di Lorenzo Baldo e Aaron Pettinari
“Suo contributo non è ‘oro colato’ ma neppure da cestinare pregiudizialmente”
“Massimo Ciancimino ha evidenti e molto gravi colpe, ma è stato un testimone importante, un teste privilegiato. Il suo contributo dichiarativo non deve essere esaltato o preso come ‘oro colato’. Ugualmente non può essere pregiudizialmente cestinato buttando via il bambino insieme con l’acqua sporca ma va vivisezionato e valutato con approccio laico. Diverse sue dichiarazioni risultano riscontrate dalle parole di altri soggetti, collaboratori di giustizia e non”. Il sostituto procuratore nazionale antimafia, Nino Di Matteo, sceglie con attenzione le parole, durante il terzo giorno di udienza dedicato alla requisitoria del processo sulla trattativa tra Stato e mafia, in corso davanti alla Corte d’assise di Palermo, per affrontare la delicata questione del contributo offerto dal figlio dell’ex sindaco di Palermo. “Questo non è un processo imbastito sulle sole dichiarazioni di Ciancimino – ribadisce in aula il pm – ma ci sono diversi elementi di prova che riscontrano proprio quanto detto da quest’ultimo. Elementi di prova che fanno affermare con certezza che quella trattativa iniziò e si sviluppò in maniera significativa nel periodo tra la strage di Capaci e quella di via d’Amelio”.
Ribadendo il ruolo avuto dai carabinieri del Ros nell’avviamento di quel dialogo con Cosa nostra, Di Matteo evidenzia come nel corso della trattativa tra Stato e mafia “tra la strage di Capaci e la strage di via D’Amelio” il boss mafioso Totò Riina “venne sostituito da Bernardo Provenzano” perché ritenuto “più affidabile” e “più malleabile”.
“Nell’ultima parte della scorsa udienza ho ricordato e sottolineato come i primi a parlare, in termini espliciti, di una trattativa avviata con Vito Ciancimino, sono stati gli imputati Mario Mori e Giuseppe De Donno – spiega il pm Di Matteo – Nel momento in cui furono sentiti come testimoni davanti alla Corte d’assise di Firenze. Vi ho ricordato come non sia importante solo il riferimento testuale del termine trattativa ma come più importante sia il contenuto delle affermazioni dell’allora colonnello Mori con riferimento a Ciancimino”. “Oggi ricorderemo i tanti elementi di prova che ci consentono di acclarare ulteriormente che il dialogo che si sviluppò tra i vertici del Ros ebbe i connotati di una vera e propria trattativa – dice ancora il magistrato – L’istruzione dibattimentale ha consentito di acclarare che Riina, allora capo della Commissione provinciale, fece avere al suo tramite Antonino Cinà e a Ciancimino l’elenco richiesto per smettere la strategia stragista”. Non solo. Per il pm Di Matteo “l’istruzione dibattimentale ha dimostrato che i Carabinieri ricevettero da Ciancimino questo elenco di richieste omettendo, per continuare efficacemente la trattativa segreta, di riferire all’autorità giudiziaria”.
Per il pm Di Matteo “è stato dimostrato che proprio in virtù dell’eccessiva pretenziosità delle richieste di Riina e la sostanziale inaccoglibilità fattuale, si acquisti la consapevolezza che lo steso Riina era diventato una pedina da estromettere dalla partita a scacchi che era in corso. Tanto che sul versante mafioso, si procedette alla sostituzione di Riina con Provenzano. Non intendo dire che la decisione venne presa dal versante mafioso esclusivamente, ma nella interlocuzione tra Stato e mafia, alla figura di Riina si sostituì quella di Provenzano, che veniva considerato più affidabile e malleabile da chi conduceva la trattativa”.
Il pm Nino Di Matteo durante la requisitoria odierna del processo Trattativa Stato-mafia © Linda Grasso
Il contributo di Ciancimino
Proseguendo la requisitoria Di Matteo torna sulle dichiarazioni del figlio di Don Vito: “E’ ormai diventato un facile bersaglio c’è una campagna contro di lui, non gli hanno perdonato di aver smosso le acque placide di una vicenda che doveva restare definitivamente sepolta dietro il muro di gomma di non dichiarati segreti di stato”.
Ciancimino jr viene descritto dalla Procura di Palermo come una figura “controversa e discussa” ma allo stesso tempo viene evidenziato come “dopo l’inizio della sua collaborazione, alcuni rappresentanti delle istituzioni hanno recuperato la memoria. Mi riferisco a Liliana Ferraro, a Claudio Martelli, a Luciano Violante, che hanno chiesto di essere sentiti dalla procura di Palermo, anche se su quei mesi del 1992 erano già stati citati nei processi per le stragi”. Inoltre è sempre stato Massimo Ciancimino “dopo il suo arresto, a far ritrovare l’esplosivo nella sua abitazione”.
