di Paolo De Chiara
INTERVISTA/Seconda parte.
ILARDO DIVENTA IL RIFERIMENTO DI PROVENZANO.
Parla il colonnello dei carabinieri: «Quando Ilardo mi fa comprendere, e arriviamo al 31 di ottobre (1995, nda), che c’è la possibilità di arrestare Provenzano io lo comunico a Mori. Ero abituato con il generale Dalla Chiesa. Parliamo di investigatori seri. Il generale mi avrebbe detto ‘se non hai la macchina, rubane una e vieni subito a Roma». Tutto ruota intorno alla figura del collaboratore di giustizia Luigi Ilardo, ucciso a Catania il 10 maggio del 1996, con otto colpi di pistola. Un omicidio eccellente? Un omicidio di Stato? I due si erano messi in testa di arrestare Provenzano, all’epoca la mente criminale di Cosa nostra. Ed era tutto pronto per il blitz. Binnu u tratturi, però, verrà arrestato undici anni dopo. Chi non ha voluto mettere le mani sul Capo della mafia siciliana?
Nella prima parte di questa lunga intervista con il colonnello Michele Riccio abbiamo affrontato il suo rapporto professionale con il collaboratore di giustizia Luigi Ilardo, cugino di Piddu Madonia, «organico alla famiglia» catanese, molto vicina al latitante di Stato Binnu Provenzano. «La famiglia di Piddu Madonia è quella che ha da sempre supportato le attività di Provenzano. Se Provenzano si è sempre reso invisibile al resto dell’organizzazione perché ha sempre contato sugli appoggi, anche in Palermo, della famiglia di Caltanissetta. Anche per la parte avversaria, ai suoi nemici nell’organizzazione, risultava invisibile», ha spiegato il colonnello Riccio.
I due avevano un obiettivo da raggiunge: scovare e arrestare il Capo dei Capi di Cosa nostra. Ilardo dimostra con i fatti la sua credibilità. Operazioni importanti cominciano a dare ottimi frutti: diversi latitanti, ad esempio, vengono tratti in arresto. Comincia l’avvicinamento, non basta la fiducia del colonnello e dei magistrati (quelli buoni). Deve cominciare a fidarsi pure il malandato boss dei Corleonesi.
Riprendiamo la nostra conversazione dal punto in cui i familiari di Ilardo assistono il vecchio e malato boss. «Provenzano invia una lettera, un primo appunto alla famiglia di Caltanissetta, che lui anche legge, che viene portato ad un imprenditore di Bagheria. Fontana, il quale deve imbucare delle lettere per conto di Provenzano dalla Calabria, destinazione Roma. Noi riusciamo a rintracciare le lettere. Abbiamo l’ulteriore conferma che Provenzano è vivo, né in Germania o morto, come allora si diceva.
Ilardo mi dice: ‘Guardi, se il capo militare è Riina, la vera mente dell’organizzazione è Provenzano’. Perché Provenzano è quello che sa più ragionare, molto più fine, molto più politico in confronto a Riina. Espone il paesano delle sue decisioni e lui può operare nell’ombra. Ad esempio, anche la scelta stragista è stata, pur accettandola, addebitata a Riina. E parte dell’organizzazione, mi dice Ilardo, si è rivolta a Provenzano. Il cui compito è quello di ricucire l’organizzazione in un unico corpo, spaccato in due fazioni: quella legata a Riina, Bagarella e soci e quella di Provenzano.
E mi dice che Provenzano è legato ai vecchi ambienti che gli hanno sempre consigliato di stare tranquillo. Mentre Riina, Brusca, Bagarella e gli altri si erano buttati nell’attività di fare soldi ed erano anche in contrapposizione con lo Stato, invece Provenzano suggeriva a loro di stare calmi, di ritornare ai vecchi reati di un tempo, con la forma meno di contrapposizione. ‘E vedrete che poi tutto si sistemerà’. Dal punto di vista politico, dopo aver tentato strade autonome come le Leghe, cominciavano a guardare con grande interesse, infatti Provenzano dice che avevano già stabilito dei contatti con gli ambienti di Berlusconi, con gli ambienti della nascente Forza Italia. Sarebbe stato il punto di riferimento di Cosa nostra, la quale aveva assicurato che avrebbe preso in considerazione tutte le esigenze e le aspirazioni dell’organizzazione. Sia per la gente ristretta in carcere e sia per quelli che stavano fuori, per riprendere le attività produttive e affaristiche dell’organizzazione. Questo, diciamo, è il quadro che noi ci troviamo con Ilardo.»
