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Stato-mafia, la difesa Dell’Utri chiede il ”Ne bis in idem”

di Aaron Pettinari

Ne bis in idem” è questo lo scudo dietro cui la difesa di Marcello Dell’Utri si trincera per contrastare la richiesta dei pm di condanna a dodici anni per il reato di minaccia a Corpo politico dello Stato nel processo che vede imputato l’ex senatore assieme agli ex vertici del Ros (Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno), boss come Leoluca Bagarella e Antonino Cinà e pentiti come Giovanni Brusca.
Secondo l’avvocato Giuseppe Di Peri per Dell’Utri, che già sta scontando una condanna a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, va applicato il principio che vieta di essere processati due volte per lo stesso fatto in presenza di una sentenza definitiva perché quel che conta per la configurazione del “ne bis in idem” non è il reato contestato ma i fatti oggetto dell’imputazione. “Il fatto – ha spiegato Di Peri alla corte d’assise di Palermo che sta celebrando il dibattimento – è esattamente lo stesso e cioè l’esistenza di quel patto politico-mafioso che avrebbe visto Dell’Utri protagonista ritenuto però inesistente da una corte d’appello e poi dalla Cassazione. Avrei dovuto chiedervi una sentenza di non doversi procedere all’inizio del processo ma non l’ho fatto anche per rispetto ad alcune decisioni della corte che in principio ha più volte detto di non essere in grado di esprimersi in una fase in cui l’istruttoria era appena cominciata“. In quella stessa sentenza passata in giudicato i giudici avevano assolto l’ex politico di Forza Italia, con la formula “perché il fatto non sussiste”, per i fatti successivi al 1992. Tuttavia la Suprema Corte di Cassazione ha riconosciuto che per 18 anni, dal ’74 al ’92 è stato il garante “decisivo” dell’accordo tra Silvio Berlusconi e Cosa nostra sottolineando la “decisività dell’opera di Dell’Utri nel dare vita all’accordo fonte di reciproci vantaggi dei contraenti” fornendo “consapevolmente e volontariamente un contributo causale determinante che senza il suo apporto non si sarebbe verificato, alla conservazione del sodalizio mafioso e alla realizzazione, almeno parziale del suo programma criminoso, volto alla sistematica acquisizione di proventi economici ai fini della sua stessa operatività, del suo rafforzamento e della sua espansione”.

La sentenza Contrada
Di Peri ha anche richiamato la sentenza della Cedu sul caso di Bruno Contrada parlando di “annullamento” della sentenza. “La Corte europea dei diritti dell’Uomo di Strasburgo – ha sostenuto il legale – annullerà la sentenza di condanna per Marcello Dell’Utri, proprio come ha già fatto con Bruno Contrada, ma questa sentenza probabilmente arriverà quando Dell’Utri avrà scontato già la sua pena”. Quindi ha criticato duramente il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, definendolo un “reato astratto”.
Certo è che nella sentenza della Cedu si dichiara che l’ex numero tre del Sisde non doveva essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa perché, all’epoca dei fatti, il reato non “era sufficientemente chiaro” in quanto “il reato di concorso esterno in associazione mafiosa è stato il risultato di un’evoluzione della giurisprudenza iniziata verso la fine degli anni ’80 e consolidatasi nel 1994”. Tuttavia ciò che si finge di non sapere è che il reato di Concorso esterno si rinviene pacificamente in due articoli del codice penale: 416 bis e 110. Inoltre la configurabilità del reato era già emersa ben prima della sentenza Dimitry del 1994 come dimostra anche un passo della sentenza-ordinanza conclusiva del maxi-processo “ter” (17 luglio 1987), impostato dal pool di Falcone e Borsellino: “Manifestazioni di connivenza e di collusione da parte di persone inserite nelle pubbliche istituzioni possono – eventualmente – realizzare condotte di fiancheggiamento del potere mafioso, tanto più pericolose quanto più subdole e striscianti, sussumibili – a titolo concorsuale – nel delitto di associazione mafiosa. Ed è proprio questa ‘convergenza di interessi’ col potere mafioso… che costituisce una delle cause maggiormente rilevanti della crescita di Cosa nostra e della sua natura di contropotere, nonché, correlativamente, delle difficoltà incontrate nel reprimerne le manifestazioni criminali”.