Le interlocuzioni con gli ufficiali del Ros, “papello” e “contropapello”
Con le sue dichiarazioni Ciancimino jr, di fatto, accusa gli ex ufficiali del Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno di aver gestito una vera e propria trattativa con il padre, che avrebbe consegnato un “papello” con le richieste di Totò Riina per fermare le stragi. Circostanza sempre negata dai carabinieri che hanno sempre collocato gli incontri con Vito Ciancimino “finalizzati ad arrestare Riina”, dopo la strage di via d’Amelio. Ciancimino jr, invece li contestualizza nel giugno ’92. “I carabinieri spostano la data – dice Di Matteo – perché ossessionati dal timore di poter essere considerati, moralmente corresponsabili, con loro sciagurata trattativa, dell’accellerazione che ha portato all’uccisione di Borsellino”. Timore che si rafforza nel momento in cui sentenze come quella di Firenze o quella sulla mancata perquisizione del covo di Riina dicono che “l’iniziativa di Mori e De Donno ha oggettivamente contribuito a rafforzare l’idea di Riina che le stragi pagassero, che fossero utili a Cosa nostra in considerazione di quella trattativa avviata”.
“Massimo Ciancimino – ricorda il pm riferendosi al dialogo con gli ufficiali del Ros – racconta che il padre venne rassicurato da Mori e De Donno sulla serietà della loro proposta in funzione di personaggi politici che gravitavano dietro le loro spalle. Ha anche riferito che quella trattativa sfociò in un papello di richieste che Salvatore Riina, negli ultimi giorni di giugno, tramite Cinà, fece pervenire. Racconta poi che il padre, leggendo quelle richieste commentò: ‘le solite teste di minchia’. Era riferito alle eccessive esosità delle richieste che comunque diede ai Carabinieri. Il padre fece copia di quel documento. Dopo la ricezione del papello l’interlocuzione si sposta da Riina verso Bernardo Provenzano. La trattativa si evolve e viene effettuata una controproposta, una sorta di contropapello sempre contenente benefici che potevano costituire un segnale di dialogo verso Cosa nostra. A quel punto il rapporto Ciancimino-Carabinieri si indirizza verso un altro obiettivo, la cattura di Riina”.
Liliana Ferraro in uno scatto d’archivio © Corbis
Signor Franco e “Rossetti-Rosselli”
Sempre parlando del contributo del figlio dell’ex sindaco di Palermo Di Matteo sottolinea come questi “non ha mai goduto di alcun trattamento di favore da parte della Procura di Palermo e quando la scientifica accertò che un biglietto consegnato presentava delle anomalie, scattò l’arresto del testimone nel giro di un’ora”. Per il pm, ad un certo punto, nel corso del suo contributo dichiarativo “Ciancimino si è volontariamente suicidato, creando i presupposti per non essere creduto neppure nei punti in cui ha detto la verità. Un tentativo eterodiretto ma assecondato, un suicidio assistito ed eterodiretto che però non riuscirà a portare all’azzeramento del suo apporto dichiarativo”.
In particolare sono due gli “aspetti critici” che il sostituto procuratore nazionale antimafia mette in evidenza come “privi di veri e significativi riscontri”: la figura del “signor Franco” e quella di “Rosselli-Rossetti”. “Massimo Ciancimino non ha mai, con certezza, individuato ed indicato l’identità del signor Franco – ricorda Di Matteo – Lo ha espressamente escluso anche in aula. Questo è un dato di fatto. Su questa vicenda dei rapporti del padre, e poi suoi, con ambienti dei servizi riteniamo che Massimo Ciancimino sia rimasto a metà del guado. E dopo aver accennato i rapporti del padre Vito con esponenti dei servizi, caricando la figura del ‘signor Franco’, non ha voluto e non ha trovato il coraggio di rivelare quanto a sua conoscenza sulla questione complessiva dei rapporti del padre con elementi della struttura di sicurezza, che lui ha mediato. Rapporti che, siamo certi, il padre aveva. Roberto Ciancimino dice che il padre conosceva per tempo il reale contenuto dei dossier dei servizi di sicurezza nei suoi confronti; e dei rapporti che Vito Ciancimino aveva con i mafiosi, con la politica e con l’imprenditoria”.
Altra vicenda critica è la questione “Rossetti” con i documenti che sarebbero stati consegnati da quest’ultimo tra cui era presente anche quello con l’appunto su De Gennaro che costa al figlio di don Vito l’imputazione di calunnia al processo. “La considerazione è identica – dice Di Matteo – ma c’è anche un’aggravante. Mentre può essere plausibile che Ciancimino del signor Franco non ha mai conosciuto l’effettiva identità, non è logicamente sostenibile che Massimo Ciancimino vuole far credere di non sapere chi sia questo soggetto che ha consegnato i documenti e che suggeriva i tempi ed i modi per produrli ai magistrati”.