Riuscite ad individuare soltanto una lettera scritta da Provenzano?
«A questa prima lettera ne susseguono delle altre indirizzate direttamente a Ilardo. E Ilardo diventa il riferimento di Provenzano per la Sicilia orientale, ovvero la famiglia di Caltanissetta, di Catania, da parte di Santapaola, più i suoi contatti con Messina e delle altre parti. E Ilardo, a sua volta, gli rispondeva. A me veniva sempre da ridere. Per la prima volta Provenzano si scrive con un colonnello dei carabinieri, in fin dei conti leggevo le lettere e Ilardo preparava con me le risposte.»
Ilardo e Provenzano, in quella fase, si sono mai incontrati?
«No, ovviamente perché quando Ilardo comincia a ricevere le lettere si apre la prospettiva di un incontro. Auspicavo che si realizzasse al più presto, ma lui diceva: ‘Colonnello, lei non mi deve mettere fretta. Sarà lui che mi deve chiamare e se noi ci proponiamo diventa sospettoso. Noi con questa attività di arresti possiamo indirettamente stimolare un avvicinamento. Perché alla fine, mancando i riferimenti, ci sono solo io. Prima o poi mi manderà a chiamare. Sempre in maniera molto soft, perché dobbiamo stare attenti a non scoprirci. Altrimenti ci sarà il solito invito, mi toccherà andare e poi non torno.’ Noi rimaniamo in attesa, cominciamo a seguire i famosi bigliettini (i pizzini, nda) per avere una prima panoramica e sperare di avere la fortuna di poter individuare l’autore del bigliettino, che però quando arrivava a Bagheria – dopo alcuni passaggi – era più difficile. Perché non vai mai a capire quando, effettivamente, passa di mano in mano. Noi stabilivamo i contatti e iniziamo a fare quella famosa rete di fiancheggiatori che, poi, alla fine trarremo in arresto».
Lei, nell’agosto del 1995, passa dalla DIA ai Ros.
«Esatto. La nostra indagine trovava stimolo e alimento in De Gennaro. Mentre, come al solito, dalle altre parti, un po’ per invidia un po’ per altre scelte… già il fatto che eravamo in pochi a lavorare, producendo risultati, ricevendo mai nemmeno un ‘grazie’. Non dico che ci creasse delle ansie, ma non è che ci rendesse tanto sereni. Molte volte ci siamo ritrovati a lavorare non con la piena soddisfazione dei superiori perché venivano inquisiti i loro amici. Quando va via De Gennaro cerco di andare via. Mi sentivo isolato maggiormente e quando non ce l’ho fatta più rientro nell’Arma».
Però continua a curare i rapporti con “Oriente”.
«Quando mi presento al Comando generale dico che ho una fonte in Sicilia. Ho chiesto di essere messo in un posto da dove potevo passare la notizia a chi di dovere. Stavo lavorando sulla cattura di Provenzano».
Come viene presa questa notizia?
«Parlo con il mio collego, che io conoscevo già, del Comando generale che mi risponde: ‘Lei lo sa meglio di me, ci sono mille investigatori in questi ultimi dieci anni, tutti stanno lavorando su Provenzano’. Tutti stavano lavorando su Provenzano, tutti su Messina Denaro, ma bisogna vedere chi lo fa con cognizione di causa o lo fa solo perché ha l’aria in bocca. A me dicono: ‘non ti preoccupare, ti faremo sapere’. Nel frattempo vengo contattato dai Ros. E incontro il generale Subranni…»
Mi scusi, stiamo parlando del generale dei carabinieri, definito “punciutu” dalla signora Agnese, la vedova del magistrato Paolo Borsellino?
«Esatto, quello è. Quello è, che io già conoscevo perché era Comandante del Ros quando sono andato via. Dico a Subranni che non mi interessa rientrare nel Ros, voglio solo terminare questa operazione. Avevo intuito, con Ilardo era già un anno e mezzo che si stava lavorando…».
Cosa aveva intuito?
