Era il 24 aprile 2018 quando il Prof. Fiandaca scriveva su Il Giornale testualmente: “Trattativa Stato-mafia una boiata pazzesca, Di Matteo populista”. Sono passati solo quattro giorni dalla camera di consiglio della Corte di Assise di Palermo che ha condannato gli imputati Leoluca Biagio Bagarella (a 28 anni), Antonino Cinà (a 12 anni), Marcello Dell’Utri (a 12 anni), Mario Mori (a 12 anni), Antonio Subranni (a 12 anni), Giuseppe De Donno (a 8 anni) e Massimo Ciancimino (a 8 anni) e assolto l’ex ministro Nicola Mancino, al quale era contestato il reato di falsa testimonianza.
Oggi dopo un lungo silenzio il professore se la prende con i giudici popolari perché “le questioni giuridiche emergenti” erano “troppo sottili per la componente laica della corte d’Assise”. Insomma: erano digiuni di diritto. Questo indirettamente vuol dire che mentre prima gli attacchi erano impersonali oggi il giurista individua un destinatario preciso Antonino Di Matteo, il pm che rappresentava l’accusa al processo. Non entro, e mai lo farò, nel merito della disputa giuridica non conoscendo gli atti nel dettaglio. Esprimo soltanto il mio dissenso più totale per chi definisce la magistratura inquirente e quella giudicante colpevole di avere “una sorta di pregiudizio mafiocentrico o criminocentrico nell’interpretare la storia politica del nostro Paese”. Ho studiato sui libri del Prof. Fiandaca e l’impostazione del suo pensiero è strettamente formalista a differenza di un altro colosso del diritto penale il Prof. Ferrando Mantovani che nel suo pensiero inglobava anche la funzione storica e filosofica del diritto penale moderno. Una funzione non solo e assolutamente formalistica ma anche storico-filosofica. Diritto penale e storia sono connessi fra loro ed è proprio quest’ultima a creare l’impianto giuridico accusatorio che ha poi permesso il successo dell’impianto probatorio in dibattimento con le conseguenti condanne. Le sentenze giuste o ingiuste si rispettano e non si “attaccano” i magistrati che rischiano la vita ogni giorno. Instillare nei giovani il dubbio di un senso di fallacità (quasi voluta) da parte di chi indagava, è molto grave soprattutto in un momento storico in cui c’è fame di educazione alla legalità soprattutto da parte delle nuove generazioni.
La “Trattativa Stato-mafia” non è una “boiata pazzesca” e questo linguaggio a mio giudizio non si addice per nulla al contesto in questione. Questa, tuttavia, è e resta solo la mia libera opinione. Caro professore, la prova regina della trattativa e quindi della sua esistenza (per ora anche giuridica) purtroppo è la realtà. L’Italia è l’emblema del decadimento politico-culturale, declino di una classe dirigente inghiottita da un’etica criminale e pervasa da continui rapporti tra uomini di Stato e criminalità organizzata. Sono tanti i casi concreti che ci consentono di poter affermare che pezzi delle Istituzioni hanno sempre fatto “affari” con le mafie. I rapporti tra i due poteri sono sempre stati solidi e proficui per entrambi. A titolo di esempio, basti ricordare i fratelli Greco esattori statali in Sicilia, poi giudizialmente riconosciuti mafiosi. Il politico Ignazio Salvo ucciso dalla mafia per contrasti tra cosche ed egli stesso mafioso che aveva dato garanzia del suo interessamento affinché in Cassazione la sentenza del maxi processo venisse annullata. Secondo i collaboratori di giustizia dell’epoca, il delitto fu eseguito per lanciare un avvertimento a Giulio Andreotti. Il sindaco di Palermo Vito Ciancimino condannato per mafia e più volte in affari con pezzi delle istituzioni. Lo scandalo del colonnello dei servizi segreti che si recava a far visita in carcere a Raffaele Cutolo perché intercedesse presso le brigate rosse che tenevano prigioniero Aldo Moro. E ancora la strage del treno Italicus, addebitata al camorrista Misso che a detta della magistratura avrebbe agito su commissione dei servizi. Sono ovviamente soltanto piccolissimi esempi concreti e al tempo stesso inattaccabili.
Le mafie fin dal loro apparire hanno sempre svolto la funzione di “cani da guardia” del potere costituito, il loro principale compito era, ed è, di tenere sotto controllo e garantire gli “affari” tra mafie e potere centrale. Quali siano oggi i rapporti tra crimine organizzato e Stato sono noti a tutti gli esseri umani di buon senso e finalmente dopo tanto tempo, è anche un organo giudiziario a dirlo grazie al grande lavoro di Antonino Di Matteo. E’ un dato di fatto – e di diritto – ormai che i rapporti tra i due poteri siano talmente stretti che è impossibile distinguere l’uno dall’altro. E’ impossibile colpire duramente il crimine organizzato senza danneggiare, in alcuni casi, anche il tessuto istituzionale. Le mafie si sono insinuate ovunque con l’approvazione del potere politico. Anzi non di rado la politica dipende dal potere mafioso: le mafie costruiscono le basi clientelari che poi divengono bacini elettorali per molti politici. Ovviamente, questo non significa che esiste una pace idilliaca tra le varie organizzazioni mafiose e i politici che le appoggiano. Oggi in Italia non ha senso parlare di questo o quel partito è molto più corretto parlare di questa o quella corrente politica legata a un clan piuttosto che a un altro. Si può legittimamente sostenere che trattare con la mafia non sia reato, però, non si può al tempo stesso omettere di evidenziare che nessun politico o uomo delle istituzioni alla sbarra è accusato del reato di trattativa. Il capo d’imputazione è minaccia contro un corpo politico-amministrativo dello Stato: la mafia fece pervenire richieste per interrompere la strategia stragista in atto. Minacciò lo Stato per estorcergli benefici e più di qualche uomo delle Istituzioni potrebbe aver agevolato la minaccia. Nessuno è stato incriminato dalla Dda di Palermo per aver ceduto in qualche modo alla trattativa, infatti, Conso o Mancino ad esempio devono rispondere di falsa testimonianza. Fiandaca ha sempre cercato di dimostrare l’inconsistenza della stessa ragion d’essere dell’inchiesta, sostenendo la “nobiltà d’intenti della trattativa”, finalizzata a liberare lo Stato dai tentacoli di una mafia vincente. Prima di tutto va detto che non era il Paese sotto assedio, ma solo un ristretto numero di politici, condannato a morte da Cosa Nostra per non aver mantenuto patti scellerati e inconfessabili. Non possiamo e non dobbiamo neanche dimenticare che la trattativa ha sì salvato la vita a qualcuno ma ha sacrificato però il suo più strenuo oppositore, un certo Paolo Borsellino! Quindi di apprezzabile in quest’azione non ci vedo nulla, anzi definirei una simile condotta quantomeno inopportuna!
Vincenzo Musacchio, già docente di diritto penale
presso l’Alta Scuola di Formazione della Presidenza del Consiglio in Roma