di Aaron Pettinari
Arringa dei legali dell’ex ministro che chiedono l’assoluzione
“Il Presidente Mancino non ha mentito”; “ha subito accuse mediatiche” fino a diventare “emblema della trattativa”; “ha sofferto” nel “sentire accostare il suo nome, in ogni singola udienza, a quello di mafiosi eccellenti presenti nell’elenco degli imputati” mentre l’accusa dei pm è basata su “supposizioni” e “congetture”.
E’ questo il let motive dei legali dell’ex ministro degli Interni Nicola Mancino (oggi presente in aula), Massimo Krogh e Nicoletta Piergentili Piromallo durante l’arringa al processo trattativa Stato-mafia. I due avvocati hanno chiesto alla Corte, presieduta da Alfredo Montalto, l’assoluzione del proprio assistito (“perché il fatto non sussiste”) in risposta alla richiesta di condanna a 6 anni per il reato di falsa testimonianza, contestato dall’accusa.
Conversazioni con il “Quirinale”
Una discussione di poco più di due ore in cui tutto viene “normalizzato”, persino quelle telefonate intercorse con il Quirinale, ed in particolare con il Consigliere giuridico Loris D’Ambrosio (deceduto il 26 luglio 2012), chiedendo un intervento diretto per il controllo delle indagini che in quel momento erano ancora in corso. “Mi preoccupavo del coordinamento e non chiedevo un’avocazione” ha detto lo stesso Mancino in aula durante precedenti dichiarazioni spontanee. Eppure le telefonate intercettate dalla Dia raccontano di un tentativo di insabbiare l’inchiesta, di depotenziarla, in qualche maniera di strapparla ai pm di Palermo.
Tra i vari dialoghi c’è un chiaro riferimento alla lettera inviata il 4 aprile del 2012 dal segretario generale della Presidenza della Repubblica, Donato Marra, al procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, nella quale venivano chieste informazioni “sul coordinamento delle inchieste fra le procure di Palermo, Caltanissetta e Firenze sulla trattativa”. Che dietro alla parola “coordinamento” si nascondesse altro è implicito nella risposta data dall’allora Procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso il quale “precisa di non avere registrato violazioni del protocollo del 28 aprile 2011, tali da poter fondare un intervento di avocazione a norma dell’articolo 371 bis codice di procedura penale…”.
E nel tentativo di spiegare che quelle intercettazioni venivano svolte quando Mancino “ancora non era iscritto nel registro degli indagati” per “verificare se vi potessero essere eventuali versioni concordate” in vista delle audizioni di Mancino, Conso, Capriotti e Subranni. “Nessun dialogo – ha detto l’avvocato – tra Mancino ed esponenti delle istituzioni, nessuna telefonata parla di quello che si andrà a dire”.
Ironia della sorte vuole che da parte del Quirinale, però, vi è il suggerimento di concordare una versione di comodo con Martelli in vista del confronto che i pm volevano effettuare tra i due ex ministri (“Qui il problema che si pone è il contrasto di posizione oggi ribadito pure da Martelli… e non so se mi sono spiegato (…) la posizione di Martelli… tant’è che il Presidente ha detto: ‘Ma lei ha parlato con Martelli?’… eh… indipendentemente dal processo diciamo così”).
L’incontro con Borsellino
Nella ricostruzione dei legali dell’ex Presidente del Senato si riduce in poche battute la vicenda dell’incontro del primo luglio con il giudice Paolo Borsellino, ancora una volta basandosi soltanto sulle ultime dichiarazioni di Mancino che, diversamente da quanto fatto più volte in passato, non ha escluso di averlo incontrato e di avergli stretto la mano.