«Intuivo la portava importantissima e anche i contraccolpi che avrebbero creato ad Ilardo. Avevo capito che lui parlava dei rapporti con i mandanti esterni. E quando faceva i riferimenti, ad esempio, su Moschella, il giudice di Torino (magistrato della Procura di Torino e poi Procuratore a Ivrea, nda) si capiva dove saremmo arrivati. O altre situazioni del genere.»
Ad esempio?
«Sulla Calabria, lui andava in Calabria; sui contatti con i servizi segreti; sulle armi che uscivano dalle basi Nato e della Marina in Sicilia, a Sigonella; i rapporti con la massoneria. Faceva riferimento al mio ambiente, ai miei superiori. Essendo io colonnello non è che ce ne sono tanti sopra di me. Sapevo già dove sarebbe andata a finire una collaborazione del genere. Sarebbe stata dirompente. Giorno per giorno acquisivo ulteriori elementi. Tutto sarebbe venuto fuori.»
Come finisce l’incontro con Subranni?
«Mi dice: ‘ti aggreghiamo al Ros, gestisci la tua fonte e le confidenze che fa – lui ovviamente non sa che Ilardo è la fonte – e il Ros le sviluppa con un eventuale input per poter ampliare’. Così vengo aggregato al Ros. E i miei contatti sono di nuovo Mori, Obinu e il capitano del Ros di Caltanissetta».
Come reagiscono Mori e Obinu alle sue informative?
«Alla Dia, di ogni mia missione, facevo relazioni scritte di servizio con quanto mi diceva Ilardo. Quello che mi diceva me lo appuntavo velocemente su delle agende, ovviamente in maniera sintetica, in modo da fare subito memoria, e facevo la relazione di servizio che mandavo alla sede centrale della Dia, che poi venivano indirizzate alle sedi competenti. Qualcosa di più urgente la dicevo a Catania e a Palermo. Ad esempio, a Catania avevo stabilito un ottimo rapporto lavorativo con due ispettori della Dia, Ravidà e Arena, molto seri che, con il loro PM Marino, lavoravano come lavoravamo noi. (Con l’ausilio dei due Ispettori, e grazie alle indicazioni di Ilardo, non mancano i risultati: come la cattura dei capi mafia Aiello Vincenzo (contabile famiglia Santapaola-Siino Catanese); Tusa Lucio capo di una fazione di Cosa nostra operante a Catania ma che dipendeva dai Tusa di Caltanissetta; Fragapane Salvatore, capo della Famiglia di Agrigento. Senza dimenticare l’indagine della DIA di Catania, con la quale vengono azzerati i vertici di “cosa nostra” catanese, con l’identificazione e l’arresto del capo famiglia Aurelio Quattroluni – op. “Chiara luce”, con l’arresto di circa 50 affiliati in due distinte operazioni. Tutti appartenenti al clan Santapaola, responsabili di omicidi ed estorsioni, (fonte Mario Ravidà, ex Ispettore Dia). Efficaci, determinati e seri.»
Alla Dia inviava le sue relazioni di servizio. Cambia qualcosa una volta transitato nel Ros?
«Mori mi fa subito presente di non fare relazioni di servizio. Una nota stonata. Soprattutto per la mia tutela, non farle era fuori da ogni logica. Io rispondo che sono abituato a fare le relazioni. Poi poteva farne ciò che voleva. Avevo i miei contatti con l’autorità giudiziaria, il dott. Caselli mi aveva indirizzato al dott. Pignatone e, quest’ultimo, sapeva che facevo le relazioni di servizio. La prassi era sempre la solita. Ho sempre avuto il riscontro delle relazioni e dei rapporti inviati a Palermo. E, in questi incontri (al Ros, nda), mi dicono di non scrivere i nomi dei politici. Ovviamente era una politica a loro vicina, ma io ho sempre scritto tutto ciò che mi dicevano. Questo è il primo indirizzo che mi lascia un po’ perplesso».
Perché queste richieste? Qual è la sua opinione?
«In quel momento l’ho vista una cosa fuori luogo. Magari, ho pensato, come strategia. Magari non si mette tutto per iscritto e un domani mettiamo una selezione di quello che dicono.»
Ma da parte dei suoi superiori (Subranni, Mori, Obinu) c’era l’interesse di mettere le mani sul latitante mafioso Provenzano?
