condanna per detenzione di esplosivo. In questo processo doveva rispondere dell’accusa di calunnia e di concorso esterno in associazione mafiosa. Per quest’ultimo reato i pm avevano sollecitato il “non doversi procedere per intervenuta prescrizione”. La Corte invece lo ha assolto perchè il fatto non sussiste.
Ciancimino jr ha avuto un ruolo chiave nel procedimento, in cui è stato anche teste. Per alcuni è un personaggio “controverso e discutibile” ma indubbiamente ha il merito di aver raccontato ai magistrati episodi vissuti affianco al padre.
Il figlio di don Vito ha raccontato diversi dettagli di quel dialogo avuto tra il padre e gli ufficiali dell’Arma dopo la strage di Capaci descrivendo il padre come l’intermediario nella trattativa tra il Ros e Cosa nostra. Inoltre ha anche consegnato importanti documenti tra cui il papello (l’elenco delle richieste di Cosa nostra allo Stato). Tra il materiale consegnato alla procura di Palermo, Ciancimino ha dato anche un foglietto in cui compariva il nome dell’ex prefetto Gianni De Gennaro. Documento che poi le perizie hanno dimostrato essere stato manomesso, per questo la Procura lo ha accusato di aver calunniato l’ex prefetto.
A Ciancimino jr va comunque riconosciuto il fatto che con le sue dichiarazioni ha portato uomini delle Istituzioni come Martelli, Ferraro e Violante, a ricordare fatti mai raccontati prima.
Da: Antimafiaduemila
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