“Nicola Mancino – ha detto la Piergentili Piromallo – ha affermato in più occasioni che poteva avere incontrato il primo luglio del 1992 Paolo Borsellino, ma non vi era stato alcun colloquio che avesse per oggetto la trattativa”. Ma non è questo il dato che viene evidenziato nella requisitoria dei pm di Palermo. “Fino al 2010 – aveva ricordato il pm Antonino Di Matteo – Mancino aveva sempre sostenuto di non avere alcun ricordo dell’incontro con il giudice Borsellino tramite un’argomentazione poco plausibile: ‘anche se lo avessi incontrato probabilmente non lo avrei riconosciuto’. In Commissione antimafia, l’8 novembre 2010, affermava che ‘rispetto al presunto incontro tra il Ministro dell’Interno e Borsellino, ho sempre sostenuto di non aver mai incontrato Borsellino. Escludo di aver avuto con lui un colloquio. Avrò anche potuto stringergli la mano’. Dopo il 2010, quando la questione è stata dibattuta mediaticamente, sentito in aula cambia versione e ricorda addirittura il dato che l’incontro, che si continua a raccontare come un semplice saluto, fu anticipato da una comunicazione del capo della polizia Parisi che chiese la disponibilità ad incontrare il giudice Borsellino”.
La doppia ala di Cosa nostra
Quelle dichiarazioni “oscillanti e contraddittorie”. Lo stesso valeva per le dichiarazioni, espresse davanti alla Commissione antimafia, in cui Mancino esprimeva la sua consapevolezza, già nel 1992, di una spaccatura tra l’ala stragista di Cosa nostra di Riina e quella moderata di Provenzano. Per i legali si trattava di un “riferimento alla mafia locale, di una fazione dell’associazione criminale che voleva evitare lo scontro forte e diretto per coltivare i propri interessi, quelli degli appalti, della attività di impresa impresa, del traffico di droga e della corruzione” e non riferito alla “trattativa”. Eppure che vi fosse una spaccatura in Cosa nostra, non emergeva da alcuna relazione degli apparati investigativi.
Il “nodo” Martelli
Ma è ovvio che la questione principale, che poi rappresenta l’oggetto della falsa testimonianza, è strettamente legato alle discrepanze emerse nel confronto con altri esponenti della politica, come Vincenzo Scotti e Claudio Martelli, che come lui erano in carica nel biennio 1992-93. In base al capo di imputazione Mancino sarebbe stato mendace e reticente su quanto a sua conoscenza rispetto “ai contatti intrapresi dopo la strage di Capaci tra esponenti delle istituzioni del Ros con Vito Ciancimino e Cosa nostra, sulle lagnanze del ministro della Giustizia Claudio Martelli rispetto l’operato di Mori e De Donno e riguardo le motivazioni che provocarono l’avvicendamento di Scotti al ministero dell’Interno”.
Per difendere il proprio assisto gli avvocati hanno letto alcuni passi della sentenza di assoluzione di primo grado nei confronti dell’ex generale del Ros Mario Mori, tra gli imputati del processo trattativa, dall’accusa di favoreggiamento del boss Bernardo Provenzano.
In particolare è stato letto il passo in cui si parla dei ricordi “non sempre limpidi di Martelli”, “influenzato da quanto appreso a posteriori” e “preso probabilmente a rappresentarsi come paladino dell’antimafia”. Quindi ha ricordato che il tribunale non trasmise mai gli atti della deposizione dell’ex ministro democristiano. Anche se quelle valutazioni, del tutto gratuite, riguardavano fatti che non rappresentavano il tema principale di quel processo.
Tuttavia è in quel dibattimento che, secondo i pm si sarebbe realizzata la falsa testimonianza. Mancino, infatti, venne citato a deporre e fu messo a confronto con l’ex ministro della Giustizia Claudio Martelli. In particolare per l’accusa Mancino mentì quando disse che l’ex Guardasigilli non gli aveva mai parlato di incontri tra Mori e l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino.
Avvicendamento al Ministero
Altro tema toccato è quello dell’avvicendamento al Ministero degli Interni. “Mancino sarebbe stato reticente sulle questioni inerenti i contatti deviati e la nomina o meno di Vincenzo Scotti a ministro dell’Interno, che il pm dice sarebbe stato un ministro più rigoroso nei confronti della criminalità – ha detto l’avvocato Massimo Krogh – Era un fatto abbastanza notorio che Scotti avesse rinunciato ad ministero per l’incompatibilità del ruolo ministeriale che il mandato parlamentare, che per ragioni sue intendeva conservare, ma è chiaro che Mancino non potesse testimoniare su fatti che, seppure notori, appartenevano alle decisioni di Scotti”. “L’imputato dovrebbe sapere ciò che pensava Scotti e noi, a nostra volta – ha aggiunto Krogh – per trarre la conclusione che l’accusa sottintende, dovremmo sapere che Scotti sarebbe stato più duro di Mancino verso la criminalità”.
