di Federica Giovinco
“Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili”.
ROSARIO LIVATINO, giudice siciliano ucciso il 21 settembre 1990 con una vera e propria esecuzione mafiosa da parte di quattro killer della Stidda.
Quattro. Lui era uno solo, senza scorta: “Meglio che muoia uno solo, piuttosto che di più”, sosteneva. Era a bordo della sua vettura in direzione tribunale quando fu braccato dagli assassini. Il giudice tentò la fuga a piedi ma venne colpito da un proiettile alla spalla, continuò la sua disperata corsa ma, raggiunto, venne freddato con un colpo in faccia. Un racconto crudo, senza eufemismi, perché la mafia non è un mito, non si fa scrupoli. No, la mafia è cruda, come crudo può essere scoprire che manca proprio dell’elemento che, da sempre, vanta di avere: l’onore. Quale onore spara in faccia ad un ragazzo di 38 anni?
38 anni aveva il giudice Livatino, quel “ragazzino” che indagò su Tangentopoli siciliana e confiscò parecchi beni ai mafiosi per bloccarne l’arricchimento. Non è un racconto così freddo che merita Rosario Livatino, non è un racconto che purtroppo basta alla gente per evitare di promuovere, ancora, la mafia. Così lascerei parlare Paolo Borsellino, un testimone della crudeltà mafiosa che con le sue parole di rabbia e tristezza riuscirà, certamente, ad entrare meglio nell’anima di chi, chiudendo gli occhi, riesce ad ascoltarlo:
“Non ho potuto evitare che in me insorgesse la mortificante sensazione del già visto, del già sentito, del già detto e del già fatto, come se ancora una volta, per inevitabile condanna storica fosse necessario sottoporsi a questo inevitabile ed inutile rituale. Del già visto, perché il viso innocente di bambino di Rosario, sforacchiato da colpi micidiali, che mi è apparso in fondo alla brulla scarpata sotto il lenzuolo bianco, il cui lembo non ho potuto fare a meno di sollevare, mi ha immediatamente richiamato alla memoria tanti altri visi di colleghi ed amici, colpiti anch’essi nella loro giovinezza o maturità dalle mani omicide che percorrono questa terra, impunite e con terrificante sicurezza di perdurante impunità. Del già sentito, perché subito dopo ho riascoltato esplodere lo sciacallaggio morale di chi, anche tra colleghi, non trova di meglio che addebitare alla stessa magistratura siciliana la responsabilità di questi tragici eventi, risollevando stantie argomentazioni razzistiche, che dimenticano come tutto quello che contro la mafia si è fatto in Sicilia è stato opera di magistrati siciliani e dei loro collaboratori, nonostante la scandalosa assenza delle altre Istituzioni dello Stato che vi dispiegassero doverosamente tutti i mezzi e gli sforzi dovuti.
[…] Del già detto, perché il macabro inutile rituale comprende anche un determinato periodo di lamentazioni da un lato e promesse dall’altro, l’une avanzate e le altre propinate quasi come un medicinale digestivo della tragedia, affinché dopo alcuni giorni più non se ne parli e ci si possa continuare ad occupare, senza distrazioni fastidiose, della crisi del Golfo e delle grandi civili riforme sanitarie o carcerarie.
[…]
Sì è vero, dopo ogni barbaro assassinio di giudici non si è verificato alcun cedimento né si è registrata alcuna defezione; anzi il lavoro è continuato con maggiori sacrifici e risultati apprezzabili. Ma abbiamo detto già due anni fa che l’impegno dei magistrati non poteva costituire alibi per le perduranti gravissime inadempienze che contribuiscono a tenere questa terra in preda alle organizzazioni criminali. Aggiungiamo oggi che questo impegno è allo stremo: a forza di spillar vino dalla botte questa si svuota. E qui non di vino si tratta”.
Non è la morte che li farà scomparire, ma lo sterile ricordo senza impegno nel proseguire la loro missione.
Federica Giovinco
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