© Linda Grasso
L’apporto dei pentiti Giuffré e Cancemi
Proseguendo la requisitoria l’accusa mette in evidenza come vi siano anche altre dichiarazioni che costituiscono una prova autonoma e che sono a sostegno dei fatti raccontati da Massimo Ciancimino. In particolare sono quattro i testi che, secondo il pm, forniscono importanti riscontri: Antonino Giuffré, Salvatore Cancemi, Giovanni Brusca e Pino Lipari. In riferimento a Giuffré, provenzaniano di ferro, vengono così ricordate le dichiarazioni sul dialogo avuto con Provenzano quando il boss corleonese assicurò che “Vito Ciancimino era in missione per conto di Cosa nostra con i carabinieri, con i quali aveva un dialogo”. Ed è sempre Giuffré a raccontare come in seno a Cosa nostra si “rideva” sull’ipotesi che la cattura di Riina fosse avvenuta grazie al solo Di Maggio. “E’ Giuffré a raccontare dei sospetti che Provenzano fosse in realtà uno ‘sbirro’ – ribadisce con forza Di Matteo – che vi erano rapporti della moglie con i carabinieri e che nel tempo avesse contribuito alla cattura di alcuni latitanti”.
Seppur non sentito in aula, in quanto deceduto, anche il contributo dell’ex boss di Porta Nuova, Salvatore Cancemi, rappresenta un elemento rilevante per l’accusa. Una collaborazione, quella di quest’ultimo, particolarmente sofferta con l’ammissione della sua partecipazione alla strage di via d’Amelio solo a tre anni dalla redazione dei primi verbali. Per ribadire l’importanza di Cancemi, Di Matteo ricorda le parole di Riina, intercettato in carcere durante il passeggio con Alberto Lorusso (“Cancemi mi dice… che ci dobbiamo inventare che la morte di Falcone… e io gli ho detto… se lo sanno la cosa è finita…”). A cosa si riferiva?
Proseguendo con la requisitoria Di Matteo ricorda la risposta che già nel marzo 1994 Cancemi diede in un interrogatorio tenuto con i magistrati di Roma e Milano. “Alla domanda del pm di Roma se in Cosa nostra, dopo le stragi, era attesa una risposta dello Stato, Cancemi dice: ‘No. In concreto, per quello che sentivo dire da Riina e Biondino, si era certi che lo Stato non avrebbe reagito, i rapporti con altre persone facevano presumere reazioni forti. Riina era convinto che con quegli atti eclatanti avrebbero costretto lo Stato alla trattativa… per rapporti che loro avevano con persone importanti esterne a Cosa nostra’. Questi, a detta del pentito ‘erano convincimenti di Riina e del nucleo dirigente di Cosa nostra, ma gli affiliati di Cosa nostra erano convinti che la reazione dello stato sarebbe stata molto dura”.
Marcello Dell’Utri (condannato a 7 anni per concorso in associazione mafiosa) e Silvio Berlusconi © Ansa
Anni dopo, sempre Cancemi riferirà di un incontro a casa di Guddo, a cavallo tra le stragi del 1992. “Spiega che in quella riunione si trattarono più argomenti – evidenzia il pm – il perseguimento di certi obiettivi con l’elenco di richieste, il discorso di Borsellino che doveva essere fatto e di cui Riina si era preso la diretta responsabilità e il riferimento al rapporto tra Riina, Berlusconi e Dell’Utri. Rapporti che dovevano essere coltivati ‘ora e in futuro’. Una riunione che viene collocata a metà giugno 1992. Ricordiamo che il papello, secondo quanto riferito da Ciancimino, arriva a fine giugno 1992”.
“Non è – afferma Di Matteo – un racconto del relato ma proviene dalla voce di un autorevole capomafia. Sono dichiarazioni che secondo il pm riscontrano quanto ha detto di recente Giuseppe Graviano, intercettato in carcere e di cui si stanno occupando altre procure che hanno riaperto le indagini su Berlusconi e Dell’Utri”. Cancemi anticiperebbe ciò che avvenne due anni dopo nel ‘94, quando Berlusconi divenne secondo l’accusa l’interlocutore governativo dopo le bombe del ‘93. Sarebbe stato lui il nuovo terminale della trattativa fra i boss e le istituzioni. E fu proprio Berlusconi da presidente del consiglio “a scegliere il generale Mario Mori, perno della trattativa, per dirigere i servizi segreti. Cancemi durante la sua collaborazione non raccontò subito di Berlusconi e Dell’Utri. Lo fece solo nel ’98. Anche questo ritardo avrebbe una giustificazione dettata dalla paura di coinvolgere personaggi politici troppo importanti”. Un ricordo tardivo che a detta del pubblico ministero potrebbe scaturire dal fatto che proprio i carabinieri del Ros “gestivano l’iniziale collaborazione di Cancemi”. La requisitoria del processo è ancora in corso in aula davanti alla Corte d’Assise presieduta da Alfredo Montalto oltre a Di Matteo.
(segue)
tratto da Antimafiaduemila.com
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