Per smentire quella che viene definita una “scelta personale” figlia di una “scelta politica”, basta rileggere la parole dello stesso Vincenzo Scotti, dette il 20 marzo 1992 davanti alle Commissioni Affari Costituzionali e Interni della Camera dei Deputati. “Nascondere ai cittadini che siamo di fronte a un tentativo di destabilizzazione delle istituzioni da parte della criminalità organizzata – aveva dichiarato Scotti prima delle stragi di Falcone e Borsellino – è un errore gravissimo. Io ritengo che ai cittadini vada detta la verità e non edulcorata. Io me ne assumo tutta la responsabilità. Se qualcuno ritiene che questo non sia vero sono pronto alle dimissioni ma per questa ragione, ma non cedo il passo su questo terreno, ho detto che l’allarme sociale è altissimo e la gente deve sapere queste cose. Siamo un Paese di misteri e io non intendo gestire il ministero degli Interni con una condizione di silenzio o di misteri e senza mettere su carta le cose che si fanno”.
Sempre Scotti aveva parlato dell’isolamento politico ricevuto nel momento in cui, assieme a Martelli, aveva iniziato a lavorare sul decreto legge relativo al carcere duro per i mafiosi, il famoso “41 bis”.
“Nel mio stesso partito, come nel partito di Martelli – aveva sottolineato in un’intervista a Repubblica del 21 giugno ’92 al giornalista Giuseppe D’Avanzo –, c’è chi sarebbe molto contento che entrambi ce ne tornassimo a casa. Ho l’impressione sempre più acuta che prima ci leviamo dai piedi, più gente sarà soddisfatta. E soddisfatta certamente sarà la mafia quando il nuovo governo invece di sviluppare con coerenza un piano operativo, già delineato, ricomincerà daccapo come se nulla fosse in questi mesi, in questi anni, accaduto”. All’epoca, però, quell’allarme di Scotti nei confronti dei rischi di attentati era stato parificato ad una “patacca” perfino dall’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti.
Ovviamente non poteva mancare l’attacco alla testimonianza di Massimo Ciancimino, “inattendibile e condannato di recente a sei anni per calunnia”, così come l’elogio per l’operato “sempre contro la mafia e tutte le criminalità organizzate” da parte dell’ex Senatore. “E sempre stato contro l’attenuazione del 41 bis” ha voluto sottolineare l’avvocato Piergentili che ha precisato come “è lo stesso Conso ad aver detto di aver agito in assoluta autonomia” nella decisione di non prorogare oltre trecento “41 bis” nel novembre del 1993. Eppure nel corso del processo ci sono state deposizioni come quella dell’ex direttore del Dap, Nicolò Amato, per cui in un episodio tra febbraio e giugno 1993 “il ministro Giovanni Conso si preoccupava che vi fosse il consenso del ministro dell’Interno Mancino sull’applicazione dei 41 bis”.
Su una cosa si può essere d’accordo con i legali di Mancino che hanno ricordato le testimonianze discordanti tra Martelli ed altri testi come, i generali Tavormina e Delfino, Giuliano Amato e ancora l’ex capo del Dap Nicolò Amato. “Perché per nessuno di loro c’è stata una imputazione di falsa testimonianza?” si è chiesta l’avvocato Piergentili. In questi anni di dibattimento, tra smemorati di Stato che hanno riacquistato la memoria solo a vent’anni di distanza, reticenze e mezze verità, effettivamente, l’elenco degli imputati avrebbe meritato di essere ancora più lungo.
Dossier Processo trattativa Stato-Mafia
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da: AntimafiaDuemila