di Franco Plataroti
Mentre parla, l’uditorio ascolta in un silenzio teso e trattenuto, partecipe. L’abilità oratoria fluida e lucida dell’ospite, di tanto in tanto, lascia affiorare i grumi dolenti della vicenda che da sedici anni, giorno più giorno meno, ha tagliato con un colpo netto lo srotolarsi quieto e ordinario della vita della famiglia Manca, proiettando un padre, una madre e un fratello in uno scenario giudiziario e personale drammatico o, peggio, surreale, ma inossidabilmente concreto e, per questo, tanto più doloroso.
Venerdì 31 gennaio. L’ospite è l’avvocato Gianluca Manca, fratello di Attilio, l’urologo ‘suicidato’ dalla mafia con la collaborazione dei segmenti deviati dello Stato, o viceversa. È questa verità che l’avvocato Manca snocciola con un garbo morale e una misura comunicativa che diventano calamite naturali del pubblico, ossia gli studenti e i docenti del liceo artistico statale “Renato Cottini” di Torino, ai quali si uniscono i volontari delle Agende rosse, il movimento nato dallo sforzo civico di Salvatore Borsellino per pretendere il ripristino di quel tessuto democratico che una fetta consistente della storia repubblicana pare aver fiaccato, indebolito, vilipeso. L’avvocato Manca, Gianluca come preferisce farsi chiamare sin dall’inizio in un rapporto confidenziale con l’uditorio, è una voce che il liceo e il movimento (sottoscrittori di un accordo nello scorso giugno che ha reso le Agende rosse torinesi ‘presidio permanente’ dell’istituto) hanno voluto risuonasse dentro una struttura scolastica, un avamposto di democrazia, come suggerisce il Dirigente scolastico, Antonio Balestra, proprio per rivendicare alla società civile il ruolo di vigilanza dei meccanismi della vita collettiva, a partire dai comportamenti di chi tesse, dall’alto, l’ordito della nostra realtà democratica.
E Gianluca dà forma alla sua voce, inizia a narrare, dopo aver fissato con una concentrazione dura e immobile le immagini del video di Gaetano Pecoraro de Le Iene (puntata del 5 dicembre 2017), proiettato al fine di dare un primo ragguaglio sugli aspetti inquietanti della vicenda Attilio Manca. Gianluca inizia a parlare, dunque, e costruisce un doppio spazio narrativo, la cui cesura è data dall’evento traumatico della morte di Attilio. Il primo spazio, la prima fotografia, come la definisce l’ospite, è il contesto locale, l’ambiente in cui i due fratelli crescono, ossia Barcellona Pozzo di Gotto, nel Messinese.
Gianluca cuce con bravura il perimetro di una realtà locale dentro il quale si impara presto che alle 19 c’è il coprifuoco, perché fuori si spara e si muore, così come si impara a discriminare il locale in cui entrare e quello dal quale uscire, perché magari vieni guardato in un certo modo dal barista che ti invita a non immischiarti con gli affaires dei commensali. Gianluca parte dal dettaglio, la rifrazione dei ricordi da ragazzo, poi allarga la scena, il focus si sposta alle relazioni pericolose, agli intrecci tra mafia locale, massoneria, pezzi deviati dello Stato, società civile, quel reticolo criminale che laurea Barcellona come avamposto della mafiosità: a ogni passaggio di un capo mafioso, un morto. Così fu per Graziella Campagna tra le ombre della latitanza di Gerlando Alberti junior, così fu per Beppe Alfano al passaggio di Nitto Santapaola e così è stato, dice Gianluca, per Attilio Manca nella cornice della latitanza di Bernardo Provenzano tra le pareti del convento barcellonese dei Frati Minori di Sant’Antonio.
Dentro quello spazio, nella “Corleone del terzo millennio”, nella cittadina che regala con prodigalità alla mafia stragista logistica e risorse, agiscono gli uomini e Gianluca disegna, con nettezza, lo spessore criminale dell’anello di giunzione tra mafia e massoneria, quel Rosario Pio Cattafi dalla carriera eccellente lungo il crinale della storia d’Italia che va dal ‘principe nero’ Borghese alla stagione degli attentati e delle bombe del ’92 e del ’93 a Ilaria Alpi e Miran Hrovatin e via dicendo. E nella prima fotografia, a questo punto, Gianluca inserisce Attilio, il giovane e brillante laureato che importa in Italia, da urologo, una tecnica innovativa di cura della prostata. Già, la prostata. Che ha un peso nella vicenda, perché quella di Provenzano è malata e u tratturi, il capo dei capi, così come racconta l’avvocato Manca, deve operarsi e vuole il migliore. E Barcellona gli regala Attilio Manca, in una affettuosa economia di scambio: noi – sono i barcellonesi a parlare – ti diamo Manca e tu, capo dei capi, dai qualcosa a noi. Ed ecco, attraverso il racconto che diventa argomentazione logica, Barcellona crescere, politicamente ed economicamente, sino a regalare addirittura una Miss Italia alla nazione.