«Non l’ho vista in una mentalità subito omissiva. L’ho vista in una maniera strategica, nel senso ‘domani scriviamo le cose selezionate’. Ma io non sapendo le scelte che avrebbero potuto fare e sapendo che mi trovavo in Sicilia, e che una Procura tante volte ha un indirizzo diverso dalle altre, dissi: ‘Mi dispiace, ma scrivo tutto’. Anche perché non è una risultanza mia, investigativa. Ilardo me la dice oggi ed è convinto che tutto ciò che mi dice viene subito rappresentato. Il rapporto è diverso, non è frutto di una indagine, che posso scriverla oggi e integrarla domani. Quando c’è un collaboratore di giustizia è diverso. Ilardo aveva completa fiducia in me e non potevo tradire questa fiducia che aveva nelle Istituzioni. In quel momento Ilardo si affida alle Istituzioni. Non vede in me solo il colonnello dei carabinieri, ma vede lo Stato».
Ma lei notava un interesse da parte dei suoi superiori?
«In quell’istante non ho nessuna sensazione negativa. A Mori riferisco tutta l’attività che ho fatto con la Dia, gli consegno le copie delle relazioni che avevo mandato alla Dia. Perché, ovviamente, non poteva iniziare un’indagine senza sapere il passato. Era lui il responsabile e io l’investigatore di punta. Credevo di essere. L’ho reso edotto di tutto. E anche i primi contatti che riprendo con Ilardo in Sicilia, in attesa di entrare, perché non è che io entro subito nel Ros, passano un paio di mesi per formalizzare il mio ingresso. Però, già in quei mesi, faccio riferimento a loro. Tanto è vero che gli mando le relazioni della Sicilia. Quando vado a Catania e incontro Ilardo, anche se non sono organico, faccio la relazione a Mori. Non è che andavo in vacanza a Catania, a mangiare il gelato con Ilardo. Sono andato perché c’erano necessità investigative. In quel momento non ho nessun sospetto che loro non vogliano prendere Provenzano.
Quando Ilardo mi fa comprendere, e arriviamo al 31 di ottobre (1995, nda), che c’è la possibilità di arrestare Provenzano e io lo dico a Mori, già il fatto che quando la mattina gli telefono dicendo ‘Guardi, tra due giorni Ilardo si deve incontrare con Provenzano’, Mori non mi dice ‘vieni immediatamente a Roma e parliamone’. Già questo lo giudico male. Ero abituato con il generale Dalla Chiesa, anche se loro dicono di aver lavorato con il generale ma non ci hanno mai lavorato, al massimo pochi mesi. Io, insieme ad altri, ci ho lavorato sin dall’inizio e conosco la mentalità del generale. Parliamo di investigatori seri. Il generale Dalla Chiesa mi avrebbe detto ‘se non hai la macchina, rubane una e vieni subito a Roma e raccontami tutto’. I tempi erano così stretti, per cui non si poteva parlare per telefono di cose così importanti che necessitano di decisioni tempestive».
E cosa accade?
«Vado subito a Roma e quando presento il fatto e dico ‘guardate, se voi non avete la possibilità di utilizzare i segnalatori’, perché mi ero già attrezzato per prendere Provenzano. Già in passato, quando lavoravo al Ros ho arrestato dei trafficanti sotto copertura, nascondevo dentro al carico dei segnalatori che mi dava l’Ambasciata americana, in modo che ero ulteriormente tutelato per non perdere il carico. Perché può succedere di perdere un pedinamento e per una ulteriore garanzia ci mettevo un segnalatore dentro. Per cui Mori era a conoscenza di queste mie capacità di avere questi dispositivi elettronici, che erano semplici GPS. Allora erano più sofisticati, utilizzati dai piloti americani quando venivano abbattuti per segnalare la loro posizione.
Avevo preparato una cintura e con Ilardo avevamo anche fatto delle prove. E gli dico: ‘quando ti trovi di fronte a Provenzano, per dare a noi la certezza, sposta il pulsante verso la fibbia’. Il segnale da intermittente diventava continuo. Per cui avendo la certezza che Ilardo era di fronte a Provenzano nel giro di pochi istanti, anche perché avevamo fatto tante prove ed eravamo abili ad utilizzare quegli strumenti, potevamo intervenire circondando il posto. Per arrestare il latitante».
E Mori cosa le comunica?
…
Fine seconda parte/continua
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Tratto da: www.wordnews.it