di Lorenzo Baldo e Aaron Pettinari
I pm non fanno repliche ma rigettano “parole offensive e diffamatorie” delle difese
“Esaurita la discussione possiamo dichiarare chiuso il dibattimento e la Corte si ritira in Camera di consiglio”. Il presidente della Corte d’Assise, Alfredo Montalto, ha concluso così l’ultima udienza del processo trattativa Stato-mafia che si è tenuta presso l’aula bunker del Pagliarelli. Il penultimo atto, in un’aula improvvisamente tornata ed essere affollata di giornalisti italiani e stranieri, prima della sentenza che presumibilmente verrà emessa in questa settimana. A giudizio ci sono uomini delle istituzioni e boss di Cosa nostra accusati dalla procura di Palermo di aver intrattenuto un dialogo segreto durante la stagione delle bombe mafiose del 1992-1993. Prima della conclusione del dibattimento il pm Vittorio Teresi, presente in aula assieme al collega Roberto Tartaglia, ha preso la parola, non per le repliche ma per una breve dichiarazione: “Dopo difficili consultazioni abbiamo ritenuto non opportuno fare repliche. La corte può contare su un’ampia panoramica e può valutare che l’ipotesi dell’accusa è provata e non scalfita dalle argomentazioni delle difese”. In particolare il magistrato ha bacchettato “le espressioni estreme e inopportunamente polemiche di alcuni legali che hanno travalicato la dialettica processuale che invece non dovrebbe mai trascendere. Questa dialettica non ci appartiene, la respingiamo e la rimettiamo al mittente”.
Inoltre i pm hanno anche ribattuto alle richieste di acquisizioni documentali presentate alle scorse udienze dalla difesa Mori-Subranni-De Donno, in particolare ad alcune informative sull’inchiesta mafia-appalti che, a detta dei legali dei carabinieri, dimostrerebbero come già negli anni Novanta la Procura di Palermo fosse stata già messa a conoscenza delle intercettazioni in cui si parlava di Mannino e degli altri politici.
“Se verranno acquisite queste annotazioni – ha ribadito Teresi – noi chiediamo a controprova l’acquisizione delle informative consegnate nel 1991 ai dott. Lo Forte e Falcone, e quella del primo ottobre del 1992. Abbiamo rinvenuto entrambe le copie: nella prima informativa non comparivano i nomi di Mannino e degli altri politici mentre nella seconda erano tutti presenti”.
Dichiarazioni spontanee Mancino
Prima della fine del processo ha voluto prendere la parola l’ex ministro degli Interni, Nicola Mancino: “Sono accusato di falsa testimonianza, sono diventato l’emblema del processo Stato-mafia. Ma io ho sempre lottato la mafia, sono stato sempre contro l’attenuazione del carcere duro ai boss”. “Non ho mai chiesto di fare il ministro dell’Interno – ha ricordato tentando di smentire la tesi dei pm che vedrebbe nella sua nomina al Viminale uno degli indizi della trattativa passata per un ammorbidimento delle istituzioni verso la mafia – C’era l’esigenza di non lasciare solo Gava, ammalato, e spostarlo alla presidenza del Gruppo al Senato dove ero stato io fino ad allora”. Il suo appello finale alla Corte è partito dai primi atti da Ministro, a cominciare dal famoso giorno dell’insediamento, il primo luglio del 1992. “Quel giorno, appena eletto ministro dell’Interno, il capo della polizia mi disse che il dottore Borsellino voleva salutarmi. Ci fu solo una stretta di mano, solo quella – ha detto Mancino – nessun dialogo, lo ha detto anche il giudice Aliquò, che era presente. Tutto il resto è una grande congettura”.
Eppure, come ha ricordato il pm Di Matteo durante la requisitoria, nel corso degli anni la versione di Mancino è stata più volte rivisitata. Secondo l’accusa Mancino ha detto il falso nel corso del processo Mori-Obinu. Le sue dichiarazioni contrastano apertamente con quelle dell’ex ministro della giustizia Claudio Martelli che al tempo mise a verbale: “Mi lamentai con il ministro dell’Interno del comportamento del Ros. Mi sembrava singolare che i carabinieri volessero fare affidamento su Vito Ciancimino“. Martelli ha affermato senza mezzi termini di aver chiesto conto e ragione a Mancino dei colloqui riservati fra gli ufficiali del Ros e l’ex sindaco mafioso di Palermo, nell’estate del 1992. Mancino ha sempre negato quell’incontro. E lo ha affermato nuovamente anche oggi: “Non ho mai parlato del Ros e di Ciancimino con Claudio Martelli. L’incontro del 4 luglio 1992 con Martelli fu una visita di cortesia. Perché si crede a Martelli che all’inizio non ricordava neppure se avesse detto a Scotti o a me i suoi dubbi sul Ros e non si crede a me?”. Nel proseguire le sue dichiarazioni, paradossalmente, l’ex ministro ha persino citato le parole registrate in carcere di Totò Riina: “Nelle intercettazioni in carcere diceva di me: Ma che vogliono sperimentare… Mancino, un nemico numero uno, nemico della mafia e nell’interrogatorio con Lari, nel 2009, disse anche ‘escludo di aver parlato con Brusca di Trattativa e che dietro ci fosse Mancino… Brusca è un bugiardo…’”.
Infine è tornato sulle famose intercettazioni con l’allora consigliere giuridico del Quirinale, Loris D’Ambrosio: “Con le telefonate all’allora consigliere giuridico del presidente della Repubblica, Loris D’Ambrosio, non volevo assolutamente condizionare i magistrati di Palermo. Io chiedevo il coordinamento, non l’avocazione. Questo dissi all’ex presidente del Senato Grasso e lo riferii a D’Ambrosio. Confesso che la telefonata fu imbarazzante…”. “A posteriori penso che sarebbe stato preferibile non telefonare a D’Ambrosio. Ero preoccupato, eravamo in piena bufera giornalistica”. È l’ultima considerazione prima della fine del dibattimento. La Corte, dunque, si è ritirata e dovrà decidere se accogliere o meno le richieste di condanna dei pm ai vari imputati. Oltre a Mancino (chiamato a rispondere di falsa testimonianza), alla sbarra sono accusati a vario titolo di minaccia a Corpo politico dello Stato, concorso in associazione mafiosa e calunnia, boss come Leoluca Bagarella, pentiti, Massimo Ciancimino, Marcello Dell’Utri e gli ex vertici del Ros come Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno. Non resta quindi che attendere.
Foto © ACFB
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