Se Barcellona fiorisce, qualcuno, però, sfiorisce, Il quadro, con sapienza, si sposta, è la seconda fotografia, quella dell’appartamento, a Viterbo, di Attilio. 12 febbraio 2004, ai due colleghi che entrano in casa dell’urologo, si presenta una scena traumatica. Gianluca non risparmia i particolari, evitando qualsiasi enfasi declamatoria, è un obiettivo fotografico che inquadra il corpo del fratello: non livor mortis, ma ecchimosi diffuse, il setto nasale deviato, lividi circolari sulle caviglie e sui polsi, un testicolo enfiato, le mani come aggricciate, due fori sul braccio sinistro, quello di un mancino che si sarebbe iniettato della droga con la mano sbagliata. Si allarga, alla vista degli uditori, la scena: per terra, un peso da culturista rotto, due siringhe prive di impronte con i tappi per l’ago e per lo stantuffo inseriti, la temperatura dell’abitazione a 35° centigradi, utile, com’è noto, per eliminare la presenza di impronte digitali. Eppure, un’impronta palmare resta. E dall’impronta palmare si concretizza la figura di Ugo, un Manca anche lui, cugino di Attilio (e di Gianluca), quello che, come afferma l’avvocato, abita “a cinque passi” da casa loro, in un parallelismo con la vicenda di Peppino Impastato che non si ferma alla contiguità delle abitazioni fra parenti (non propriamente contigui sul piano delle scelte di vita), considerato che, così come si disse nell’immediatezza della morte di Impastato, anche la morte di Attilio viene derubricata dalla Procura di Viterbo come suicidio, provocato da un mix letale di droga, alcolici e tranquillanti. Per la Procura, suggerisce Gianluca, è lecito accogliere la versione di Ugo Manca secondo la quale quell’impronta risalirebbe al dicembre 2003, quando si sarebbe recato dal cugino per un’operazione di varicocele. E cosa ci sarebbe di male, se non che Ugo Manca è, con il resto della cricca barcellonese, uno degli assertori della tesi Attilio ‘drogato’? E dunque, ragiona l’avvocato con il pubblico attraverso il filo di un’ironia che si fa tanto più stringente quanto più robusta si fa la tracotanza dei protagonisti della vicenda, è normale che uno affronti un “viaggio della speranza” di ore tra Barcellona, Catania, Roma e Viterbo per andare da un cugino drogato a farsi un’operazione così semplice e risolvibile in qualsiasi ospedale?
Gianluca irrobustisce la voce, lasciando fluida la narrazione delle mirabolanti imperizie e delle lacune della Procura di Viterbo. Va bene, non riascoltiamo Ugo per capire come mai siano scomparse le impronte di sei amici andati a cena da Attilio una settimana prima della sua morte e siano invece rimaste le sue, va bene, lasciamo che passino gli anni utili per verificare i tabulati delle telefonate che accerterebbero una chiamata di Attilio alla madre la mattina dell’11 febbraio (quella di una giornata di cui non sono affatto chiari i contorni), va bene, fingiamo di credere che Attilio si sia picchiato da solo, abbia deviato il setto nasale cadendo sul materasso, si sia fatto due ‘pere’ con i guanti (mai trovati) e poi abbia avuto la gentilezza di rimettere debitamente a posto i tappi delle siringhe, va bene, accettiamo che, in tempi non sospetti, un commissario di polizia attesti in un verbale che l’urologo fosse in servizio in ospedale a Viterbo a fine ottobre (mentre Provenzano latitava di prostata a Marsiglia). Un attimo, però. Non va bene, se quel commissario è un signore che si chiama Salvatore Gava, allora Capo della Squadra Mobile di Viterbo, già condannato per un falso verbale alla scuola Diaz nei fatti di Genova, e non va bene soprattutto perché la redazione di “Chi l’ha visto?”, facendo ciò che avremmo dovuto fare noi – ammette Gianluca – verifica presso l’ospedale di Viterbo che, quella settimana famosa, Attilio non è in servizio in ospedale.
Si cuce, così, davanti al pubblico la tesi: Attilio sarebbe incappato in un latitante protetto dai servizi segreti deviati, nel quadro della trattativa Stato-mafia, avrebbe riconosciuto l’uomo operato e/o curato, avrebbe, forse, rivelato tale riconoscimento a qualcuno che, poi, lo avrebbe tradito, decretandone la morte. Vicenda inquietante, dai contorni frastagliati, dai nomi importanti. Come dice Gianluca rispondendo alla domanda di Carmen Duca, responsabile della sezione torinese delle Agende rosse, sull’interessamento dell’allora Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, alla vicenda di Attilio: “Perché il Capo dello Stato avrebbe chiesto chiarimenti sulle indagini concernenti un drogato suicida”?
È oltre un’ora che parla. L’avvocato Manca, Gianluca, giunge all’epilogo. “Dateci il nome di Provenzano”, dice, non avremo probabilmente una verità giudiziaria, né la vedranno i miei genitori, ma voi, rivolgendosi agli studenti, voi potrete forse accogliere una verità storica, una verità per cercare la quale siamo stati isolati, per la quale i miei genitori hanno visto gradualmente essiccarsi le amicizie e le visite domestiche. E con la voce ferma, venata di una qualche amarezza, aggiunge che lui e i suoi genitori credono nella giustizia, ma la giustizia la fanno gli uomini. E gli uomini non sono tutti uguali. Apostrofando con delicata convinzione gli insegnanti, precisa: “Noi abbiamo ricevuto un’educazione edulcorata, siamo stati protetti in una campana di vetro. Voi, voi abituate gli studenti all’esistenza del male”.
È con questa versione laica della morale manzoniana, quella del male che ti investe al di là della tua volontà e delle tue responsabilità, che l’intenso racconto di Gianluca, l’avvocato Manca, si avvia alla conclusione. Citando Garcia Lorca, l’ospite del liceo Cottini, chiosa, infine, così il proprio intervento: “La cultura costa molto, ma l’incultura costa ancora di più”. Subito dopo, iniziano le domande di un pubblico che ha accolto commosso la battaglia morale e civile di una famiglia intera che non vuole abbandonare il ricordo di Attilio. Urologo suicidatosi per conto di terzi. Quelli come Don Rodrigo, quelli che c’hanno il potere e lo usano contro terzi.