di Pippo Giordano
Bene! E all’improvviso la grande stampa e la tv s’accorgono che a Palermo c’era un processo che vedeva coinvolti pezzi dello Stato e mafiosi. I media, fatta eccezione per il Fatto Quotidiano, scoprono che a Palermo c’era un magistrato oggetto di minacce di morte. Quel magistrato, Nino Di Matteo, era “immateriale” alla grande stampa e all’opinione pubblica nazionale: lo ignoravano in tutti i modi. Ma non solo i giornalisti, anche personaggi di primo piano, più volte sollecitati a pronunciare una semplice parola di “vicinanza e solidarietà”, specie dopo le minacce di Totò Riina. Costoro non sentivano, non vedevano e non parlavano.
Dopo la sentenza di condanna emessa dalla Corte presieduta dal presidente Alfredo Montalto, tutti si sono accorti che a Palermo esisteva la Magistratura. Già, a Palermo esiste la Magistratura, quella Magistratura che ha pagato un duro prezzo. E d’incanto, dalla silente Conca d’oro, ecco che fiumi e fiumi di parole vengono propinati al grande pubblico. Quel pubblico che in passato aveva sperato in un radicale cambiamento della lotta alla mafia, specie dopo che le strade palermitane e d’Italia venivano intrise di sangue innocente. E invero nulla cambiava. E ad ogni posa di corona d’alloro, magari condita da qualche lacrimuccia ipocrita, poi sparivano con assordante silenzio, rifugiandosi nel proprio ambulacro di potere. Con la sentenza di condanna, sappiamo una parte di verità per certi versi nota anche ai picciriddi: appariva evidente che qualcosa di “anomalo” era intervenuto nelle ore precedenti e prossime alle stragi del 92/93. Il processo sulla trattativa Stato-mafia è stato oggetto di ripetute “accuse” e di calunnie. Un processo che, è bene ricordarlo, volevano farlo fallire. Persino personaggi istituzionali di primo piano compirono atti tendenti ad affossarlo, e la caparbietà di un manipolo di Magistrati lo ha impedito.
Rilevo che, un istante dopo la lettura della sentenza di condanna, una stura di intellettuali radical chic ha iniziato a vomitare giudizi negativi, senza nemmeno attendere la pubblicazione delle motivazioni. Il solito teatrino dei pupi e pupari che si agitano a comando, perdendo di vista che l’Italia è un Paese regolato da poteri liberi e democratici. In ogni caso, se lo vogliono, possono nuovamente recarsi innanzi al Tribunale di Milano e reiterare la pupiata di anni fa. E ai vari produttori di meteorismo e flatulenza, compreso gli amanti dei “cessi”, suggerisco di farsene una ragione. Alcuni “giuristi” nel commentare il processo, giungono a dire che se invece dei giudici laici, ci fossero stati solo giudici togati, la sentenza non sarebbe giunta a condanna.
Mi auguro di cuore che questa sentenza non sia un punto di arrivo ma di partenza: occorre compiere ulteriori indagini per individuare i “mandanti della trattativa”, atteso che già conosciamo gli esecutori. Ritengo sia equo ed opportuno “scavare” nel passato, perché questa trattativa non può essere la sola intervenuta. Ma penso che in passato prima dell’avvento dei “corleonesi”, le “trattative” coi mafiosi erano il modus operandi di alcuni uomini delle istituzioni e del mondo ecclesiale e politico, non solo siciliano.
Ora sento la necessità di far pervenire a tutti i PM del processo trattativa Stato-mafia e alla Corte presieduta dal presidente Montalto, la mia personale gratitudine per essere giunti a sentenza dopo anni di processo. In tutto questo baillamme, le uniche parole pacate, serie, che ho letto sono quelle della figlia di Paolo Borsellino, Fiammetta. Il suo dire mi rallegra immensamente. Le sue sono parole espressive dettate dal cuore senza animosità o acredine e dimostrano, semmai ce ne fosse ancora bisogno, che nelle sue vene scorre il sangue innocente e onesto di suo papà. Grande Uomo di Stato. Il dottor Paolo Borsellino, che ho avuto l’onore di conoscere e con cui ho lavorato nei tre interrogatori di Gaspare Mutolo, avvenuti a Roma, compreso l’ultimo di venerdì 17 luglio 1992. Sarebbe orgoglioso e fiero delle parole pronunciate da sua figlia Fiammetta, incentrate sulla richiesta di verità.
Parlando di trattativa, non posso non fare riferimento al furto dell’Agenda rossa appartenuta a Paolo Borsellino. Quel furto rappresenta una delle pagine nere della nostra Storia e che, insieme alla vicenda Scarantino, descrive un mondo fatto di traditori. Per anni si è scritto e detto che quell’Agenda rossa non sarebbe esistita. Falso! L’Agenda rossa venerdì 17 luglio 1992 era nel pieno possesso di Paolo Borsellino. I vigliacchi sono giunti persino a ridicolizzare le parole della signora Agnese Borsellino e dei suoi familiari, che insistevano nel dire che l’Agenda rossa si trovava all’interno della borsa di Paolo Borsellino, quando uscì di casa per recarsi in via D’Amelio.
Lo Stato italiano ha il dovere di istituire una Commissione parlamentare ad hoc per indagare a 360 gradi partendo dagli anni ’60, sino alle stragi del 92/93. Sono convinto che scriveremmo una pagina diversa della lotta alla mafia, soprattutto nei rapporti tra mafia e politica. Se qualcuno pensa di raccontarci “balle” dicendo che Cosa nostra è diventata forte grazie alla sola intelligenza del “peri incritati” Totò Riina, compie un oltraggio non solo al Popolo italiano, ma a tutte le vittime della violenza mafiosa.
Caro dottor Di Matteo, lei auspica un “pentito” di Stato, spero che l’appello venga raccolto, ma ho i miei dubbi visto che nonostante i corpi ancora fumanti di via D’Amelio, delle iene banchettarono asportando l’Agenda rossa. La dignità per loro è un optional. Piuttosto, lancio il mio invito ai fratelli Graviano, affinché si decidano a dire la verità sulla trattativa Stato-mafia: dovrebbero farlo per i loro figli, per Don Pino Puglisi e per loro stessi, riscattando quell’onore perduto.