Accusa ai pentiti
Con la sua arringa l’avvocato di Dell’Utri ha anche attaccato la gestione dei collaboratori di giustizia e la genuinità delle rivelazioni di alcuni di loro bollandoli come “intrinsicamente inattendibili”. “I collaboratori sono uno strumento importante, ma vanno gestiti in una certa maniera – ha detto il legale – E invece nel nostro Paese innanzitutto ci sono state maglie di ingresso troppo larghe nei programmi di protezione. Se si vuole che le loro dichiarazioni siano genuine bisogna isolarli sin dalle prima battute come avviene in America dove chi si pente soffre, non come da noi che possono poi uscire dal carcere, vedere i familiari“. Un attacco chiaro e diretto nei confronti di collaboratori come Antonino Giuffré (che nel dibattimento aveva definito Dell’Utri come garante del rapporto Cosa nostra-Forza Italia – ma anche Gaspare Spatuzza che ha parlato dell’incontro avuto con Giuseppe Graviano al bar Doney in cui il boss di Brancaccio gli disse che con Berlusconi e Dell’Utri c’avevamo il Paese nelle mani.
Le dichiarazioni di Spatuzza hanno avuto una progressione – ha detto Di Peri – la norma prevede che i collaboratori debbano dire tutto quello che sanno entro i 180 giorni ma nel verbale illustrativo dei primi sei mesi di Spatuzza non c’è neanche una parola su Berlusconi e Dell’Utri”. E se da una parte è vero che la legge, la Fassino-Napolitano, in vigore dal 2001, ha stabilito l’obbligo per i pentiti di dire nei primi sei mesi ciò di cui parleranno, la Cassazione ha stabilito nel 2009 che le dichiarazioni rese dai pentiti dopo 180 giorni dall’inizio della collaborazione, sono utilizzabili ai fini investigativi e anche in dibattimento qualora, in quella sede, vengano confermate.
Nel corso dell’arringa Di Peri ha anche parlato del teste-imputato, Massimo Ciancimino, definendolo “un istrione e un pasticcione” che “solo nel 2009 Massimo Ciancimino parla delle presunte lettere del padre a Dell’Utri. E un anno dopo dalle sue prime dichiarazioni riferisce di incontri tra Provenzano e Dell’Utri”. Quindi ha ricordato che già nel processo contro Dell’Utri le sue dichiarazioni furono definite “contraddittorie” tanto che non fu ascoltato in dibattimento.
Di Peri ha criticando la ricostruzione dei pm nella requisitoria e laddove i collaboratori di giustizia hanno parlato della “voce sparsa tra i mafiosi di votare a Forza Italia è solo perché si trattava di un’adesione sorta spontaneamente e non per dei patti, perché era garantista su temi di giustizia”. “E’ avvenuto in passato – ha detto Di Peri – con altri partiti, votando radicale, socialista, laddove questi partiti parlavano di attenuazioni del regime carcerario ed una legislazione che difendesse di più l’imputato cittadino”.
Tra le dichiarazioni bollate come inattendibili o inverosimili anche quelle di Ezio Cartotto, e di Cucuzza il quale aveva raccontato degli incontri tra Mangano e Dell’Utri e del tentativo di correzione del decreto Biondi, con l’inserimento sottobanco di disposizioni che favorivano Cosa nostra.

Le intercettazioni di Riina e Graviano
Altro tema affrontato nell’arringa ha riguardato le intercettazioni in carcere dei boss Totò Riina (oggi deceduto) e Giuseppe Graviano. Secondo Di Peri il capomafia corleonese, le cui conversazioni durante il passeggio con il codetenuto Alberto Lorusso furono captate nel 2013, “sapeva benissimo di essere registrato e per questo ha parlato con il suo interlocutore, pur sapendo di essere intercettato, e ha seminato messaggi dappertutto per continuare a sostenere il suo ruolo di vertice“. “Io non sostengo che Riina fosse rimbambito e che parlava in libertà – ha detto ancora – era vigile e attento, come è sempre stato nei processi di mafia. Riina è stato protagonista delle vicende giudiziarie da 50 anni e ha voluto esserlo fino all’ultimo. In questo processo non si è perso una sola udienza, non ha mai rinunciato. Ha letto i giornali e visto la tv, conosceva benissimo i meandri probatori per averli appresi anzitempo nell’ambito del processo per concorso esterno e proprio per questo ha parlato con il suo interlocutore pur sapendo di essere intercettato“. Quelle parole del Capo dei capi, secondo l’accusa sono particolarmente importanti e non mancano riferimenti proprio a Marcello Dell’Utri o a Silvio Berlusconi. Di particolare rilievo l’intercettazione del 22 agosto 2013, quella dove il Capo dei capi fa riferimento a Silvio Berlusconi. “Però in qualche modo mi cercava – diceva il boss – poi mi ha mandato a questo per incontrarmi e mi cercava… perché l’ho messo sotto per il fatto di Palermo… fatto cadere le antenne…”. E poi ancora continuava: “Ci siamo arrangiati gli abbiamo fatto questo ammonimento e non l’ho cercato più (…). Poi scimuniti di mio cognato e Brusca ci sono andati a parlare… non lo ha capito Bagarella che era inaffidabile?”. E poi ancora: “Mio cognato cercava Dell’Utri, ma che di dovevano dire a Dell’Utri? Ma noi altri abbiamo bisogno di Giovanni Brusca per cercare Dell’Utri? Questo Dell’Utri è una persona seria… Che c’è bisogno di Dell’Utri per farsi presentare lo stalliere?”.
Anche le intercettazioni di Graviano con il camorrista Umberto Adinolfi, secondo Di Peri, non sarebbero “genuine” in quanto entrambi erano “consapevoli di essere registrati”.
Infine è tornato ad affrontare polemicamente la registrazione del 10 aprile 2016, quella in cui il boss di Brancaccio parla al suo compagno d’ora d’aria, nel carcere di Ascoli Piceno, di Silvio Berlusconi e da cui, secondo l’accusa, emergono dichiarazioni pesanti in cui il capomafia sembrerebbe voler attribuire a Berlusconi il ruolo di mandante delle stragi del 1992-1993. “Berlusca mi ha chiesto questa cortesia… per questo è stata l’urgenza…”. Il riferimento a “Berlusca” compare in altri punti della conversazione ma citando le considerazioni del consulente della difesa, Indorato, nella prima occasione la parola detta dal boss sarebbe “Bravissimo” mentre le altre due non vi sarebbero in quanto in quel tratto, a suo dire, il dialogo tra i due mafiosi sarebbe incomprensibile. Diversamente i periti della Corte e quelli dell’accusa confermano di sentire “Berlu” così come la parte “siccome iddu, le elezioni… rnari la Sicilia”. Un punto su cui la Corte è chiamata a fare chiarezza.
Nel concludere il suo intervento Di Peri ha dunque chiesto di “emettere sentenza di non potersi procedere” e in via subordinata “l’assoluzione perché il fatto non sussiste”. Il processo è stato dunque rinviato al 29 marzo quando sarà la volta delle discussioni degli avvocati D’Agostino (Ciancimino), Cianferoni ed Anania (Bagarella).

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da AntimafiaDuemila.com

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